Il becaària*
Avventura e libertà l’avevano sempre attratto, tanto da convincerlo che la sua vita si fosse svolta tutta in tempo di guerra. Ma l’unico conflitto sperimentato per davvero, forse, se lo portava dentro. Oddio, scemo del tutto Mario non era. Sapeva benissimo che nella terra dov’era nato di fragori bellici non c’era traccia. Gli bastavano i maestri della sua formazione. Grazie ad autori come Vittorini, Fenoglio o Bonelli, i compagni ideali erano ribelli e libertari, gente che non aveva alcuna intenzione di sottostare a leggi altrui. Come lui, esattamente così. Proprio. Nei momenti più duri si inerpicava chissà dove, alla faccia delle prevaricazioni inflitte da un mondo che, ne era certo, nemmeno tentava di capirlo. A partire dalla famiglia. Più che altro dal padre. L’inquietudine era diventata così soffocante che dopo l’ennesimo scontro col genitore Mario strappò dai muri della propria camera i disegni ai quali aveva dedicato più tempo, disciplina e amore. Ma pure Keegan e Neskeens finirono a brandelli. Per profanare il meticoloso universo del padre faceva del male a se stesso o almeno alla sua creatività. Roba da psicologo, forse. Non era la cura, ma nei panni del perseguitato si sentiva meglio. La mamma qualcosa più del padre capiva. Difatti si mise a piangere nel vederlo lacerare le sue icone prima di buttarle al macero. ‐ È così nervoso… per via degli esami, di sicuro ‐ l’aveva sentita spiegare all’amica Denise, con voce velata di tenerezza per quel figlio indecifrabile che pareva d’un tratto diventato un altro. Gli esami non c’entravano un cazzo. Erano loro due; l’ottusa severità paterna e la remissività di lei che esasperavano Mario, già arrabbiato per tutto quello che era obbligato a fare, non certo per ansia da diploma. Al ginnasio andava poi così male, che poteva fregarsene degli esami senza il minimo senso di colpa. Non era stato lui a scegliere quella scuola di città; e si crogiolava nell’alibi di esaudire degli ordini o, in subordine, di eseguire desideri. Ed era nervoso perché le cose su cui gli era toccato chinarsi per ben tre anni non lo interessavano, gli portavano via la vita senza che ci trovasse un perché. Della scuola salvava l’italiano, un po’ di storia, si faceva piacere il francese, gli era simpatico il professore di scienze. Il resto un buco nero. Quando arrivava finalmente il sabato, in ogni caso e con qualsiasi tempo doveva sacrificarne la mattina ai passatempi del padre. Tipo piantare l’ennesimo albicocco nel giardino o falciare il maledetto prato verde. Di vita, rimaneva un giorno e mezzo. Per fortuna i suoi l’avevano finita con l’obbligo della messa la domenica. Che era un’incombenza più noiosa che dolorosa, ma che si era aggravata per via di un nuovo parroco che predicava non solo contro i vizi, ma pure contro il cattivo umore. (...) *Romanzo di Giorgio Genetelli, pubblicato da Ana Edizioni nel novembre 2010