Grand Supreme

Posso capire molti dei dibattiti in tv.
Quando ci sono documentari su medicina o geologia, fantastico su quanto possa essere divertente l'icnologia e so che l'epindimite non è una bella cosa.
Non che possa scriverne tesi su questi argomenti, le parole lunghe non mi riesce ancora bene scriverle. La penna scivola tutta da un lato, scappa dalla manina e d'un colpo il foglio si ritrova attraversato da una linea non prevista.
E sconfitta finisco a far diventare il mio saggio un albero, una casa, una bambolina, un pettine, delle scarpe con il tacco.
Insomma quello che ho davanti tutti i santi giorni.
Da grande voglio fare la radiologa, per vedere quello che c'è dentro alle persone e per, a fine turno, infilarmi dietro la macchina e vedere quello che ho dentro io.
Quando le amiche di mia mamma vengono a trovarmi, a dire Oh quanto sei carina, a volte lo dico. Mentre hanno un calice di rosso in mano e sono in piedi vicino a me. Piega perfetta e vestiti che gareggiano a chi è il più fiorito, dico che secondo me lo scheletro non è così scontato.
Io nel vestito ho un fiore solo, appuntato al vestito. una margherita di stoffa, e alla base ha un nastrino nero lucido.
Ma nonostante la dura competizione tra stampe floreali che si sta svolgendo davanti a me, nonostante questa fretta implicita nel muovere l'anca nel momento opportuno per beccare la luce migliore a far risaltare la qualità degli abbinamenti tra calendule e gigli finti, a me partecipare non interessa. Io e la mia margheritina ce ne stiamo al bordo del ring.
Mi hanno detto che quando sto alzata devo unire i piedi. Quando mi siedo devo accavallare le gambe e tirare un po' giù la gonna. Sorridere sempre. Sbattere le ciglia. Percorrere la passerella ancheggiando come Marilyn.
Però quando dico le mie opinioni a questo prato umano, quando vorrei che i loro nuovi rossetti si chiudessero un attimo per serrare l'attenzione intorno a quello che ho sempre sognato, mia mamma si inginocchia per guardarmi dritta negli occhi. Tira fuori dalla pochette la sua scatoletta di cipria, e me la passa sul viso con un piumino rosa. Con l'altra mano mi sistema la manica a sbuffo. Sa fare un sacco di cose contemporaneamente.  Dice “Tesoro, sei ancora una bambina”. E le sue amiche dietro sorridono. E sembra che tutti i loro fiori sorridano.
Meglio della mia margheritina. Che a guardarla, ora, sembra proprio un fiore infantile. Semplice. Petali e polline. Il modello base della flora. L'esempio del poco impegno.
Ed è questo, detto in parole vegetali, che non capisco.
Ho 6 anni, ma ne avevo molti meno quando mi hanno fatto sfilare per la prima volta. Nemmeno camminavo benissimo. Una modella con delle gambe chilometriche fasciate in jeans striminziti rinunciava al suo metro e ottanta per piegare le ginocchia e prendermi la mano.
Avevamo i riflettori puntati contro, io e lei. Solo che lei sapeva benissimo come farsi strada in quel fascio di luce con passo sicuro, tacco‐punta. Io no. Io ero in confusione totale.
L'unica cosa che potevo vedere la guardavo, con tutti gli sguardi possibili, con tutte le grandezze della mia pupilla. Lei. Il percorso iniziava dalla mia mano aggrappata alla sua. Dalle sue unghie smaltate di rosso scuro. E più percorrevo il braccio con gli occhi, più la sua pelle era come un sole che tramontava in una notte di neon. Sfumava sempre di più in mezzo al bianco, e l'ultimo barlume di essere umano che riuscivo a distinguere credo potesse essere la spalla, e le punte di alcuni capelli biondi.
Il viso l'ho visto soltanto alla fine della passerella, quando lei si è fermata per fare l'inchino. Come un mare all'incontrario. Da quella nebbia di luci che avevo sopra la testa spuntò un collo, tutti i cuoi muscoli delineati, la mandibola, i chiaroscuri delle guance, il promontorio rosa delle labbra e lunghe lunghe ciglia nere.
Quella delicatezza. Quella raffigurazione di come sarebbe stato diventare grandi.
Mi strinse di più la mano e me la mosse per fare Ciao a qualche sconosciuto che non vedevo. I flash dei fotografi mi abbagliarono, come a dirmi che ai riflettori mi stavo abituando, che adesso non era più abbastanza.
Tornammo indietro a passi da gigante, io quasi cadevo. Camminavo e strizzavo gli occhi. Certe cose a quell'età non si possono fare insieme.
Dietro le quinte mi veniva da piangere, non ci vedevo più, ma sentii due labbra umide appoggiarsi sulla mia guancia sinistra e lasciarci uno strato di gloss, sopra uno strato di rossetto, sopra uno strato di matita, sopra uno strato di primer. Un monumento.
Sapevo che era la mia modella, ma fu tutto così veloce, non feci in tempo a sorriderle aprendo gli occhi che già se n'era andata. Il suo rumore di tacchi confuso tra altri rumori di tacchi.
Sono rimasta sola per un po', poi è arrivata mia mamma a stringermi forte. Pulendomi la guancia con un fazzoletto leccato, dicendomi Sei stata bravissima! Dovremmo rifarlo!, portandomi fuori e caricandomi in macchina.
Il tutto in un tempo velocissimo. Dico, probabilmente in quel genere di mondo, i tempi così sono la normalità. Ma non per una bambina. Una bambina è abituata ai tempi dei cartoni. Con le risate e gli abbracci che durano mezza puntata.
Il ritorno lo feci pensando a lei. Che ero felice di avere una nuova amica.
Non avevo ancora imparato il concetto di Gente che può anche sparire nel nulla.
La vita di una modella bambina inizia da vestiti dal tessuto memorabile e da abbandoni di questo tipo.
I giorni dopo, tutto quello che ho fatto è stato correre alla porta ogni volta che suonavano.
Ero cresciuta, a quest'età si cresce in fretta. Ma quando il campanello trillava, mi si piegavano le ginocchia, finivo a gattoni, a guardare in basso. Volevo rivivere l'incontro partendo da dove l'avevo lasciato, dalle cose rimaste a fuoco per tutto il tempo della sfilata.
Quando quelle che entravano non erano lucide scarpe da donna, quando non era un passo aggraziato a spostare l'aria, neanche mi prendevo il disturbo di alzare lo sguardo per completare la mia analisi.

