Home sweet home (un'allegoria)
“I can’t find your face
In a thousand masqueraders”
(Alice Cooper – Hell is living without you)
Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava sognandolo.
(J.L. Borges – Le rovine circolari)
La sera di fine maggio in cui scese dal treno che lo riportò a casa dal Simposio Internazionale su Max Scheler, il professor Lucio Belgradi, sessantunenne ordinario di Storia della Filosofia contemporanea presso la locale università, si fermò sul marciapiede del binario 7 a fissare, con una tenerezza inaspettata per la sua silhouette gigantesca, il faccione familiare della luna sopra le torri merlate della Fortezza cittadina, in lontananza, in cima al poggio. Belgradi era infatti uomo di proporzioni e forza ciclopiche, munito di una candida barba imperturbabile (atarattica, come si dice nel suo campo di studi), al meridione di un naso dritto e fiero come la prora di una nave da crociera, e ricamato, sulla fronte ampia da studioso, da una profonda cicatrice sbilenca.
Non era stato via troppo tempo, il filosofo. Il convegno era durato solo cinque giorni; i lavori erano stati qualificati e interessanti; la compagnia era stata come sempre conviviale e allegra, nonostante che gli argomenti trattati trasudassero polverosa seriosità; solo Gaetano Lo Turco, il collega messinese dal notevole talento (non supportato da altrettanta notevole umiltà), non aveva mancato l’occasione per ribadire durante la cena sociale, con il consueto sarcasmo fuori luogo, la vetustà dell’approccio di Belgradi al mondo del grande fenomenologo tedesco. Ma Lo Turco non lo poteva soffrire nessuno degli altri congressisti, tutti lo avevano contestato, i toni si erano fatti accesi (complice una quantità considerevole di vino, grappe e limoncini; i filosofi sono spesso fatti così durante le ore ritagliate allo studio e alla docenza) e quel siciliano spocchioso era stato ridotto al silenzio da una mitragliata di attacchi, e non solo teoretici.
Il professore, nell’avvicinarsi all’uscita della stazione semideserta a quell’ora, telefonò alla moglie Carla per avvisarla dell’imminente ritorno a casa, colto com’era da una nostalgia irrefrenabile e primordiale per le mura domestiche che cresceva passo dopo passo. Un chilometro su di un marciapiede quasi diritto lo separava da casa: il lungo viale alberato in leggera salita fra i radi lampioni accesi lo accompagnava con sentori di pesca e mandorle, portati dalle sferze di un vento amico che incendiava il suo benessere issandolo a un titanico vigore. Una luna adulta tonda e butterata in bilico fra il costone della montagna e il mondo d’ombre della piana sottostante lo chiamava a seguirlo. Poche le automobili, pochissimi i passanti a quell’ora, la pianura illuminata a puntini di case in fondo alla valle sotto i suoi piedi; Belgradi si sentiva ora il superstite – o forse il pioniere – di un’umanità raggiante, mentre ormai annottava; si pensò l’Oltreuomo di Nietzsche in tutta la sua straripante e meridiana (nonostante l’ora) gaiezza.
Momento dell’ombra più corta. Fine dell’errore più lungo. Culmine dell’umanità. Incipit Zarathustra. Eh eh, pensieri in libertà dopo un convegno. La libertà che si concede un filosofo dopo un convegno è quella di non smettere mai di pensare alla filosofia, disse a se stesso…
Svoltò a destra, fra coni di luce diafana, nel respiro tiepido della sera. Imboccò il vicoletto in piano che costeggiava la parrocchia del Divino Amore, oltrepassata la quale si sarebbe trovata la sua villetta a due piani. E Carla. E Filippo, il loro unico figlio, architetto.
Messosi appena comodo fra un pensiero tardo ‐ ottocentesco e un desiderio domestico, si accorse tuttavia di qualcosa di insolito. Qualcosa di strano. Qualcosa che non andava.
In effetti, l’unica presenza che Belgradi riuscì a trovare al di là dell’oratorio, in quella viuzza a un passo da casa, fu una gran nebbia caduta improvvisa come un secchio di vernice da un’impalcatura. Compatta, violenta, avvolgente, fredda. Troppo fredda. Annichilente. Quasi che l’alito umido di Dio avesse soffiato un grigio indistinto sulle sagome del mondo e sui sensi degli uomini. Sconcertato dal repentino mutamento atmosferico, e smarrito in un nulla che aveva abraso ogni passaggio dell’uomo sulla Terra e casa sua, la gigantesca figura di studioso si fermò. Poi riprese cautamente a procedere nella cecità vaporosa. Camminava a zigzag, nel tentativo di individuare con le mani la solidità di pareti familiari, di cancelli, di porte che conosceva a memoria. A destra. A sinistra.
