Il commesso viaggiatore Prima parte

‐ Solo Beemoth, prego – disse lo sconosciuto quando il consièrge gli chiese il nome.
Lui non obiettò. Scrisse il nome, poi girò il registro al nuovo cliente perché firmasse.
‐ Anna, aiuta il signore col bagaglio – da dietro il bancone spuntò una bambina bionda di non più di tredici anni.
Il nuovo arrivato sorrise sotto la tesa del suo cappello nero: ‐ Non si preoccupi, ho solo quella – disse accennando alla valigetta in pelle nera poggiata accanto al bancone.
Il consièrge, il padre di Anna, si strinse nelle spalle: ‐ Come preferisce –
Gli porse la chiave, che lo sconosciuto prese con una mano guantata di pelle nera. Il padre di Anna se ne dimenticò subito, ma sul momento gli sembrò di percepire un netto senso di repulsione mentre gli dava la chiave. Anche se le loro dita si erano appena sfiorate, fu come se avesse ricevuto una spiacevole scossa elettrica, e, pur non ricordandosi assolutamente quando fosse cominciato, passò tutto il giorno con uno spiacevole formicolio alla mano, così fastidioso che continuava a massaggiarsela, soprappensiero, senza però saperne individuare il momento d’origine.
Ritirando la mano troppo di scatto disse: ‐ La sua stanza è in fondo sulla sinistra, numero diciannove. Come ha chiesto lei, le due accanto sono libere ‐
L'uomo sorrise scoprendo denti stranamente puntuti – almeno così sembrò ad Anna,che ancora lo spiava da dietro il bancone – ma il suo tono, benché avesse una voce metallica, sembrò assolutamente sincero e cordiale: ‐ Grazie mille, ci vediamo domattina allora ‐
Si girò in uno svolazzo del lungo cappotto nero.
Guardandolo, Anna non riuscì a capire dove finisse il suo corpo e dove iniziasse il cappotto. Sotto quel lungo soprabito nero, per quanto si sforzasse, non riusciva a percepire la fisicità dell'ospite, la sua corporeità. Per qualche istante si chiese addirittura se ci fosse un corpo sotto quel cappotto.
Andiamo, hai tredici anni, datti un contegno si disse, lieta di poter utilizzare la parola contegno, che  aveva appreso giusto il giorno prima.
Appena l'uomo si avviò verso la porta Anna sgusciò fuori. Si sentiva terribilmente incuriosita, e la sua curiosità vinceva il timore non ben decifrato che provava.
L'uomo aprì la porta e i raggi del sole morente dietro la collina lo investirono, proiettando la sua ombra sul pavimento dell'ingresso.
Ad Anna sembrò improvvisamente enorme e minaccioso. Ora lo vedeva come una gigantesca sagoma nera, un continuo svolazzo indistinto del soprabito sovrastato dalla larga tesa del cappello, bordato dal rosso degli ultimi raggi del sole.
Anna si trovò nel mezzo della sua lunghissima ombra, e per un secondo si sentì come inghiottita. Sentì freddo. Come quando in cucina le capitava di entrare nella cella frigorifera...quella lenta aria gelida che ti prende prima le caviglie – a scuola aveva imparato che l'aria fredda è più pesante, per questo il freddo lo sentiva prima in basso – per poi arrampicarsi sui polpacci e su su fino ad inghiottirti.
Durò solo qualche istante. Un secondo prima la sagoma nera dell'uomo si stagliava sulla soglia invadendo con la propria ombra tutta la stanza, un attimo dopo era sparita, lasciando ad Anna una spiacevole sensazione di gelo, l'impressione di non essere poi così matura per i suoi tredici anni come soleva credere, e il solito paesaggio che da quando era nata vedeva dalla veranda del motel.
Davanti all'ingresso infatti c'era un piccolo portico in legno dipinto, un po' scolorito dal sole ma ancora dignitoso. A sinistra ed a destra c'erano i due edifici che ospitavano le camere, anch’essi bordati da una veranda sotto cui si aprivano le porte.
Nelle altre direzioni il nulla; almeno così lo definiva Anna: una ventina di metri di posteggio separavano il motel dall'Interstatale, un nastro d'asfalto rettilineo che spariva a destra ed a sinistra, perdendosi nel paesaggio tendenzialmente piatto e brullo.
La città più vicina era a circa una decina di chilometri – assolutamente invisibile da lì – e quindi, a parte il distributore di benzina circa mezzo chilometro sulla sinistra, si poteva avere l'impressione di essere su un altro pianeta, nel nulla più assoluto.
