Gli occhi di Corinne
Gli occhi di Corinne, grandi, malinconici, stranamente sporgenti, chiari come un lago, caddero sul bordo superiore del diario e si soffermarono per un attimo sulla data: era il giorno del suo compleanno.
Corinne aveva smesso da tempo di festeggiarlo. Da quando i suoi genitori, Michele e Anna, che ella era solita chiamare per nome, l'avevano improvvisamente svegliata, all'alba di un terribile giorno.
Lei e la piccola Odette, la sorellina che Corinne adorava e da cui non sapeva staccarsi neanche di notte, quando, spente le luci, era sufficiente chiudere gli occhi affinché il sonno l'afferrasse e la trasportasse sulle ali di un sogno, sempre uguale, in cui finalmente poteva rivivere il mondo che aveva conosciuto anni prima.
Forse perché era allora molto piccola, otto anni appena ‐ adesso andava fiera dei suoi diciott'anni ‐ non aveva capito molto di quanto era successo in quel surreale, catastrofico giorno, dieci anni prima.
Abitavano in un piccolissimo villaggio delle Alpi Giulie di cui aveva quasi dimenticato il nome: Losaz, forse.
Erano poco più di quattro case ai lati d'una strada asfaltata, piena di curve, che arrancava su, su, fino alla vetta del grandioso monte Matajour che lei fissava ogni mattino, spalancando le persiane in legno della sua finestra che s'affacciava a levante. Poteva così osservarne le possenti fiancate che salivano simmetriche con dolcissima pendenza, in alto, in alto fino al cielo.
A causa della sua giovanissima età non conosceva molto il monte; vi era stata poche volte. Una volta quando era molto piccola, cinque anni o forse meno, trasportata dalle forti spalle del padre.
Era stato un viaggio fantastico, che ella non avrebbe più dimenticato e che ritornava, immutato, ogni volta che chiudeva gli occhi per abbandonarsi al sogno.
Era un giorno di un sole terso, accecante. Le poche case del paese erano appena scomparse dietro la prima curva che, in un pianoro poco distante dalla strada, appena sotto il suo livello, apparve qualcosa che Corinne non aveva mai visto: un tappeto di fiori viola, numerosissimi, luminosi, così fitti da sembrare un mare.
Corinne tirò i capelli neri del padre ‐ era seduta a cavalcioni sulle sue spalle ‐ e lo costrinse a fermarsi.
Corse poi su quel tappeto viola con tutta la forza che aveva nelle gambe e l'aria che aveva nei polmoni.
Udì la risata squillante del padre e ne fu felice: il padre non rideva quasi mai. Aveva un carattere malinconico e taciturno. I suoi occhi grigi erano come gravati da un peso, un segreto che Corinne non doveva conoscere.
Poi Michele la raggiunse, la sollevò sulle spalle e riprese il cammino.
Giunsero ai lati d'un bosco di larici, abeti e pini, che, altissimi, si scagliavano contro l'azzurro del cielo, regalandogli il colore verde delle cime.
Il vento, filtrando fra i rami, produceva assonanze strane, simili al rombo di treni lontani.
S'inoltrarono nel bosco e furono subito catturati dalla sua ombra cupa, dai suoi colori scuri, dal verde del muschio e dell'edera che abbracciava asfissiante i tronchi dei pini; dai suoi odori intensi e inebrianti.
Foglie secche, tronchi marci e funghi d'ogni genere e aspetto: boleti macchiati di rosso, bianche amanite, verdi colombine .
E piante stranissime che Corinne non aveva mai visto: piante di luppolo che s'arrampicavano lungo i muri scrostati d'un rudere, lasciando pendere i loro fiori come piccole lanterne; lunghe propaggini spinose di rovi che sostenevano nere bacche. E poi piante di ribes e mirtilli, fiori di angelica e rododendri.
E infine, ai margini del bosco, proprio negli angoli dove l'ombra era più scura, chiazze di neve.
Dio, che miracolo la neve!
Corinne l'osservava stupita di tanto bianco: la cosa più bianca che potesse esistere. Più bianca delle perle, più bianca dei petali d'un giglio, più bianca del bianco dei suoi denti, più bianca dei pensieri.
Corinne la stringeva fra le mani, stupita di tanto freddo e delle sue manine che si arrossavano.
La lanciava sul volto del padre, felice di vederlo sorridere, finalmente. Quel padre che non sorrideva mai e Corinne non sapeva perché: era così bello sorridere.
La primavera successiva Corinne non riuscì più a scoprire la neve, neanche fra gli angoli più remoti del bosco, neanche sotto le rocce che i raggi del sole, sempre più accecante, non riuscivano a lambire.
Per raggiungere la neve occorreva salire sempre più in alto, risalire quel sentiero del monte che lo costeggiava tutto, e che, fra ampi spazi e panorami infiniti, portava fino alla cima.
Finché, un giorno, la neve scomparve anche dalla cima.
L'aria divenne più calda: si poteva vederla salire, in lento tremolio, dalle rocce infuocate dal sole.
