Identità rubate
La prima volta la incontrai di notte. Camminava sola, con lo sguardo puntato a terra, fisso ai piedi.
Il soprabito blu era di due misure, almeno, più grande. Se lo teneva stretto in vita, come l’abbraccio di un innamorato, cercando di non perderlo.
Passavo da lì distratto, dopo il turno di notte, credo. Procedendo con passo spedito verso casa.
Mi sorrise.
“Hai da accendere?”disse.
“Mi rincresce, non fumo” risposi.
“Buon per te. Grazie lo stesso”.
Mi ritrovai a fissare quella piccola bocca deforme come fosse stata la cosa più bella mai vista in vita mia.
Imbarazzato, ripresi la mia marcia da soldato. Senza fretta però.
La settima dopo, feci cambio turno con un collega.
Gli rubai il giorno.
La trovai ad aspettarmi sotto la pensilina dell’autobus per il centro.
Mi si avvicinò canticchiando.
“Ti accompagno volentieri se vuoi” disse.
“E’che vado a prendere un caffè con degli amici…” risposi senza nemmeno guardarla negli occhi.
Mi sorrise e si allontanò facendomi un cenno con la mano.
Il giovedì sera successivo portai mia moglie e mia figlia a vedere la partita di basket organizzata dalla mia azienda, per raccogliere fondi a favore dei malati di Alzheimer, credo.
La vidi sugli spalti di fronte. Abbozzò un cenno di saluto.
Ma io non ricambiai.
All’incirca un anno dopo mia moglie mi lasciò, portando con sé la nostra bambina.
La vidi scendere in strada, con le valige e gli scatoloni ingombri di ricordi che forse nemmeno le appartenevano. Non feci nulla per fermarla.
Quella notte girai un paio di locali in cerca di quell’oblìo che solo le grandi sbornie sanno dare.
Riconobbi la piccola bocca deforme, da lontano, credendo fosse un miraggio.
Mi avvicinai e con la lingua ingarbugliata riuscì a domandarle: “Dormi con me questa notte?”
Lei sorrise e senza sorpresa declinò, stringendosi nell’abbraccio scuro del suo soprabito di due misure più grande.
Sono qui da qualche settimana, credo. Ma a giudicare dalla familiarità con cui mi trattano potrebbe essere anche da più tempo.
Divido la stanza con Marina, una vecchia dispotica di 70 anni ormai priva di lucidità da qualche anno. Sono l’unico uomo presente in questo piano. Medici a parte.
Socializzo poco qui dentro. Mi sembrano tutti pazzi.
Viene spesso a trovarmi una giovane donna con un soprabito blu. È talmente evanescente da sembrare irreale a volte. Forse è mia figlia.
È una bella donna. Anche se ha la bocca storta e quando mangia qui con me, la domenica, sbrodola dappertutto.
La sgrido di continuo ma mi sorride sempre. Mi è capitato di sentirla parlare con qualche medico di deterioramento cognitivo cronico progressivo. È gentile ad interessarsi di Marina, penso.
Ieri le ho chiesto di sua madre. L’ultima immagine che ricordo di lei è quella di un taxi giallo che la porta via. Mi ha sorriso e sistemato i capelli senza dire una parola, nascondendo a stento le lacrime.
Non ho avuto il coraggio di domandarle più nulla di quella vita che non ho potuto condividere con loro.
Anche se a volte la curiosità, in quei rari ed ultimi momenti di sanità mentale , mi avrebbe forse aiutato a non incorrere in spiacevoli sorprese.
Chi sono e perché mi trovo qui ancora non l’ho capito. La mia mente mi regala immagini che forse nemmeno sono reali. Forse lo sono state un tempo, o forse no. Ma non lo posso sapere con certezza, perché nessuno risponde alle mie domande.
A volte, da sveglia, sogno di essere una donna a cui i demoni del passato hanno rubato l’identità, in un giorno che ha il colore della notte.
Vivo in un’alba che assottiglia il confine tra il reale e l’immaginato. Dove non esiste distinzione di sesso, né di ruoli. Dove la donna è uomo, è padre, è madre, è marito, è figlia.
E dove tutti sono soli con sé stessi.
Poi chiudo gli occhi. E, per un istante, mi riconosco