Horror Paradise
Credo che il sapore più schifoso che un uomo possa mai sentire provenire dalla sua bocca sia quello del sangue marcio che si sposta tra la mascella e la lingua passando per i denti. Se, poi, c’è un grosso energumeno che usa la tua faccia come un punchingball allora tutti i tuoi cinque sensi vanno a farsi benedire nello stesso momento. A malapena ricordo chi sono ma i colpi che sto ricevendo mi fanno dimenticare cosa ci faccio qui e chi sono i brutti ceffi che stanno malmenando me e il povero Peter Cruise.
Sarà la più giovane età o il fatto che è stato addestrato dall’esercito ma quel poco che gli occhi mi permettono di vedere se la sta cavando egregiamente. Il mio sfortunato collega di pestaggio è seduto compostamente sulla sedia nella quale è saldamente legato e a ogni colpo che riceve si risistema fieramente, guardando fisso in avanti. I suoi occhi sono rossi, iniettati di sangue e vigili. I muscoli sono tesi come la corda di un violino prima di un concerto.
Se non fossi più pesto che cosciente potrei persino supporre che stia tramando qualche cosa. I giganti si alternano nel pestaggio e ogni tanto escono per darci il tempo di riprenderci un po’.
A volte entra nella stanza anche quel curioso ometto che fa imbestialire Peter.
Dice di chiamarsi Re Rus.
Debbo ammettere che non conosco molto del mercato dei videogame e questa informazione mi ha lasciato del tutto indifferente. Peter, invece, sembra conoscerlo molto bene e sembra provare per lui un odio quasi viscerale.
I due bulli di turno escono lasciandoci soli. Non so se la mia mascella sia in grado di articolare un movimento da cui possa scaturire qualche parola. Voglio, però, provarci. Non appena gonfio quel che resta dei miei polmoni per domandare a Peter come sta accade qualcosa che non mi aspettavo.
«Non fiatare. Mi serve che tu sia in grado di muoverti da solo», sussurra Peter con un fil di fiato. China il capo in avanti e rilascia i muscoli. Ho come l’impressione che le corde che lo legano si allentino un po’. Due secondi più tardi il mio compagno di sventura si alza in piedi sciogliendo i nodi e liberandosi con mio grande stupore. Gli bastano altri quindici secondi per liberare anche me. Purtroppo per lui, le violenze che ho subito hanno lasciato il segno e anziché rimettermi in piedi crollo maldestramente in terra.
«Me lo aspettavo», bisbiglia Peter. «Cerca di rinfrancarti. Abbiamo ancora qualche minuto di tempo. Il bello deve ancora venire. Te lo prometto». Da terra, do un’occhiata al mio collega e mi chiedo che cosa possa fare da solo contro quei maledetti giganti. Cerco di riprendermi e lo faccio, per quanto posso, quando un rumore di passi attira la mia attenzione. I picchiatori stanno ritornando.
Gli alieni vorranno entrare nella stanza per finire quel che hanno iniziato.
Getto un’occhiata, forse l’ultima, al mio compagno di sventura. Faccio appena in tempo a vederlo sistemarsi dietro la porta non prima di afferrare qualcosa che non riesco a identificare.
Forse la stanza è ancora buia oltremisura.
Forse Peter è stato troppo veloce.
Forse i miei occhi sono così tanto pesti e il mio cervello ancora sotto choc.
Forse…
Quando la porta della stanza si apre assisto a una scena che difficilmente potrò scordare. Peter infila la mano stretta a pugno nella bocca di uno dei giganti ai quali strappa la lingua. Mentre un altro sta ancora cercando di capire cosa sta succedendo, con una capriola, gli passa sotto le gambe e colpisce i suoi attributi con una tale violenza che mi fa male solo a guardarlo. In meno di tre secondi, quest’uomo che conosco a malapena ha steso a terra due alieni. Non pago, afferra i capelli di quello senza lingua e la sbatte violentemente contro il muro. Sento la testa spaccarsi come una noce di cocco sotto i colpi di un machete. La stanza, fino ad allora azzurrognola, si colora di forti tinte rossastre.
