Gli aquiloni
Ricordo quella cicatrice sulla tua fronte. Un verme pallido, che veniva giù, perpendicolare alla radice del naso, infrangendo le rughe orizzontali, vere onde, fatte dai tuoi pensieri, mi dicevi. Quando mi tenevi in braccio, padre, ne toccavo la dura consistenza. Mi piaceva quel racconto di te, bambino, che t’eri illuso di far alzare in volo un aquilone, nel corridoio di una vecchia e buia casa di via Assarotti. Ne avvertivo l’epos dell’avventura spietata dei bimbi. L’infrangersi della porta vetrata, nel tuo incauto tentativo. A te ho pensato, da grande, alla tua cicatrice sulla fronte, quando ho incontrato gli aquiloni. Nella mia adolescenza postbellica, a Genova, non ne avevo visti, neanche ai compagni ricchi di via Crocco. Solo da adulto, un autunno di Berlino, in un tramonto di fosche nubi, coriandoli colorati, altissimi, flottanti nel vento, anelavano di oltrepassare un muro invalicabile. Ero a est, una landa povera e spenta che guardava, con meraviglia, le luci sfolgoranti di un mondo libero, aldilà del filo spinato. Sulla deserta piazza Tienanmen, tra lo sguardo amimico delle guardie rosse, in una notte di pece, lanterne di favole antiche, portate da un vento di libertà, volavano alte, in un silenzio duro a sentirsi. Ai bordi delle favelas di Baìa, ragazzi nudi, dalle carni crostose, avevano piedi scalzi, tra lame di vetri di una discarica; davano strappi rabbiosi ad aquiloni ruggenti nel vento dell’oceano. Sento ancora le loro grida, nella lotta impari. Ne acquistai uno, da un cinese, anni fa, su di una spiaggia del nostro litorale. Andava montato e fatto volare. E’ rimasto nella vecchia casa, al trasloco. E’ mai consentito, a un vecchio della mia età, di far volare un aquilone, senza suscitar scalpore? Non credo.