Gli zingari, Lola ed io...
Appena finito di mangiare, i gitani s’erano riversati anche loro nell’apoteosi della festa, fra le case, in mucchi, plotoni, gazebi umani. Si confondevano con i curiosi, gli zingari, ma senza sciogliersi nella folla, rimanendo come in grassetto, sottolineati dalla vita stessa. Uno mangiava il fuoco che prendeva dalla borraccia della sua donna. Lo beveva a lunghi sorsi, il fuoco che lei gli porgeva, e poi lo sputava come un indemoniato, un momento prima, sembrava ai battitori di mani, che gli invadesse di fiamme la gola, che s’alimentasse dei suoi tessuti, gli incendiasse davvero il cuore. Un gioco di prestigio, un giro della morte… Campavano così, per fiere loro due, sempre un po’ ubriachi per forza di cose.
Lola non la vedevo, là in mezzo al pubblico, ma non c’era da sbagliarsi: il paese era appena un cesto di case serrato fra mare e palude. L’avrei trovata di sicuro.
Tanto valeva bighellonare ancora, passare il tempo per strada a farsi incantare dagli artisti. Si ballava, più in là, sotto un ciliegio. Erano tre ballerine, giovanissime. La musica le teneva per i capelli e glieli scuoteva, se le trascinava via, oltre il tempo e il nostro povero spazio, dove se ne volano i sogni d’amore, la giovinezza di tutti, molto molto più in là di dove normalmente si è disposti ad andare. Erano più vicine loro, a un barlume di verità, del più grande dei filosofi. Chiamarle? Seguirle? Già se ne sono andate, a quel punto. Il ballo era un addio. Tutti applaudono, non si sono accorti di quello che si sono portate via.
Gli uomini, parlo dei gitani, stanno sulle loro. Controllano a distanza l’andamento delle offerte. Qualcuno, è anche vero, suona la fisarmonica. Un’eccezione. Gli altri sorvegliano semplicemente, là fermi, appoggiati al proprio sesso, compatti.
Ecco dei turisti in bermuda. Sempre in seconda fila, la loro piccola borghesia scrocca il divertimento dalla strada. Tristi carni di uomini e donne, in calzoncini per stare più comodi. Si metterebbero nudi, se non fosse sconveniente, da arresto, per dimenticarsi il più possibile dei loro panni.
M’era facile capirlo. Gente mia.
Scattavano foto con macchine superautomatiche, dei bonzai giapponesi, e qualche volta se le facevano fra di loro, le foto. Un ricordo. Qualcosa che nessuno più ti toglie.
Stavo sprofondando in uno dei miei momenti d’agitazione. Ora passa! mi dicevo. Avrei creduto in quel momento di poterla lasciare lì per sempre, sulla piazza, l’agitazione. Come…uno scherzo! Appoggiata al muro della chiesa con un cappello messo davanti e un cartone con la scritta: fate la carità! Capelli di paglia e un po’ di fango inzeppato in qualche straccio… Un fantoccio della vera disperazione, che non inganna nessuno tanto è fasullo. Arte, insomma! Uno scherzo amaro!...
Provai a infilarmi in un bar, attratto dalla luce, risucchiato dal marciapiede come una falena. M’affacciai dentro e non mi piacque il posto, una trappola per turisti. Meglio la strada, mi dissi. E poi, Lola non era nemmeno lì.
Ancora la strada, quindi. E’ là che tutti prima o poi s’incontrano.
Ma è proprio vero? A che servono in fondo, le strade? Pure gli zingari un giorno erano arrivati a St. Maries de la Mer, spinti dall’agitazione, dal voler sapere tutto, e ci si erano arenati. Niente barche per passare il mare, e nemmeno più abbastanza strade per andarsene via, battersela per dove erano venuti. Erano rimasti, alla fine. Pittoreschi.
Così, in genere, ci si contenta, come me, di gironzolare intorno alla chiesa per farsi passare la sbronza. Sbronza triste, per giunta! Scambiai due parole con un venditore d’aglio. Poi con uno spagnolo che aveva portato la famiglia, la moglie e i figli, a vedere los gitanos, a fargli fare, alla famiglia, conoscenza con qualcosa. Una gita. Voleva che li fotografassi tutti assieme con il mangiafuoco sullo sfondo, tutti e quattro a figura intera.
Li feci schierare e poi andare un po’ indietro. ‐ I piedi! ‐ gli gridai. Papà abbracciava mamma che teneva il braccio destro sulla spalla del maschietto, la femminuccia invece era tutta del padre. Fermi così! Bene… Scatto! I ragazzi, li vedevo io, avevano la faccia di chi trovava quello molto patetico, ma bisogna anche sorridere, fare un po’ finta. Già se ne immaginavano la morte, dei genitori, e così ritrovavano un po’ di colore sulle guance .
Quanto a me, la macchina fotografica l’avevo lasciata in albergo. Ne avevo basta della realtà inscatolata in 36 millimetri. M’andava di nuotarci dentro la realtà, ingoiarla a pezzi interi, il più possibile, tutta. Ero, per così dire, disponibile. Forse per questo una ragazzina mi si avvicinò. Doveva averne dodici o tredici di anni, non sono sicuro. Sotto gli occhi, scuro denso, degli invisibili ragni avevano già iniziato a tessere, a raccontarne di storie, e a trenta avrebbero finito per scrivergliela tutta la faccia, bella spiegata senza bisogno di parole. Per allora, doveva augurarsi di essersi trovata un uomo, innamorato o ubriaco che fosse.
Mi parlava in francese, la bambina Rom, e io lo capisco male il francese, ma misi una mano in tasca e le allungai cinque franchi. L’elemosina… La fai, magari un po’ vergognandoti, pensando che son sempre cinque franchi, mille lire, che nessuno ci può far niente…
Lei non li voleva però i miei soldi. No, no, mounsieur, no argiant… Mi scansava la mano e sorrideva come divertita per l’equivoco. Aveva dei bellissimi denti, uno d’oro le rideva più degli altri.
Io gliela volevo proprio dare, ‘sta monetina, m’era simpatica, e insistetti un po’, anch’io sorridendo; ad un certo punto, mi servì un’espressione tutta seria, proprio il broncio delle bambine che fanno le donne, o delle donne in generale, forse. Ce l’aveva con me perché non capivo. Mi prese l’altra mano, la sinistra, e l’aprì quasi a forza, scoprì il palmo.
Ecco. Mi mancava, la chiromante!
Non reagisco, lascio fare in un primo momento. Lei m’accarezza la mano, la studia, passa le sue piccole dita sui contorcimenti delle linee, mi tasta i calli… Ogni tanto alza gli occhi sui miei, mi entra dentro, pare che legge, legge, legge… M’imbarazza, alla fine. Non mi va di essere letto! Io le maghe, gli indovini, l’ho sempre scansati. Manco per scherzo io! Lo strano è che rimanevo ancora lì, immobile, con la mano tesa in mezzo alla strada.
‐ Tutto bene? ‐ le chiesi, riprendendomi finalmente.
Sorrise, scuotendo la testa. Mi chiuse la mano, stringendola come poteva con le sue forze. Domain, domain… disse. Poi, prima che potessi rendermene conto, mi diede un piccolo bacio sulla guancia, furtivo come un sussurro, e scappò via verso la notte.