«Ce la fai ad alzarti, ora?», mi domanda Peter parlando sempre con un filo di voce, cercando di rimettermi in piedi sulle gambe. Gli faccio un cenno affermativo e ho voglia di rendermi utile in qualche modo. Il mio compagno annusa l’aria come farebbe un cane e suggerisce la strada che dobbiamo percorrere. Usciamo dalla stanza muovendoci a scatti, rapidi, per quanto possa esserlo io, decisi. Davanti a noi si apre una serie di cunicoli. Sembrano scavati dentro una specie di tufo di colore azzurro con materiali grezzi e lavorazione molto approssimativa. Questi alieni saranno forti e micidiali ma come costruttori lasciano alquanto a desiderare.
Peter si muove in quest’ambiente extraterrestre come se vi fosse nato e mi sto convincendo che la nostra fuga possa avere qualche speranza di successo. Dopo aver percorso circa un centinaio di metri ci ritroviamo in una grossa grotta larga almeno quanto un campo da calcio. Al centro di essa c’è una fossa e un liquido bluastro dalla cui superficie affiorano pezzi scomposti di arti umani. Peter si accorge dell’orrore che mi assale fin sulla gola, mi tappa la bocca con una mano e con l’altra mi fa cenno di non fiatare. È evidente che tutto questo non è una novità per lui. Solo ora comincio a comprendere quanti orrori deve aver visto e vissuto nella sua esistenza.
Con un cenno della mano mi spinge a seguirlo per un cunicolo stretto posto a un metro e mezzo d’altezza. Presumo faccia parte di una sorta di rudimentale sistema d’aerazione. Peter si infila prima di me e io lo seguo… come posso. Nonostante i suoi movimenti siano rapidi e sicuri, il mio compagno rallenta e si ferma spesso non per ritrovare la strada da percorrere ma per permettermi di stargli appresso. Devo rendergliene atto. Sarà anche un soldato e avrà una educazione militare che lo rende un ottuso facciadafesso ma in questo elemento alieno sa quel che fa e credo di dovergli ogni istante di vita che, insieme, stiamo rubando alla morte. Se non fosse per lui chissà ora dove mi troverei…
Il cunicolo, oltre che stretto, è buio e per mia fortuna non lungo. Dopo aver percorso all’incirca una cinquantina di metri finiamo per entrare in una grotta larga una ventina dalla quale filtra (finalmente) un po’ di luce.
Azzurra, ovviamente…
Sembra che in questo pianeta nel quale ci troviamo, o dimensione, non ci sia spazio per alcun altro tipo di colore. Dopo avermi fatto cenno di sdraiarmi per terra, Peter si accovaccia molto vicino a una della tante fessure disposte a cerchio nel perimetro della grotta. Con cauta circospezione si affaccia per guardarvi dentro e in questo modo comprendo che il nostro ultimo breve viaggio ci ha portato fino a un piano superiore. Il mio compagno, infatti, sta guardando in basso e studiando i movimenti degli alieni che si muovono al di sotto di noi. Faccio la stessa cosa e provo ad affacciarmi. In basso ci sono due tipi di mostruosità aliene. I giganti li avevo già visti anche se, altezza a parte, sono umanoidi e si potrebbe tranquillamente scambiarli per esseri umani.
Cresciuti, palestrati, sì… ma pur sempre umani.
Gli altri, invece, sono così mostruosi che fatico a trattenere i miei polmoni dal cacciare un urlo. Sembrano delle grosse rane che indossano un saio che, per fortuna, ne nasconde parte delle fattezze empie e oscene alla vista. Al posto delle mani hanno una specie di costrutto all’apparenza metallico che ricorda la porzione superiore di una caffettiera. Più in là, Dio mi perdoni, scorgo delle creature bestiali che potrebbero ricordare degli scorpioni ma che invece non fanno parte di nessuna delle razze animali che mi sia mai capitato di conoscere e vedere sulla Terra. Le loro dimensioni, poi, sconsigliano ogni pensiero relativo a un possibile incontro ravvicinato.