Per fortuna a chiudere l'orizzonte c'era, dall'altra parte dell'Interstatale, di fronte al motel, la bassa collina dietro cui stava tramontando il sole, lanciando i suoi ultimi bagliori rossi ad illuminare il portico.
Anna si girò. Suo padre stava leggendo qualche documento sul banco, non badando a lei.
Non sembrava minimamente partecipe di tutto quello che lo sconosciuto aveva portato con sé in quei pochi minuti in cui era stato lì...e poi quel nome lo sconosciuto. Anna si sorprese a pensare che
era la prima volta che pensava a qualcuno degli ospiti con questo epiteto...sconosciuto. Di solito quelli che venivano lì ‐ quasi tutte persone che avevano fatto male i conti sulle tappe del viaggio ed un bel po' di camionisti – lei li pensava come ospiti, o clienti, o al massimo con un generico signori ma quel termine, sconosciuto, che tanto spontaneamente aveva affibbiato a quello strano tizio, non lo aveva mai utilizzato con nessuno. Eppure sentiva che era maledettamente azzeccato.
Scosse la testa ed andò in cerca di suo fratello.

Da dietro la porta sentiva già il rumore delle grida e degli spari.
Si fermò un istante prima di entrare; un altro sparo, seguito da un’esplosione.
Scosse la testa ed entrò. Suo fratello, due anni meno di lei, era davanti alla tv, con in mano l'immancabile joistick dell'X‐box o come diavolo si chiamava. Sullo schermo in primo piano c'era un fucile o qualcosa di simile, che il suo adorato fratellino manovrava con destrezza per sparare a chiunque gli si parasse davanti.
Stava giovando al suo gioco preferito, che aveva assorbito tutto il suo tempo nell'ultimo mese. Anna non se ne ricordava il nome...l'unica cosa che rammentava della dettagliata e noiosa spiegazione che suo fratello le aveva dato mentre con mani tremanti per l’eccitazione scartava la confezione del gioco era che grazie a quel coso poteva giocare on line e massacrare giocatori di tutto il mondo. Quindi una delle poche vie di contatto che avevano con il mondo lontano dal motel, suo fratello la usava per sparare in testa alla gente, per quanto virtualmente.
‐ Bart ‐
Nessuna risposta. Il mirino si spostò rapidamente per colpire un avversario in cima ad un tetto che Anna scorse solo quando cadde giù dal cornicione. Si chiese come avesse fatto a vederlo.
‐ Baaaart ‐
Niente. Suo fratello lanciò una granata.
‐ Mmmmmm, che c'è? ‐
‐ È arrivato uno strano tizio al motel ‐
Altri spari. ‐ E quindi? ‐
‐ Voglio sapere cosa senti ‐
Il sentire, come lo chiamavano loro, era una capacità che suo fratello aveva fin da piccolo. Uno dei primi ricordi di Anna, forse addirittura il primo, di questo sentire risaliva a quando lei aveva sette anni e lui cinque, quando la mamma se n’era andata da poco.
Era un caldo pomeriggio di primavera, erano seduti a giocare con non mi ricordo che cosa nel portico dietro al motel, dove l'edificio principale fa angolo con quello che ospita le cucine e la sala da pranzo. Ad un certo punto Bart si era alzato di scatto, mollando quello con cui stava giocando. Aveva fissato l'edificio alla loro destra, ad almeno così era sembrato ad Anna: ‐ Non lo senti? ‐ le aveva chiesto rimanendo immobile.
Anna era rimasta sconcertata: c'era qualcosa nel tono che aveva usato suo fratello che l'aveva bloccata: ‐ Sentire che cosa? ‐ gli aveva chiesto cautamente, come timorosa di provocare qualche reazione inaspettata ed incontrollabile. Aveva teso l'orecchio, ma non aveva sentito nulla, a parte qualche raffica di vento ed il rumore delle auto sull'Interstatale.
Quando stava per chiederglielo di nuovo, suo fratello aveva parlato: ‐ Ha paura, è spaventato. Ha sonno e freddo e fame. Dobbiamo aiutarlo.
Anna aveva continuato a fissarlo, senza capire: ‐ Di chi stai parlando? ‐
Suo fratello non aveva risposto. Era uscito dalla sua perfetta immobilità – ad Anna era sembrato che non avesse nemmeno mosso le labbra per parlare, che non respirasse nemmeno – per avviarsi rapidamente verso le cucine.
