Gli occhiali

La pietra è larga, una poltrona costruita dal vento e dalla pioggia e dal tempo che le si sono versati sopra, vi resto seduto su, allungo le gambe e sorrido.

I piedi nudi sul tappeto mi regalano sempre una sensazione di piacere, io e te su questo divano color delle foglie in autunno, i nostri occhi calati fra le pagine di un libro, i tuoi occhiali che sistematicamente scivolano sul naso. Dovrò stringere le viti delle asticelle un giorno o l'altro, te ne lamenti sempre. Mi sfuggono quotidianamente i particolari che rendono conciliabile la convivenza, piccolissimi particolari come le piccolissime viti degli occhiali, che nella microscopica potenza della loro misura hanno pur aperto un varco. Hanno trasformato in canale incontenibile la traccia nella quale erano state inserite, una vite di pochi millimetri balla nell'asticella che scivola sotto il peso delle lenti, lima pian piano la conformazione e ne indebolisce la struttura, e gli occhiali cascano inesorabilmente a ogni istante sulla punta del naso, e tu li tiri su ormai per inerzia, non ti innervosisci più, è diventato un gesto abituale, rassegnato. Aspettavi che fossi io a ricordarmi di un tuo bisogno, lo pretendevi: “È dovere dell'anima sapersi prendere cura l'uno dell'altro quando si è in coppia, deve essere l'altro a saper anticipare il bisogno dell'uno, deve essere la voce interiore ad avere la supremazia, quando si è in coppia...“
Non ti capivo Marta, non ti capivo proprio quando mi dicevi queste cose.
Quant'è più semplice che tu mi chieda esplicitamente quel che ti bisogna. Non puoi dirmi: “La vite degli occhiali è da stringere? No?”
No, vuoi che sia io ad accorgermi che gli occhiali non ti stanno più sul naso, che le aste sono slargate e che tu non puoi usare il cacciavite e stringere quella benedetta vite perché senza occhiali non ci vedi.
Ti rigiri sul divano, cambi continuamente posizione, ti guardo di sottecchi mentre arricci il naso o mordi il labbro superiore. La lettura ti avvince, è lampante che sei trama nel tessuto del libro che stai leggendo, sei in uno di quei momenti in cui il racconto è avvincente movimento. Se continuassi a studiarti, sono certo che indovinerei le scene in cui sei immersa. Mi piace studiarti e far finta di essere completamente avulso dalla realtà del momento. Sei qui ma non ci sei, il tuo mondo è sprofondato nelle pagine che ti avvolgono e rapiscono, ti proteggono da me, il tuo compagno che di compagnia ne fa poca. Il tuo compagno che non sa anticipare le tue esigenze perché non sa guardare e recepire, dalla variazione di luce e di intensità dei tuoi occhi, quel che dicono senza parlare. O forse è proprio perché ho letto troppo in quel tuo sguardo che ho innalzato tra me ed esso un invisibile e potente schermo. Quando ho iniziato a non voler più ascoltare le parole senza suono? Forse avevi ragione tu, non volevo anticipare i tuoi bisogni, non sapevo e non potevo soddisfarli. Ti ho persa per strada mentre camminavo percorsi miei, geloso del mio tempo. Non ti ho fatta entrare volutamente. Mi bastava la certezza di ritrovarti ad ogni incrocio. Inseguivo la mia crescita rifiutando e nascondendo il ruolo di figlio‐padre‐compagno, proiettandomi tenacemente in uno specchio di uomo, di adulto autosufficiente, e non mi son accorto di riflettere la sagoma di quel che un bambino nasconde alla propria madre, l’insicurezza. Ma tu non eri mia madre, quante volte me lo hai detto e spiegato e poi urlato, e come per gli occhiali alla fine ti sei rassegnata.
Ti guardo, sei in fondo al libro dalla copertina azzurra, ogni tot numero di pagine spunta una strisciolina di carta, mi fanno sorridere i tuoi segnalibri, stralci di biglietti di treno di un viaggio di chissà quanto tempo fa, pezzetti di un tovagliolo di carta, l'involucro di plastica trasparente delle sigarette e perfino foglie, rametti. Quando smetterai di trasformare un libro in un campo archeologico?!?
È affascinante il tuo fare, in ogni cosa. In ogni cosa rifletti quel mondo incantato che è dentro te, delicata come una piuma e forte come il libeccio, contrasto e armonia.
Sei qui ma non sei qui, da sempre, è questo che mi ha fatto innamorare, il tuo essere corpo eppure impalpabile. Se ti stringo a me sento la tua carne sotto le mani, ma ancor più sotto mi par di sfiorare un cielo dal quale si ammirano monti valli fiumi e mari sottostanti, e vento, sento sempre il vento quando ti ho fra le braccia. Ascoltarti parlare, di qualsiasi cosa, è entrare in sfere di luce e colori, perfino una disavventura, se pure è motivo di tensione la traduci in ameno racconto, tutto diventa favola con te, ma chi sei? Sei una favola da cui son uscito per paura di me bambino, per paura di riconoscere il bambino dentro l’uomo; per paura di amare e crescere.
Perché ho sfilato i punti della trama della nostra storia, per quella paura di non saper crescere mentre tu fiorivi o di non essere capace di fiorire insieme a te?
Andando via ho lasciato un fermo immagine di noi com’eravamo prima, conosciuti sconosciuti senza tempo, senza silenzi e senza parole non più pronunciate.
Ho viaggiato tanto lontano da te per trovare me e arrivare al noi, sono stanco, stanco di cercare qualcosa che solo tu sai far vivere.
Il pensiero chiuso nella bolla delle immagini passate fluttua nel tempo da vivere ancora. Accoccolato sulla pietra larga, la poltrona costruita dal vento e dalla pioggia e dal tempo, gusto l’istante del mio risveglio. Dai piedi nudi sull’erba accolgo la piacevole sensazione di tappeto nel tepore di casa. I colori sono gli stessi, l’autunno mi avvolge, il vento sferza improvvisamente le foglie vellutate dai colori cangianti. Gli occhiali scivolano dal naso, li afferro velocemente, dovrò stringere le viti delle asticelle, li infilo nel taschino, indosso le scarpe, ricompongo il bavero della giacca e mi incammino.

Dietro il vetro delle lenti i tuoi occhi si accendono, infinitesime lucine sprizzano e si depositano sulle ciglia: stille di gioia e di sale.
Non mi aspettavi, sì mi aspettavi.
Gli occhiali ti scivolano fino alla punta del naso.

“Marta, dammi gli occhiali, devo sistemare le viti.”

Un rumore di vetro sbriciolato stride sul pavimento, lenti graduate si sfarinano sotto le nostre suole.
Non si distrae né si scioglie l’abbraccio, è più forte il fonema del cuore che batte sui petti allacciati, sento il tuo penetrare il mio. E sento il vento fra le braccia, mi sento vento nel vento, mentre leggo suoni e sguardi senza parole.

Annamaria Vezio