Peter mi fa cenno di restare acquattato e bisbiglia che si assenterà per qualche tempo.
«Qui starai al sicuro. Abbiamo bisogno di mangiare». Assento e lo vedo scomparire velocemente quanto un dollaro nelle mani di un ludopatico incallito. Dopo quel che ho visto non ho intenzione di sapere dove andrà e che cibo porterà in quel nostro piccolo rifugio. Mi volto per tenere d’occhio i movimenti alieni sotto di noi quando un velo buio mi si para davanti.
*
Una mano mi scrolla il braccio e mi sveglio. Il mio viso arrossisce. Peter mi lancia una occhiata rasserenante. Ha capito.
Non mi ero reso conto di quanto le vicende di questa ultima giornata avessero scosso il mio fisico che non appena ha potuto si è preso una pausa. Spero solo di non aver russato abbastanza forte da tradire così la nostra posizione. Il mio compagno di avventura, al quale non ho ancora confessato il mio vero nome, mi porge un pezzo di qualcosa che infilo in bocca e mastico senza troppe domande. Sapere che tipo di animale o vegetale alieno sia non può cambiare la mia situazione in meglio e perciò ingoio il cibo senza troppe domande. Se voglio uscire da questa piccola anticamera dell’Inferno ho bisogno di essere al pieno delle forze e non è detto che questo sia sufficiente per trarci d’impaccio.
Peter sorride e mi bisbiglia parole incoraggianti.
Dopo aver consumato il nostro pasto “alieno”, lui si distende al suolo per cercare di dormire un po’ solo dopo essersi assicurato che io terrò d’occhio la situazione sotto di noi e che lo sveglierò immediatamente, nel caso accada qualcosa di anomalo.
Il mio compito è facile.
Devo osservare.
Immagino di essere ancora sulla Terra e di stare facendo un normale appostamento davanti alla casa di un sospettato o una Banca dentro alla quale dovrebbe essere stata organizzata una rapina. Sotto di noi, gli alieni continuano a muoversi con lentezza e noncuranza. Non li sento parlare tra loro ma sembra che si capiscano perché ognuno fa qualcosa e nessuno sembra lamentarsene.
Questo tranquillo andirivieni extraterrestre continua per un’altra ora o, almeno, credo che sia passato così tanto tempo perché non ho alcun orologio al polso o cellulare che possa confermare questa mia ipotesi. Nessuno sembra aver notato che i due prigionieri sono fuggiti o comunque si preoccupa per questo fatto. Ho ancora molto da imparare su queste creature, il loro modo di agire e di pensare.
Proverà Peter a insegnarmelo… ma solo se sopravvivremo abbastanza. Una mano ferma e forte mi afferra il braccio e per poco non me la faccio addosso. Il mio compagno si è svegliato e mi comunica che è pronto a passare alla nostra prossima mossa. Come al solito, bisbigliando, mi invita a seguirlo. Il nostro appostamento può definitivamente dirsi concluso. È giunta l’ora di muoverci e di tornare a casa. Non so come finirà quest’avventura ma sento che fidarmi di Peter è la cosa più saggia che abbia mai fatto in vita mia.
Seguo il mio compagno e ripercorro a ritroso la strada che poco tempo prima abbiamo preso. Giunti alla grande grotta Peter mi fa cenno di nascondermi, appiattendomi contro la parete nell’ingresso buio di un cunicolo, e di attendere. Il tempo trascorre incurante dei miei trepidanti timori.
Peter, sicuro di sé in quanto deve aver già vissuto questa scena almeno un’altra volta, è pronto a muoversi ma prima di farlo sembra che aspetti che accada qualcosa. Vorrei non averlo mai pensato perché poco dopo vedo qualcosa che congela il mio sangue più di quanto non faccia un serbatoio di azoto in un impianto refrigerante.