Anna lo aveva seguito. Bart aveva camminato lungo il muro, aveva girato l'angolo dell'edificio fino a fermarsi in un punto in cui l'erba era più alta, a ridosso del muro delle cucine. Anna lo osservava rapita. Ogni volta che suo fratello faceva qualcosa di strano, che sua sorella di solito classificava semplicemente come sciocco, forte della propria superiorità data da due anni in più di esperienza di vita, non esitava a dirglielo, ma questa volta sentiva di stare assistendo a qualcosa di davvero stupefacente.
Bart si era fermato davanti a quella macchia d'erba ed aveva cominciato a scostarla. Anna tendeva ancora l'orecchio, ma non sentiva assolutamente nulla.
‐ È qua dentro, ha bisogno di aiuto ‐ 
Solo a quel punto, come se avesse ricevuto il permesso, Anna si era inginocchiata accanto a lui. Bart le aveva mostrato quello che aveva trovato: nel muro della cucina si apriva l'imboccatura di un tubo, largo una trentina di centimetri. Probabilmente uno scolo o qualcosa di simile. Anna aveva teso di nuovo l'orecchio, ma non aveva sentito ancora nulla; in una situazione normale avrebbe già lasciato perdere, classificandola come una delle bambinate di suo fratello, ma questa volta no. Forse anche lei, di riflesso da Bart, lo sentiva.
‐ Ha paura, è sfinito, dobbiamo aiutarlo – all'improvviso Bart aveva iniziato a singhiozzare – poverino, non è colpa sua, era solo curioso – due grandi lacrime gli erano sgorgate dagli occhi, rigandogli le guance.
E qui Anna si era stupita della sua stessa reazione: aveva assecondato suo fratello in quella cosa così sciocca, così bambinesca:‐ va bene Bart, adesso lo aiutiamo, va bene? ‐ aveva detto con tono calmo, pur non capendo assolutamente cosa stesse succedendo. Aveva avvicinato l'orecchio al tubo, il più possibile, quasi infilandoci la testa dentro. Era freddo ed umido. Stava quasi per rinunciarci quando finalmente anche lei lo aveva sentito. Ma non lo aveva sentito come suo fratello, lei lo aveva sentito nel senso di udito: un fievole miagolio.
‐ C'è un gatto là dentro. Deve essersi incastrato ‐
‐ È quello che ti ho detto, no? ‐ aveva detto Bart tirando su col naso.
Anna aveva rinunciato a spiegargli che non era andata proprio così. Anzi, aveva del tutto trascurato la cosa: si era data lei della sciocca per non averlo capito subito.
Con l'aiuto del cuoco Raul, un ciccione giovialone con grandi baffoni sotto i quali sorrideva sempre – un uomo che al solo vederlo dava l'immagine della professione di cuoco – lo avevano tirato fuori. Era un gatto nero, stanco e spaventato, ma tutto intero. Il gatto dormiva in quel momento sul divano accanto alla tv, totalmente indifferente all'apocalisse che il suo giovane padrone stava scatenando sullo schermo.
‐ Insomma, Bart – sbottò Anna. Anche il gatto sollevò la testa.
Lo schermo si oscurò: ‐ Ecco, per colpa tua sono morto ‐
‐ Purtroppo, temo proprio di no – sbuffò Anna – Ora ascoltami, È arrivato un tizio, poco fa. Mi dà i brividi. Tu cosa senti? ‐
Bart staccò finalmente gli occhi dallo schermo e la guardò interdetta, attraverso le lenti degli occhiali : ‐ Mi sa che ti sbagli, non è arrivato nessuno. Il prossimo arriverà domattina, credo ‐
Anna rimase interdetta: ‐ È arrivato eccome. Ha firmato il registro pochi minuti fa. E ti assicuro che è una presenza inquietante, c'è qualcosa che non va in lui, al solo vederlo mi dà i brividi ‐
‐ Ed io ti ripeto che non è arrivato nessuno. Lo sai che lo sento prima se arriverà qualcuno. Figurati se non sentirei uno che è già nella propria stanza, a pochi metri da noi ‐
Era vero.
Dopo l'episodio del gatto il sentire di Bart, come lo avevano battezzato, aveva iniziato ad affinarsi.
Qualche giorno dopo Anna lo aveva trovato seduto davanti all'ingresso del motel. Fissava dritto davanti a sé, come un giocatore di scacchi che sta cercando di visualizzare la scacchiera di una partita a distanza per decidere la prossima mossa. Lo aveva osservato in silenzio, timorosa come la volta prima: ‐ Sta per arrivare un uomo, su un'auto rossa. È di fretta, sta scappando da qualcosa.