Il vicolo si era fatto improvvisamente troppo ampio e le sue mani raccoglievano solo aria umida e cortocircuiti di speranza. I rumori si erano spenti; congelati gli odori.
Tutto si era liquefatto nella caligine di una notte troppo uguale e troppo ferma.
Solo il terreno era ancora solido, ma nascosto alla sua vista. L’uomo camminava avanti per decine di metri, poi indietro, poi a destra e a sinistra. Anche i suoi piedi erano invisibili, avvolti com’erano dalla coltre che saliva. Si accorse che stava vagando in uno spazio smisurato e cieco, privo di muri, alberi, auto parcheggiate, cani, lucertole, uomini e donne, luna, stelle, casa, Carla… Intanto il vapore saliva, saliva, fino a nascondergli le mani.
Poi Belgradi si fermò, cercò il cellulare. Si frugò addosso, ma non riconobbe più i suoi vestiti. La giacca di tweed, la polo rossa, i pantaloni beige. Tutto era cambiato, aveva addosso gli abiti di qualcun altro, vuoti. Anonimi. Inutili. Si tastò per l’ultima volta, con frenesia.
Preso da disperazione e da spasimi di freddo, iniziò a correre a perdifiato in quel nulla avvolgente, con l’ultima forza rimastagli.
Come soffiata via da labbra lontane, la nebbia sparì e Belgradi si ritrovò seduto su uno sconfinato prato soffice, tagliato di fresco (lo avvertiva dal profumo tipico dell’erba appena rasata), in pieno giorno, divorato dalle fauci di un sole spietato.
In lontananza vide che si ergeva, come un baule calato per caso, un palazzo stretto stretto, color perla, alto sei piani. Si alzò da quell’oceano d’erba e, a passi svelti, per quanto ancora trepidi, si diresse verso il caseggiato. Quando ritenne di essere alla giusta distanza per vedere senza essere visto, l’uomo si fermò e si risedette. Si sentì abitato dal chiaro, dal verde e da una calma rinata.
Le finestre, quadrate, incorniciate da stipiti verdastri, erano nude, prive di tende.
Solo verde inghiottito dal verde nel dominio tirannico della luce.
Rialzandosi, poté intravvedere dentro le stanze dei primi piani: ogni vano era un quadretto felice in cui un uomo stava costruendo scene di intimità familiare con una donna.
Al primo piano i due mangiavano serenamente, l’uno di fronte all’altra, seduti al tavolo. Al piano di mezzo, lui e lei ridevano sul divano davanti a un programma TV. Al terzo, infine, i due si amavano disperatamente, frugandosi con rabbia. Nonostante la sua mole, non gli riuscì di andare con la vista sopra il terzo piano.
In ogni caso tutte le scene furono parzialmente ricostruite dall’immaginazione di Belgradi, in quanto il riflesso del sole sui vetri gli impediva ancora di distinguere con inequivocabile nitore non solo i lineamenti dei protagonisti dell’idillio domestico, ma anche l’esatto sdipanarsi degli eventi osservati nelle stanze.
Durante tutto quel pomeriggio di sole partorito dalla nebbia, il filosofo stette immobile a osservare la casa, bloccato e incuriosito, incapace di avvicinarsi tanto quanto di lasciare quella platea. Nei raggi del pomeriggio che doravano la facciata dell’edificio, la sua figura sembrava ancora più monumentale.
Alla fine, spazientito, si alzò per tornare indietro, dando le spalle alla palazzina.
Fu un attimo. Dietro di lui un rumore di maniglie e infissi: più di una, all’unisono.
Voltandosi di nuovo verso il palazzo, vide in faccia ciò che finora non aveva potuto percepire a causa del riflesso sui vetri: a ogni piano della casa, figure completamente identiche avevano aperto di scatto, nello stesso istante, le finestre.