Conoscere le cose ti può far diventare qualunque cosa tu scelga di diventare.
Conoscere le infinite possibilità in cui puoi reagire, ti rende un camaleonte.

Una sera, sarà stato la trentesima che lei non si faceva viva, appoggiai le spalle alla porta indifferente e chiusa e mi misi a piangere. Di quei pianti isterici da bambini, pianti da catastrofe.
Mia mamma arrivò, preoccupata che mi fossi fatta male. Senza chiedermi nulla mi rivoltò in tutte le posizioni per cercare la bua. Non trovando nulla mi chiese
‐Si può sapere cos'hai?
Io tirai su con il naso, con la visione appannata dai lacrimoni, chiesi se la modella non mi volesse più bene. Perchè io gliene volevo ancora molto.
Attraverso il vetro opaco che mi stava dentro gli occhi, ho visto mia madre alzarsi immediatamente. Il suo grembiule giallo distendersi, voltarmi le spalle e ritornare in cucina lasciandomi con con queste parole.
‐Non fare la bambina.
E io rimango lì, infestata dal sole. con i lacrimoni che non volevano più scendere. E con le due cose insieme che nemmeno mi regalavano un arcobaleno.
Semplicemente, li deglutii, li feci tornare indietro.
Ghiandole lacrimali in pausa.
Il film della mia vita che si blocca. Una faccina paffutella sovraesposta, graziosi ricciolini castani, ciglia lunghe, boccuccia rosa e socchiusa. Tutte queste cose che non fanno rumore, tutte queste vite che non fanno rumore, interrotte da un sempre più forte rumore di bruciato.
Residui minimi, ancestrali, di gloss  e rossetto che cominciano a bollire. Tutti gli strati in ordine di apparizione. Il calore aumenta, bolliscono a temperature differenti, e a me sembra di andare a fuoco. La mia radiografia definisce la diagnosi:
La cute ha aperto le danze, si è aperta formando una specie di cuore frastagliato. Il sottocute è più scuro, ha detto ciao ciao in modo più serio. Da sotto, il muscolo buccinatore ha fatto capolino integro come un papavero dalla neve. E' attraversato dal dotto parotideo e da alcuni nervi. Tutte cose che hanno i fiori. Adoro l'anatomia umana perchè accresce il mio pollice verde.
E' un muscolo mimico. Si tende. Apposta per farmi sorridere ai fantasmi dei fotografi.
E' lei sottoforma di spasmo.