Anna non aveva detto nulla. Si era semplicemente seduta accanto a lui ad aspettare. Qualche minuto dopo nel parcheggio era arrivata sgommando un'utilitaria rossa. Il guidatore l'aveva posteggiata storta, occupando quasi due posti auto, ed era sceso prima ancora che il motore smettesse del tutto di girare. Era poi entrato nel motel di corsa, trascinandosi dietro una piccola valigia.

Ora Bart sentiva con largo anticipo chi sarebbe arrivato al motel, se era un uomo od una donna, a volte addirittura che aspetto aveva o che auto guidava.
Bart riusciva anche a sentire le sensazioni delle persone. Non quello che pensavano, sarebbe stato troppo bello, ma di che umore erano, come si sarebbero comportati – in modo gentile, simpatico o scortese – e che intenzioni avevano prima ancora che entrassero nella stanza.
A quanto avevano osservato sia Bart che sua sorella, il suo sentire dipendeva da quanto intensamente la persona provasse quelle sensazioni, quanto intensamente si concentrasse su un pensiero, su un sentimento.
Un comportamento normale per Bart non era fonte di alcuna sensazione. Poteva solo percepire la presenza di quella persona, ma niente di più.
Quando Anna gli aveva chiesto come facesse, lui si era semplicemente stretto nelle spalle:‐ Lo sento e basta – e sua sorella non aveva fatto altre domande. Con la meravigliosa ingenuità dei bambini, considerava la cosa perfettamente normale: c'è chi è bravo a giocare a calcio, chi ha buona memoria, chi disegna bene, e suo fratello sentiva le cose, tutto qui. Lo stesso per Bart, che ancora non considerava affatto straordinaria la sua percezione.
Solo ultimamente Anna aveva iniziato a porsi qualche domanda. Qualche mese prima aveva visto un programma sul paranormale, in cui un giornalista si chiedeva se ci fosse davvero gente con poteri fuori dal comune.
Anna non aveva esattamente capito cosa volesse dire paranormale, ma aveva intuito che quel genere di cose che quella parola descriveva non era del tutto ordinario, e che quindi anche suo fratello doveva avere qualcosa di particolare. Ma la sensazione era rimasta relegata in un angolo della sua testa, non meritevole di più di tanta attenzione.
‐ Quel gioco idiota ti ha fuso il cervello. È in una delle ultime stanze di sinistra ‐
Bart socchiuse gli occhi dietro le lenti, poi scosse la testa: ‐ No, non c'è nessuno. L'unico che c'è sul lato sinistro è il camionista ciccione che è arrivato ieri ‐
‐ Vieni con me e vedrai che ti sbagli – gli disse Anna con un sorriso di sfida.
Bart la guardò con un'aria di stanca superiorità: ‐ Lo sai che non vinci mai ‐
Per un po' di tempo avevano giocato ad indovinare le cose come lo chiamavano: cercavano di prevedere le cose prima che accadessero: per esempio se la prossima macchina che sarebbe passata sull'Interstatale sarebbe venuta da destra o da sinistra, o se sarebbe stata di un colore chiaro o scuro, o quante persone ci sarebbero state a cena e così via. Ovviamente Bart vinceva sempre. A parte un iniziale vaga invidia, ad Anna la cosa non pesava: lei era molto più brava di lui a scuola, e tanto le bastava: ognuno ha le proprie doti, come ripeteva mamma
‐ Avanti, vieni tu stesso a controllare ‐
Bart sospirò: ‐ Va bene, tanto oramai mi hai fatto perdere – disse accennando allo schermo. Anna non aveva capito se Bart sentisse le cose anche quando giocava, ma la cosa non le interessava: quei giochi erano così sciocchi.
Uscirono dal piccolo appartamento dietro la reception in cui vivevano ed andarono sotto il portico dell'ingresso.
Il sole era del tutto tramontano dietro la collina, alcune fiammate di raggi morenti ancora spuntavano da dietro il crinale, tingendo di arancione il parcheggio.
‐ Allora, nella stanza sette abbiamo il ciccione – disse Bart con aria professionale camminando lentamente davanti alla lunga fila di porte che si aprivano sulla veranda – sull'altro lato il commesso viaggiatore ossessionato dalla moglie che potrebbe tradirlo...‐
‐ Sì, ho capito, vieni al dunque – lo interruppe Anna – cosa senti nella diciannove? ‐
‐ Assolutamente niente. È vuota – disse Bart cantilenando per sottolineare la propria esasperazione.
