Giugno
Sono cresciuta in una terra di campagna, tra campi di grano e lunghe strade bianche attraversate solo da cani randagi e qualche bicicletta.
Avevamo un abete accanto al giardino, non so se l'avesse piantato mio padre, io ci ero molto affezionata, perché mi sedevo sotto i suoi rami e gli raccontavo le mie storie di scuola.
Ero convinta che quell'albero mi ascoltasse, credevo che la sua voce fosse il vento e che quando c'era la bufera lui fosse arrabbiato proprio con me.
Per fortuna che non succedeva spesso che il cielo diventasse scuro borbottando parole senza senso con l'aiuto della pioggia, per cui tornavo subito dopo a chiedergli scusa.
Tutti i giorni della mia infanzia ho lasciato uno sguardo a quell'angolo d'ombra che mi proteggeva dall'insistenza del sole.
Avevo circa dodici anni quando seppellii tra la resina e le pietre una piccola chiave, che avevo trovato per caso.
Pensavo che lì sarebbe rimasta al sicuro e che nessuno avrebbe mai saputo il mio segreto.
L'abete diventava sempre più grande finché non raggiunse un'altezza per me infinita.
Si trasferivano diverse famiglie d'uccelli sulla cima e a primavera sembrava d'avere un'orchestra in casa.
Non c'era niente di più bello che vedere piume volteggiare nell'aria ed il verde tutt'intorno.
Per molto tempo passai le estati a inseguire il litigio delle api e a sbriciolare le nuvole con la fantasia.
Ricordo che un giorno decisi di dare un nome al mio abete. Giugno. Si, si sarebbe chiamato giugno, perché era il mese in cui i suoi colori prendevano vita e lo facevano diventare un incanto.
Aveva il tronco enorme, io gli dicevo di non nutrirsi troppo, perché poteva ingrassare e imbruttirsi.
Le radici dovevano essere molto profonde. Mi immaginavo che ci fosse un mare sotto ai suoi piedi e che le acque lo cullassero ogni sera prima di dormire.
Qualche volta gli raccontavo delle favole per farlo divertire, perché secondo me soffriva la solitudine. Se non ci fossi stata io a prendermene cura, penso sarebbe stato molto triste.
Giugno sembrava imbarazzato quando gli aerei lo fissavano dall'alto, non lo so, magari pensava che lo spiassero per raccontare a chiunque dei nostri incontri.
Gli parlavo spesso di mia madre, dei suoi ottimi piatti e della sua maniacale attenzione per l'ordine.
Credo che sentisse spesso le sue urla, quando mi sgridava per qualcosa di sbagliato.
Una cosa non sono mai riuscita a svelargli, la prima volta che mi ero innamorata.
In quel periodo evitavo spesso di parlare, passavo le ore a fissare le vigne del vicino, contando gli acini d'uva.
Non penso che lui percepisse la mia scarsa attenzione, ma mi rendevo conto che non riuscivo a dirgli la verità, lui non era più l'unico dei miei pensieri, ora era l'amore a occuparmi il cuore e la mente.
I miei non erano timori infondati, nel suo piccolo sapevo che Giugno mi voleva bene e che non mi avrebbe mai capito.
Non aveva importanza se era una cosa impossibile credere che un albero provasse emozioni, quel che conta era che lui aveva combattuto sempre al mio fianco, aiutandomi a superare gli interminabili ostacoli dell'adolescenza e della vita.
Lui era parte di me, anche se non rispondeva alle mie domande o non esprimeva mai nulla.
Ora Giugno non esiste più, i miei genitori l'hanno dovuto tagliare, perché aveva una larva che l'aveva divorato piano piano.
Quell'abete è stato il mio punto di sfogo, un faro verde che ha illuminato il mio cammino
facendomi sognare continuamente.
E così, ancora oggi, quando mi capita di tornare a casa, osservo quel vuoto e mi lascio rapire dalle voci d'un tempo.