Nei sogni di qualcuno, la ballerina balla balla balla, con il suo tutù viola, nelle sue calze viola. E' una serie di piroette perfette, in quella strana luce rossa soffusa. E' una riga di eye lyner lucido. Non c'è neanche un capello fuori posto, su quel palco, non c'è neanche la musica.
Ma la ballerina continua a ballare, sente che tutto il mondo è suo anche se in quel teatro non c'è nessuno. Le braccia inseguono le posizioni.
La tragedia è quando cade. E al rallentatore vede le pareti diventare più alte, più dominanti, spaventose. L'eco della caduta a terra si diffonde tranquillamente nella sala, senza brusio di voci a smorzarlo.
Sono tutte piccole cose che cambiano tutto. Piccoli rumori, piccoli passi, e quella piccola sconnessione del legno che diventa espressione del teatro intero.
Il centro del tuo sistema solare e tu sei Plutone.
Gente che dimentica la sua intera vita per diventare un'esperienza sola.
Io ho sempre trattato quella guancia da persona.

Sono sempre divertenti le sfilate organizzate da stilisti giapponesi, riescono ad inventarsi cose straordinarie.
Questa volta, gli abiti sono centocinque, le modelle solo due, io e Janine. I tempi per cambiarci saranno al limite della velocità del suono, e, per compensare, ci stiamo godendo al rallentatore queste poche ore prima dell'inizio.
Funziona così. Tutti si affrettano ad avventarsi su di te con ciprie e pettini e poi ti lasciano sola in una stanza ad aspettare. In un vuoto che somiglia al secondo dopo la fine di una guerra.
Io stremata, con il mio primo vestito cucito addosso, seduta in una poltrona di pelle, mi godo la scompostezza delle gambe lasciandole piegate a caso.
Ho le ciglia talmente lunghe da oscurarmi la visuale ai lati, creando una specie di tunnel. E' come se stessi spiando tutto dal buco della serratura.
A Janine hanno cotonato i capelli in un cespuglio di riccioli. Indossa un tutù color crema che sembra dell'esatta tonalità della sua pelle, un reggiseno bianco sporco e quelle scarpe con il tacco stranissimo che costringono il piede a stare completamente in verticale.
La guardo, e penso ancora alla guerra.
Volano ancora le polveri dei trucchi, creando una nebbia cosmetica che somiglia all'offuscamento creato dalle macerie dei palazzi caduti. Probabilmente entrambe rendono belli, solo in modo diverso.
Lei è in piedi davanti a me e fa piccoli passi, cercando il modo migliore per non cadere. Le lucine degli specchi la fanno apparire una star più di quanto riuscirebbe a fare il sole. Allarga le braccia e guarda il basso. Sembra un inchino ai ritagli di stoffa multicolore che le stanno ai piedi, e lei un angelo che cerca pezzi di ali ancora utilizzabili dagli altri angeli martiri per il mondo Beautiful.
Sul soffitto di legno, la mia mente scrive con lo spray nero “Paradisi a prezzo ridotto”.
Prima di sedersi sulla poltrona vicino a me, prende la sua borsetta. Si toglie le scarpe e le scaglia contro un angolo.
‐Fanculo!
Di profilo, con la figura tagliata ad altezza torace dai grossi braccioli, sembra composta dagli stessi zigomi definiti del mezzo busto di un grande eroe.
Dopo un sospiro profondo, dopo che le sue sopracciglia aggrottate sono tornate a distendersi, indica lo specchio di fronte a noi, dove ci riflettiamo.
‐Che fantasia averci truccato esattamente allo stesso modo eh?
Quelle che ci stanno guardando, sono due facce uguali. Con un gioco di chiaroscuri hanno riallineato i lineamenti, hanno dato la stessa forma alle sopracciglia. I nostri capelli sono cotonati allo stesso modo e si uniscono al centro, formando un'unica grande nuvola marroncina. Le ciglia non lasciano intravedere le iridi di colore diverso, chiudono gli occhi in una cella.