In quel momento la luce della stanza si accese. Anna gli scoccò uno sguardo di trionfo: ‐ Mi sa che hai fatto cilecca ‐
Bart non rispose alla provocazione. Era rimasto come inebetito, a fissare la finestra illuminata: ‐Non è possibile, lì dentro non c'è nessuno. Non può esserci nessuno – farfugliò.
Come a voler ulteriormente smentire le sue parole, un'ombra passo dietro la finestra. Istintivamente i due si ritrassero. ‐ Merda, non può essere – Normalmente Anna lo avrebbe rimproverato per questa imprecazione, ma questa volta non disse nulla.
Bart sembrò provare a raccogliere le idee. ‐ Allora, Raul e i due ragazzi – intendeva i camerieri che si occupavano anche di cucinare – sono in cucina. Agata sta apparecchiando, e non vede l'ora di andarsene a casa. Papà è in camera sua, ed è triste – da quando la mamma se n’era andata, ben poche volte Bart aveva percepito da suo padre sentimenti diversi – poi ci sono gli ospiti – e Bart li elencò senza mancarne uno. ‐ Ma in questa stanza ti assicuro che non c'è nessuno ‐
‐ O forse non lo senti ‐
‐ Ma com'è possibile che senta gli altri e non lui? ‐ saggia obiezione, cui Anna non seppe rispondere.

Mangiarono in fretta.
Bart si alzò con ancora la bocca piena, ed Anna subito lo seguì. Sapeva già dove stava andando: entrambi volevano vedere lo sconosciuto.
Si avviarono verso la sala da pranzo, senza dire una parola.
Lo sconosciuto era ad un tavolo nell'angolo. Era vestito come quando era entrato. Stesso cappotto nero che non si era levato, stesso cappello nero, stessi occhialini tondi cerchiati d'argento con le lenti nere – occhialini antiquati – venne da pensare ad Anna.
Mangiava lentamente, con gesti precisi, facendo sparire bocconi sempre uguali in quella bocca stranamente dentata.
‐ Non lo sento – disse sconsolato Bart – è come se non ci fosse.
Erano rimasti vicino all'ingresso della sala, fingendo di chiacchierare con Agata, che era lì ferma in attesa che i clienti finissero il primo piatto per servire il secondo.
Anna era pensosa. Non riusciva a capire. Non era mai capitato che a suo fratello accadesse una cosa simile. E del resto era la prima volta che anche lei provava sensazioni del genere riguardo ad un cliente.  Da quando aveva memoria, aveva visto passare migliaia di persone da quel posto, eppure era la prima volta che  qualcuno la spaventata a quel modo.
Prese una decisione; si allontanò dalla sala tirandosi dietro il fratello. ‐ Dobbiamo entrare in camera sua ‐
Bart la guardò incredulo: ‐Ma sei impazzita? ‐ gridò quasi.
La sorella gli strizzò il braccio per fargli abbassare la voce.
‐ Dicevo, ma sei impazzita? ‐ ripeté bisbigliando – hai idea di cosa ci fa papà se ci beccano? ‐
Anna lo guardò con un'espressione risoluta; aveva già deciso. ‐ Lo so meglio di te quello che succederà. Ma qui ci sono troppe cose strane. Quel tizio non mi è piaciuto fin dall'inizio. Ed il tuo non sentirlo ha confermato tutto questo. Dobbiamo farlo.
Bart sospirò rassegnato. Da un lato sapeva bene che quando sua sorella parlava in modo così solenne non c'era verso di farle cambiare idea; dall'altro non gli spiaceva affatto partecipare ad una cosa del genere: a parte l’X‐box c’erano ben pochi diversivi nella sua vita forzatamente isolata.
Si avviarono verso la reception.
Da quando erano nati, il motel era stato, oltre che la loro casa, il loro campo giochi. Conoscevano tutto di quel posto, ogni anfratto, ogni nascondiglio, quali porte cigolavano quando si aprivano, tutto.
Ed ovviamente sapevano anche che per ogni stanza c'erano due chiavi. Una lasciata al cliente, una conservata alla reception. In realtà c'era anche quella che loro padre chiamava la mia chiave magica, che apriva tutte, ma proprio tutte le porte. Ma quella l'aveva solo lui, e per loro era impossibile procurarsela.
In quel momento, invece, all’ingresso non c'era nessuno. Anna scivolò dietro al bancone, frugò un attimo e poi mostrò trionfante al fratello la chiave della camera diciannove.