Un bambino.
Smunto.
Consunto.
Fragile.
Stravolto dalla fatica.
Lo vedo avanzare barcollando mentre esce da un cunicolo. Sulla schiena ha una specie di cesta di vimini che regge a tracolla e che segna le sue spalle con lividi ed ematomi. Se questo non bastasse a farmi inorridire, lo fa certamente la vista delle membra umane che sta trasportando.
Chi può essere così inumano da concepire una simile tortura?
La mia è una domanda stupida e me ne rendo conto da solo. Siamo in un luogo alieno dominato da logiche che non hanno nulla a che vedere con l’Umanità… o quasi. Peter attende che il bambino si allontani e scompaia dalla nostra vista prima di farmi segno di seguirlo. Il mio compagno entra nel cunicolo dal quale è uscito il povero essere umano.
All’inizio è quasi totalmente buio.
Le uniche forme di luce presenti sono due strisce di colore azzurro che si snodano quasi fossero dei binari e ci mostrano il percorso da seguire. Peter si muove con una velocità e una confidenza che mi preoccupano e rassicurano allo stesso tempo.
Al termine del nostro percorso, finiamo in una nuova grotta, diversa dalle precedenti non solo per la grandezza ma anche per forma. Si tratta di una caverna larga e bassa scavata in quella specie di tufo. La parete superiore sopra le nostre teste si può toccare con le mani e non sarà alta più di due metri e mezzo. Ciò che però sembra turbare Peter è che a poche decine di metri dall’imbocco dal quale siamo giunti ci sono dei gradini costruiti in modo approssimativo e… acqua.
«C’è qualcosa di diverso». Per la seconda volta da quando ho incontrato quest’uomo lo vedo perdere il controllo e la speranza di uscire dalla situazione nella quale ci troviamo. «Non dovrebbe essere qui», sussurra l’ex soldato.
Io incomincio a capire che se lui è preoccupato per quel che vede allora il pericolo deve essere veramente grosso. Vorrei aiutare, dare il mio contributo in qualche modo ma non capisco come la vista dell’acqua in una grotta possa averlo scoraggiato fino a tanto.
Una voce, una di quelle che ho già sentito, ci scuote e riporta subito alla realtà. Proviene dalle nostre spalle e non può essere presagio di nulla di buono.
«Come al solito, Peter, ti dimostri superiore a ogni mia aspettativa». Quel buffo ometto che tanto aveva preoccupato il mio compagno quando siamo stati trasportati in questo luogo alieno ci punzecchia col suo sarcasmo attorniato da quattro di quelle rane mostruose.
Anche Peter si volta e lancia all’uomo un’occhiata fredda come la neve siberiana in un mese invernale. «Purtroppo per te, questa volta, non c’è alcuna via di fuga», sibila l’ometto. «Conoscendo la tua pericolosità abbiamo apportato alcune modifiche sostanziali, come hai già potuto accorgerti. Puoi ucciderci tutti ma non puoi uccidere Blue Paradise perché… non si può uccidere un mondo intero sommerso come te e il tuo amico», la sua voce si fa più sottile per accrescerne l’effetto e conclude «dall’acqua».
A un suo cenno, le pareti della caverna assumono una forma trasparente e io e il mio compagno capiamo che il nostro destino non è molto differente da quello del bambino che abbiamo visto trasportare resti di corpi umani. Sopra le nostre teste vediamo solo acqua. Il luogo nel quale ci troviamo è completamente sommerso da un oceano e pensare di nuotare fino alla sua superficie sembra essere al di sopra delle possibilità di qualsiasi mammifero che respira con i polmoni e non con delle branchie.
Forse, se sapremo essere abbastanza saggi, una morte rapida in uno scontro può diventare l’unica via di fuga accettabile.
Vorrei che anche Peter la pensasse come me.