Siamo gemelle.
Janine apre la borsetta. ‐Conosco un buon modo per stemperare la tensione. Sai qualcosa dell'agopuntura?
Io dico che Sì, è un metodo veramente antichissimo di medicina alternativa nato in Cina.
E lei neanche mi guarda, tira fuori un cofanetto di velluto blu con decine di aghi dentro.
Ne prende due, si inginocchia davanti a me, mi apre la mano destra e me la volta verso l'alto.
Sorride.
‐L'agopuntura‐ dice percorrendomi l'indice con il pollice ‐è un'invezione delle donne nomadi. Nasce una decina di anni dopo la scomparsa dei dinosauri. A quell'epoca si credeva che i demoni fossero esseri piccolissimi, grandi come batteri, e si prendessero respirando l'aria di certi postacci.‐
Alza l'ago in verticale e si morde il labbro inferiore mentre lo tiene sospeso, quasi fosse un pendolo e lei fosse un'indovina in cerca di un preciso segnale magnetico.
‐Attraverso vene e cose varie, i demoni arrivavano alle mani, alle punte delle dita. E a quel punto eri finito, ti muovevano loro, e tu eri un burattino.
Si ferma di colpo, alza lo sguardo come se avesse fatto la scoperta dell'anno. Tornando a guardare giù trattiene il fiato, inventa l'apnea terrena, e mi infilza il polpastrello. Proprio al centro dell'impronta digitale. Il nuovo centro magnetico che tiene unita la mia intera galassia, il nuovo chakra.
Guardo quella piccola antenna sbocciarmi dal dito, somiglia ad una bandiera piantata da Janine la sopravvissuta che dice “Stiamo ricostruendo quest'area”. Le chiedo se è normale che senta la punta dell'ago come se fosse infuocata.
D'improvviso la porta si apre sbattendo ed entra trafelato un tizio dello staff che urla ‐Tra un minuto in passerella Janine! E muoviti!‐.
Per il violento movimento d'aria, le polveri dei trucchi volanti vengono sbattute al muro, come se avessero ripreso a bombardare. La luce degli specchi senza più un filtro di ciprie è quasi volgare e, appena Janine distoglie l'attenzione e volta lo sguardo, qualcosa si rompe.
Il rituale magico si rompe. L'atmosfera intima si rompe. Il cuore della stanza si rompe.
Fa cadere il secondo spillo per terra come se non fosse una cosa vitale e corre via, claudicante e storta sui suoi trampoli, fregandosene di evitare i pezzi di ali, come se questa non fosse una sala operatoria e i miei demoni fossero un raffreddore.
Io e lo spillo rimaniamo a guardarci allibiti, legati da questa strano metodo di accoppiamento. Sgomenti testimoni di quello che c'era fino ad un attimo fa. Siamo souvenir. L'uno dell'altro.
Una volta iniziata la sfilata, non ho più avuto modo di stare con Janine. Mentre lei sfilava, io mi cambiavo. E viceversa.
L'ago è caduto dal mio dito mentre mi toglievano il primo abito in fretta e furia per mettermene uno nuovo. E' uscito un po' di sangue ed io ho pensato fosse per il principio delle magie: solo il mago può dissolverle come si deve, altrimenti qualcosa andrà male. Il centro del mio chakra andava in fiamme. E continuava ad andare in fiamme anche dopo che i coloni se n'erano andati. Rimaneva l'eco di quella terribile disfatta, se ne parlava ancora. Tra un abito e l'altro.

La ballerina si era slogata la caviglia. E si rese conto che la parte più importante di un corpo è la caviglia.
Riflettè sul fatto che tutto il corpo si divide in parti più importanti, in primedonne.
Da allora ricominciò a ballare come se non volesse fare un torto a nessuna di loro.