Bart si guardava in giro nervosamente: ‐ Giù – le disse in un soffio, un istante prima che la porta si aprisse.
Anna si tuffò dietro il bancone, trattenendo il respiro e stringendo la chiave nel pugno.
Bart assunse un'aria indifferente ed annoiata, come se fosse lì per caso: ‐ Ciao papà – disse a suo padre, che stava arrivando.
Lui rispose con un vago cenno della mano, come al solito. Poi si bloccò: ‐ Che ci fai tu qui? Non hai mangiato? ‐
‐ Abbiamo appena finito, papà – rispose Bart ossequioso.
Lui annuì, di nuovo pensando ad altro, poi: ‐ Dov'è tua sorella?
Bart si strinse nelle spalle: ‐ Bho, sarà a telefonare con qualche idiota che le viene dietro ‐
‐ Rispetta tua sorella. Ora vado al ristorante che Agata...‐ non finì la frase, di nuovo assorbito da qualche pensiero, e si allontanò.
Da quando la mamma non c'è più fa sempre così, come se noi esistessimo solo quando ci incrocia per caso pensò amaramente Anna; per capire questo non aveva certo bisogno del sentire di suo fratello. Appena udì la porta chiudersi emerse da dietro il bancone, come un marinaio dal boccaporto di un sottomarino. Si guardò in giro, poi sgusciò fuori, seguita a ruota da Bart.

La cena era appena cominciata; avevano almeno un quarto d'ora buono di tempo.
Anna si fermò davanti alla porta della diciannove, si guardò intorno, poi provò ad inserire la chiave.
‐ Dia, muoviti – disse Bart, continuando a lanciare occhiate al posteggio deserto ed alla porta principale del motel. Evidentemente il non sentire lo sconosciuto lo aveva turbato tanto che ora si fidava più della propria vista che delle proprie percezioni.
Anna armeggiò con la serratura per ancora qualche lunghissimo istante. Le tremavano le mani e non riusciva ad introdurre la chiave. Finalmente vi riuscì e fece scattare la serratura.
Il click metallico del chiavistello sembrò loro risuonare come uno sparo. Per qualche istante rimasero immobili, trattenendo il fiato, come se da un momento all'altro tutte le persone presenti nel motel dovessero riversarsi fuori sulla veranda, attratte da quel fragore.
‐ Dai, muoviti – il primo a riscuotersi fu Bart.
Anna non se lo fece ripetere: sospinse la porta, che cigolò con un lamento che sembrava lo strazio di un animale ferito – da quanto tempo nessuno oliava le porte delle stanze – e sgusciò dentro, seguita da suo fratello.
Si richiusero la porta alle spalle.
Un fioco chiarore filtrava dalle tende della finestra, che erano chiuse.
Strano, pensò Anna mentre i suoi occhi si abituavano all'oscurità, di solito aprire le tende è la prima cosa che si fa entrando in una stanza. Invece le lunghe tende che arrivavano a terra erano chiuse, esattamente come le lasciavano le cameriere, e solo un filo di luce contornava i bordi del pesante tessuto.
Davanti a loro c'era quello che avevano visto migliaia di volte: una stanza di motel. Il letto matrimoniale con di fronte una piccola scrivania, sulla sinistra un armadio, sulla parete opposta alla porta la finestre. A sinistra la porta socchiusa del bagno. Una poltrona in un angolo completava l'arredamento.
Bart fece qualche passo verso il centro della stanza. Il copriletto era perfettamente liscio, intatto, come lo avevano lasciato le cameriere.
Anna si avvicinò al bagno ed aprì la porta.
Trattenne il fiato ed accese la luce.
Gli asciugamani pendevano immobili dal porta asciugamani, perfettamente piegati. Non una goccia d'acqua nel lavandino né nella doccia.
‐ Sembra che in questa stanza non sia entrato nessuno dopo le cameriere – mormorò, quasi a se stessa
‐ Nemmeno nell'armadio ci sono vestiti – disse Bart, che aveva appena aperto il mobile.
‐ Molto strano. Eppure è da un po' che è arrivato. Non ha usato nemmeno il bagno...non si è neppure seduto sul letto.
‐ Però qui c'è qualcosa, guarda – disse Bart additando l'armadio.
Sul fondo, accanto ad una coperta ripiegata compresa nel corredo di ogni stanza, c'era la valigetta nera dello sconosciuto. Le sue rifiniture cromate brillavano sinistramente nella luce incerta della stanza.