I campi che pochi anni prima erano verdi avevano assunto un irreale colore dorato: l'erba era divenuta disseccata e rada, bruciata.
Anche l'azzurro del cielo era stranamente cambiato: era divenuto più chiaro e luminoso, accecante, tanto che si faceva fatica a guardarlo.
E sparì anche il bosco, distrutto da un incendio simile a quelli che, numerosi, funestavano il fondo valle. Corinne ne poteva vedere le scie di fumo sporgendosi dal terrazzino della sua casa che s'affacciava ripida sull'ampia vallata sottostante, consentendo d'osservare a colpo d'occhio la pianura, il letto del fiume che scorreva in lontananza e che da tempo era asciutto.
Erano scie nere e spettrali che si sollevavano dalle macchie ancora verdi trasformandole in lande desolate.
Fu una notte che, per il caldo, non riusciva ad addormentarsi, che Corinne seppe la verità, o almeno parte di essa.
Si girava e rigirava nel letto, rivoltandosi fra le lenzuola che sembravano infuocate. Non riusciva a capire perché facesse così caldo: l'estate era passata da un pezzo e adesso avrebbe dovuto essere novembre.
Tuttavia nulla faceva intuire che l'autunno era arrivato e stava per passare.
Non ricordava una pioggia da cinque o sei mesi. Perfino la sorgente al limitare del bosco, perfino il laghetto da essa alimentato e nelle cui acque limpide Corinne adorava nuotare, erano asciutti. Grandi foglie di ninfea giacevano marce sul fondo da cui l'acqua era sparita e rimaneva solo una fanghiglia melmosa.
Corinne s'alzò dal lettino e andò sul ballatoio del balcone, illuminato da una luna che splendeva irreale su un cielo totalmente sgombro da nuvole.
Sul ballatoio s'affacciava anche la finestra della camera da letto dei suoi genitori. Spalancata anch'essa: anche i suoi genitori non riuscivano, evidentemente, ad addormentarsi, dato che Corinne li udiva parlare. Cercavano di mantenerne basso il volume, ma Corinne intuì egualmente che le loro voci erano ansiose, concitate, come stessero litigando piano, per non svegliarla. O come fossero fortemente preoccupati e facessero di tutto affinché quanto stavano dicendo non fosse udito dalla bambina.
Ma Corinne udì egualmente.
“Dobbiamo tornare a valle.” disse Michele.
“Ma ti rendi conto che significa?” chiese Anna, con tristezza e rabbia nella voce.
“Certo, Anna. Significa che dobbiamo rassegnarci a vivere sottoterra.”
“Mai. Mai. Non mi rassegnerò mai a lasciare questo mondo e ad andare a vivere dove non filtra la luce del sole. Dove non cresce un albero o un filo d'erba!” urlò Anna.
“Sss... ” mormorò Michele, “Le bambine potrebbero sentirci. È per loro che dobbiamo farlo. Capisci? Non abbiamo più acqua. Stiamo per finire le scorte di cibo. E sai benissimo che il raccolto del prossimo anno è andato completamente distrutto: non piove da sei mesi”.
“Come è potuto succedere?” fece Anna, soffocando a stento i singhiozzi.
“È stata la nostra stupidità, Anna: il ritenerci simili a Dio, al di sopra di tutto, immortali. È stato questo senso d'onnipotenza che ci ha resi ciechi, impedendoci di vedere quello che era sotto i nostri occhi: il clima che cambiava, la temperatura che aumentava, regioni di ghiaccio che si scioglievano, l'aria che diveniva ogni giorno più avvelenata. Terre fertilissime trasformate in deserto. L'umile, comunissima acqua, divenuta un bene per pochi. Ma tutto questo non è stato sufficiente a farci capire... ”
“Abbiamo sacrificato l'uomo alle cose” aggiunse Michele, e stette lungamente in silenzio, come spezzato.
“E Dio... si è vendicato?” chiese Anna con un filo di voce, ma era una domanda che non attendeva risposta. O un sospetto a cui Anna vietò di emergere.
“Svegliatevi, dobbiamo partire.” Furono queste le poche, terribili parole che disse il padre il mattino dopo. Così, ammassate le poche cose sul camioncino, scesero a valle, verso l'unica via di salvezza.
Da allora Corinne, Michele, Anna e la piccola Odette vivono nella grande megalopoli sotterranea: la vita non s'arrende mai.
Vi è ancora il sole che sorge al mattino, ma è un livido globo di luce artificiale.
Vi sono ancora alberi e fiori, funghi e frutti, ma sono di plastica.
Vi è ancora acqua che scende dai rubinetti, ma è sempre la stessa, e ha un sapore acre.
Soprattutto, non vi è più la neve.
Gli occhi di Corinne, grandi, malinconici, stranamente sporgenti, chiari come un lago, si portano sul bordo superiore del diario e si soffermano per un attimo sulla data: 12 aprile 2030.
È il giorno del suo compleanno.
Corinne ha smesso da tempo di festeggiarlo .