Sono seduta tra i banchi dell'università di medicina, il giorno della discussione delle tesi.
Katye ed Herin tamburellano le unghie laccate di viola sul legno scuro, dando il perfetto ritmo al mio ripassare ogni frase.
Il respiro affannoso tampona le altre voci, nella mia mente c'ero solo io.
Flora ha i capelli appiccicati alle guance da goccioloni di sudore che nascono e crescono ad una velocità impensabile per qualsiasi ciclo vitale. Nascono e muoiono tutti per me.
Quando il ragazzo prima di me stava per terminare, Clohe viene a ripassarmi il rossetto. Diane accavalla le gambe. Il mio intero entourage è ad assistermi.
Il mio turno inizia con una camminata da star giù per le scale. Sorrido e saluto le persone ancora sedute che man mano mi scorrono a fianco. Mi guardano e si voltano a borbottare qualcosa al compagno.
Lo strascico del mio vestito blu mi finisce in mezzo ai piedi, ma Barbara mi ha insegnato come fare piccolissimi passi per evitare cadute rovinose. Non me le posso permettere, non adesso che sto per cambiare il mondo della ricerca. D'altronde anche l'uomo sulla luna camminava piano, lo si fa perchè il momento speciale duri di più.
I miei giudici questa volta sono vecchissimi, mi guardano dubbiosi. Rose dice sempre che l'importante è concentrarsi su uno solo, riassumere la folla in una persona sola, sceglierla prima che siano loro a scegliere te. Così il comizio si trasforma in una chiaccherata intima.
Il prescelto è il signore al centro, con la pancia stretta in una camicia, le sopracciglia nere e i capelli grigi a contornare la luce artificiale che si riflette sulla sua pelata. Quello che mi colpisce è la sua pelle liscia e paonazza.
Sfoggio il mio sorriso migliore e, fissandolo, mi siedo. Dopo che io ho scelto lui, lui sceglie me.
‐Mi scusi, lei come si chiama?
E io prima gli dico che spero che abbia con sé un set da cucito, perchè prima o poi qualche bottone schizzerà via dritto in faccia a qualche candidato.
‐Prego?
Divento seria seria. Deglutisco. E quando ripete di dirmi come mi chiamo deglutisco ancora. Viola trema sempre di più.
E allora abbasso lo sguardo, poi lo rialzo, rispondo Scelga dal mazzo.
Lui si zittisce. Tutta l'aula è piena di gente che non conosco, sono tutti nei suoi occhi, tutti riassunti nelle sue pupille concentrate.
‐Lei non è nell'elenco, non l'ho mai vista..
rido un sacco, dico. Ecco quello che sto per dire. Il principio per cui non si dice prima Non l'ho mai vista e dopo Lei non è nell'elenco. Il principio per il quale gli aspetti tecnici vengono sempre prima dei sensi.
Posso sentire fin da qui il cuoricino sgangherato di Marie che batte con lo stesso ritmo sgangherato di un temporale.
Vede tutte queste persone? Anche loro non hanno mai visto lei, ma se ne fregano
‐Sono tutti studenti del mio corso.
Dico che Continua a fingere di non capire. Il mio bell'ometto prescelto, gli dico, non capisce nulla di noi.
Tiro fuori dalla tasca un fogliettino ripiegato, e mentre lo distendo dico ‐Ha presente il feticismo?‐ e passandoglielo lentamente dico ‐Lei sta dicendo a tutte queste persone che in realtà non esistono.‐
Il fogliettino, aprendosi, perde i glitter rosa che Stephany ci aveva creato sopra, creando la stessa scia luminosa che crea la fascia di miss america quando si muove.
In cima, il titolo glitterato che ha perso pezzi, e ora è una bellezza maculata.

MISS FETICISMO ANATOMICO
Questa è la mia tesi.
Intendo, tutta quanta la mia tesi.

Eccomi. Tutto quello che avevo sempre desiderato. Un concorso di bellezza basato sulla medicina, su esperimenti e cavie. Non la prendo come una discussione di laurea, la prendo come un'esibizione.
Non me lo chiedono direttamente, ma io so che lo stanno pensando.
Sono la miss che si è slogata la caviglia ballando, che sta per ballare passi complicatissimi. Addosso a me, le aspettative smarrite delle persone che mi stanno guardando
Cara giuria, caro pubblico.
Quello di cui vi sto per parlare, è il più grande spettacolo mai visto in una stanza, ed ha una storia antichissima. Alla coreografia originale ha lavorato anche Freud, pensate.
Ci sono persone che nascono e imparano a conoscere la gente in sezioni. Una persona non è mai un pezzo intero. Ci sono le braccia, le gambe, il collo. E ci si affeziona come fossero parenti.

Questo equivale a un Assemblé.

Il soggetto, in età matura, si porterà dietro questa divisione. E quando vi conosce potrete pure stargli enormemente antipatici, ma magari i vostri gomiti sono la migliore persona del mondo.
Ecco come nascono i maniaci dei piedi. Ecco perchè uno ha come ambizione diventare un talent‐scout di manisti.
Però tutto ha un contrario, tutto non si diverte ad essere unico. Tutto vuole avere almeno un passo in cui mostra la schiena al pubblico.
E io ci ho inventato la mia vita.