Ma quello che a Belgradi parve di scorgere in quell’attimo di visuale nitida fu l’aspetto stupefacente dei protagonisti e il loro abbigliamento (qualcuno che il nostro ben conosceva aveva parlato di identità degli indiscernibili): barbe candide di fantocci rugosi, giganteschi ma in qualche modo sgonfiati e concavi, sormontavano giacche di tweed, polo rosse e pantaloni beige. La luce diagonale del pomeriggio aveva disegnato sui loro volti un’identica espressione di curva euforia.
A Belgradi parve di essere fronteggiato da una torre di specchi che riflettevano all’unisono, deformata e a cent’anni, la sua immagine.
Maschere ridenti, grinzose e rattrappite con i suoi lineamenti.
Si rivoltò con terrore per scappare. Ma loro erano già dietro di lui a passo cadenzato, preciso, uniforme.
Due file di tre.
Un avanzare di braccia e gambe decrepite, di schiene ingobbite, in coordinazione veloce, energica, inesorabile.
Nella sua fuga precipitosa, il filosofo credette di udire, dietro di sé, una polifonia di voci maschili salutare ognuna, ma all’unisono, una donna di nome Carla.
Carla.
Carla.
Senza interrompere quella marcia esatta, in un crescendo di immonda allegria, il manipolo prese a fischiettare un motivetto ritmato, militare.
E fu la notte, crollata sul pomeriggio come una palazzina sbriciolata da un sisma. Una luna superba sgattaiolò nel buio, proiettando sulla Terra sette profonde cicatrici sbilenche.
"D’improvviso mi svegliai fradicio di sudore e lacrime ma finalmente sollevato, fra estenuati singhiozzi, nel riconoscere la testiera del mio letto e il mio cuscino, e nel sentire la voce di Carla sussurrarmi: ‐ Lucio, amore, è stato solo un incubo, ci sono qui io ‐ Al buio le carezzai i capelli, ne riconobbi il profumo dopo la notte. Richiusi voluttuosamente le palpebre, inspirai un attimo di benedetta intensità. Mi rasserenai.
Fu un istante. Solo un istante.
Non appena riaprii gli occhi, mi accorsi con orrore di toccare il corpo di un manichino giallo di porcellana con i capelli laccati di Carla; un pupazzo cieco, rigido, inanimato, con un sorriso sghembo dal quale usciva meccanicamente sempre quella stessa frase: ‐ Lucio, amore, è stato solo un incubo, ci sono qui io ‐.
Una luna troppo vicina addentata come Emmenthal leccò la mia guancia, mentre, sospesi sopra i cirri, venivamo trascinati sempre più velocemente da ombre oblunghe di leoni e tori, noi sul nostro letto in bilico su capitelli fluttuanti nell’aria fissa. Con un fragore di polveriera, il cielo si squarciò: la mia Carla, o il suo gelido simulacro di amore posticcio, cominciò a precipitare; i suoi occhi cavi sempre più lontani, in basso, confusi nell’azzurro, irrimediabilmente perduti, trainavano una voce via via più sottile, oramai evaporata …: ‐ Lucio, amore, è stato solo un incubo, ci sono qui io ….‐"
Ma la storia potrebbe finire anche così:
"D’improvviso mi svegliai fradicio di sudore e lacrime ma finalmente sollevato, fra estenuati singhiozzi, nel riconoscere la testiera del mio letto e il mio cuscino, le pareti perlacee della mia camera al filtrare del primo chiarore del mattino.
Però Carla non c’era. In un’altra stanza, all’altro capo dell’appartamento, potei scorgere la sua voce. Stava parlando con qualcuno, mi tranquillizzai. Poi udii senza riuscire a distinguere proprio ogni parola: ‐ Sì, dottore, buongiorno, sono disperata, mi aiuti, è da un po’ di tempo che Lucio si comporta in modo strano: dimentica i nomi, le cose, perde l’orientamento, pensi che ieri non ha riconosciuto Filippo, nostro figlio, lo ha scambiato per un suo tesista in filosofia, lui che fa l’architetto –
Poi, tumulato sotto lenzuola appallottolate, potei sentire solo una voce maschile rispondere una parola confusa, forse tedesca, io che il tedesco lo conoscevo così bene, eh sì, proprio bene bene, una parola, dicevo, forse già sentita, Alz, Alz, o qualcosa di simile, ma il tono era fioco e io ora non me la ricordo più…"