Il cassetto
"Sei malato! Oggi, niente scuola".
Era la voce di mamma, al mio risveglio. Che felicità! Nonostante la febbre e il mal di gola, ero liberato da un incubo oppressivo. La scuola, l'avevo iniziata male, in guerra, e ci vollero anni, per abituarmici. Lo stato di malato mi dava adito all'accesso di un rituale, che trovavo meraviglioso ed appagante. Cambiavo, di prima mattina, camera e letto. Passavo nella camera dei miei genitori, nel loro lettone, che mamma aveva rifatto di fresco. La finestra, luminosa, dava sulle alture del Righi. S'intravvedeva il panorama della vasta conca, che racchiude il mare e la Lanterna. La luce entrava di prima mattina, vivida, da farsi rubare in ricordo.
Dopo il caffè e latte, con biscotti, comprati in fretta, all'uopo, dalla cameriera, (per il costo, non erano abituali) avveniva una delle concessioni più esorbitanti, che io potessi immaginare. Mamma sfilava dal comò della camera il primo cassetto e me lo depositava sulle gambe. ‐“Guarda, ma non mettere in disordine”‐ Era il licet ad entrare nel suo intimo riparo, a noi bimbi, proibito. Questo gesto le dava tempo e spazio per il lavori di casa di prima mattina. Mamma usava il cassetto come l'unico spazio veramente suo. Aveva un pudore delicato nell'aprilo e chiuderlo. Gesti studiati, veloci a celare una sua intimità. “Non mettere in disordine” ‐ mi ripeteva ancora. Ma quel cassetto nella confusione degli oggetti, nel loro sovrapporsi, era il simbolo di un disordine inimmaginabile. L'illusione di racchiudere una vita privata in un cassetto, ne era il risultato. Io m'intrufolavo tra boccettine di profumo,dalle varie forme, creme, che saggiavo con la punta del dito, rossetti, collane, anelli, medaglioni. Odoravo tutto, come un segugio e ogni oggetto aveva un suo profumo, fosse un pettine di tartaruga spagnolo o un fermaglio indiano. Ne ravvedo ancora il piacere intatto, conservato in un grumo di neuroni. Eppure doveva esserci stato un giudizio di malattia, all'inizio, che mi permetteva tutto questo. Ma non ricordo i sintomi della mia indisposizione; il letto appena rifatto per me e quel cassetto di meraviglie da indagare, scrutare, era tutto l'universo. A completare il mio bisogno di incauta profanazione di ciò che non mi spettava, un pacco voluminoso di cartoline illustrate, trattenute da un nastro. Cartoline giornaliere di papà a mamma, durante il fidanzamento. La calligrafia curata di papà, a penna blu. Minuta, delicata, come una missiva d'amore, voleva. “Cara Franca”, in mille modi, in mille inclinazioni. Poi non andavo oltre, già per un pudore tutto mio, che ho conservato per una vita. Mi turbava e m'ingelosiva quel termine, “Cara Franca”, pur se usato da mio padre. Le foto riprodotte sulle cartoline erano di attori dell'epoca. Greta Garbo ne comprendeva molte; bellissima, divina. Alcune erano solo schizzi veloci del suo volto. Shirley Temple, una bambina prodigio d'allora, attrice in molti film americani, coglieva la mia meraviglia, nei suoi vari costumi di posa. Quale distanza di vita, da una mia coetanea! Io preferivo le raffigurazioni di Stanlio e Ollio, prodigiose, tanto da scoprirmi un sorriso. “Adesso basta, lo metto via” E si chiudeva il sipario di quel fantastico teatrino ed io avvertivo, solo allora, il mal di gola.
Trascorsero degli anni e tuttò mutò. Ai miei figli, ammalati, accesi, nell medesimo frangente, lo schermo della TV. Chissà se avessi portato il mio cassetto! Forse, ricorderebbero qualcosa in più di me.