L'argomento del giorno in questa stanza, è il casino che ho creato nell'elenco dei laureandi. Ma io sto mettendo un Encontraire davanti a tutti i passi di danza e, quello che sto spiegando, è che non devi essere un ballerino professionista per guardarmi.
Basta guardare la piramide di keope che creiamo in perfetto equilibrio su una sedia sola, saremo in cento.

Ci sono persone che nascono, e imparano a riconoscere le sezioni nella gente che le ha toccate.
Un album dei ricordi, le incisioni sugli alberi, alcune delle mie articolazioni sono addirittura in bianco e nero.
Molte persone sono state così importanti nella mia vita da non incidere minimamente sulla mia vita, senza sapere che è stato proprio facendo così che sono diventate parti del mio regno incantato. Sono un insieme di buoni esempi e di luci giuste.
Sono una stanza piena di persone che discutono su come gestirmi.
Se siete romantici sono un robot.
Sono composta dalla mia evoluzione.

La coreografia ora prevede che la ballerina solitaria, che cadeva nei sogni di tutti quanti, ora si moltiplichi in tanti altri ballerini che sono episodi della sua vita, e che il pubblico li veda nelle loro bellissima livrea. E' il momento migliore dello spettacolo, quello che rimarrà impresso nella vostra memoria. La coreografia prevede che sarà un momento così importante da creare un nuovo tipo di feticismo.
Magari tutti questi ballerini si concentreranno in un solo vostro arto.
Magari voi sarete la mia evoluzione, a me non è rimasto spazio.
Studiare medicina mi è servito per accumulare persone.
Sono qui per un pacchetto di pagine nuove per la continuazione della storia, per non considerarmi già un libro finito. Voglio farvi vedere quello che ho in modo che lo prendiate voi, in modo da archiviarlo, ed iniziare di nuovo da persona intera.
La coreografia prevede che applaudiate. Che vi sembri una cosa meravigliosa.

E anche se questo equivale ad una serie infinita di Sissonne, non è esattamente quello che succede.

Il mio giudice supremo si è alzato, ed io non l'ho nemmeno visto.
E' venuto da me e ha chiesto a Janet, Barbara, Giulia, Arianette, Margaret, Lou e tutte le altre di allontanarsi.
Le ha spinte via appoggiando troppo le mani su Clarence.
Per non far finire in pappa lo spettacolo, le altre hanno fatto finta che fosse una cosa preparata ed hanno seguito i passi fino a finire fuori, nel giardino, con il fogliettino senza più glitter che galleggia sui fili d'erba, sballottato dal leggerissimo vento come la sicurezza di chi decide di essere un'unica entità.

Nonostante questo, c'è un bel sole.
Il genere di sole, il genere di verde saturato, che ti da l'energia necessaria per prendere decisioni importanti.
Lo spettacolo è stato un flop, la compagnia discute su cosa fare e fa un gran casino. Provare a concentrarsi su qualcos'altro che non sia questo gran vociare, provare a non sentire nulla, è praticamente impossibile. Ed io sono una disputa in corso.

Succede che tutte quante sono rimaste deluse dal rendimento, da come sono state gestite.
Succede che cercano quelle scuse orribili per andarsene. Posso comprenderle, posso comprenderle. La delusione è stata grande per tutti.
E tutte vogliono andarsene. E tutte se ne vanno.

Non è il cuoricino sgangherato che era Marie, a spezzarsi. Sono arterie, ventricoli, che si spezzano. E' quello che abbiamo tutti, quello a cui non sono abituata.
So gestire Julie, Verlaine, Clohe, le conosco alla perfezione. Ma non so muovere un muscolo.

La sensazione è quella di pesare 3000 kg in meno.
Di aver perso la memoria.
Di essere rinate già grandi.
Di essere immobili stese sul prato a pregare che qualcuno dei medici appena laureati prenda me come primo cliente, e mi prescriva una medicina che mi causi un qualche tipo di scatto nervoso che poi potrò ammaestrare in corse, in pompare il sangue, in sfilare.

Loro se ne sono andate, e io non so più in quale parte del corpo mi sono nascosta.

La mia caviglia non l'ho mai fatta guarire.
Questo equivale ad una Révérence.
Vista di schiena.