Il diavolo e la soprano
Racconto per adulti. Erotico. Feticismo. Sottomissione.
A Maria, voce indimenticabile.
1
– Signora, le medicine, ancora… ma insomma? Sapevo che Carmen se la prendeva davvero e la cosa, come sempre, mi faceva sorridere.
– Carmen cara, non mi sgridare… non mi servono più! – il sorriso lento si spense. Non solo per la tristezza, che ormai faceva parte della mia vita di tutti i giorni, come un ombra che non schiarisce, ma per il dolore fisico che adesso mi costava ogni piccolo gesto. La povera donna non capiva che quegli intrugli non curavano niente. Non c’era cura per la mia malattia: in realtà prendevo solo dei potenti antidolorifici. Ero talmente assuefatta ai farmaci che a mala pena blandivano il mio malessere.
– Portami in terrazza, voglio godermi l’ultimo sole dell’autunno. Quest’anno è stato caldo, mai come il sole di Atene o di Capri, intendiamoci, ma… – Carmen ascoltava poco, lo sapevo. La maledetta serva mi trattava come fosse mia madre, e se lo poteva permettere. Certamente aveva fatto di più lei per me, che la mia madre vera; sempre assetata di soldi, come tutta la famiglia del resto. Sulla grande terrazza, c’erano i soliti mazzi di fiori: si ricordavano ancora di me. Non erano tanti, certo, non come una volta.
Ricevevo dei bigliettini da “abituè” che non saltavano una sola settimana, che cari. Il maggiordomo aspettò che Carmen mi sistemasse nella poltroncina di rattan, sapeva che non volevo essere vista, ero incapace persino di camminare da sola.
La Tour era lontana ma rassicurante, quella mattina nell’autunno incombente, chissà perché ripensai a lui, dopo tanti anni…
– Ci sarebbe la signorina Corbett de “Le Figarò”, ormai passa tutte le mattine.‐ Stavolta non mi arrabbiai ma ne risi. Comunque non la ricevetti: megera. Sapevo bene cosa voleva da me: l’intervista, il giornale, tutte balle! Lei voleva conoscere il mio segreto. Stupida, illusa! Era grassottella ma sana e robusta, ma non era certo per invidia che non mollavo, anzi… era per il suo bene!
2
‐… di uno stagno dove tre cigni facevano evoluzioni graziose. Conosceva bene quei meravigliosi uccelli! L’anatroccolo si lanciò disperato verso di loro gridando: “ Ammazzatemi, non sono degno di voi!”
Jane stavolta era certa, non si sbagliava: le piccole dita si erano mosse, anche se impercettibilmente. Emozionata incalzò la sua lettura, scandendo bene le ultime parole della fiaba:
– Lui che era stato per tanto tempo un brutto anatroccolo era finalmente felice e ammirato. –
Un piccolo bagliore proprio vicino all’occhio sinistro: era una lacrima.
La volontaria scattò in piedi e corse verso il corridoio:
– Infermiera… presto, presto: si sta svegliando!
Fu una festa per tutto il reparto, la bambina era stata data per spacciata, invece ora si riprendeva lentamente.
Aveva passato quasi un mese in coma, dopo l’incidente; peccato che quando iniziò a riprendere conoscenza la sua mamma non fosse li.
Ricordare quei momenti del passato mi seccava la lingua e la gola; riprendendomi dai ricordi, scartai sulla sedia.
Avevo sempre dato grande importanza a quei momenti. Non l’avevo mai confessato a nessuno ma da ragazzina mi convinsi che ero nata due volte, la prima volta per volere di Dio, ma la seconda volta per intercessione del diavolo…
Naturalmente, in entrambi i casi, la mia avida e disamorata “mammina” era, sentimentalmente assente.
Sorrisi amara tra me e me, ero talmente rassegnata all’inimicizia di mia madre che quasi non mi faceva più male.
Qualcuno suonava il violino, sulla Senna, rallegrando i turisti del Bateaux mouches.
E sì, della mia prima vita non ricordavo più niente, ma dopo l’incidente, decisi che sarei diventata un Cigno, a qualunque costo! Anch’io sarei stata tanto ammirata, da dover nascondere il viso sotto le ali, per schernirmi. Ero solo una bambina ma mantenni la promessa.
Tornai in casa.
Decisi di cambiarmi, avevo quasi voglia di uscire ma rinunciai. In casa mi sentivo forte, nonostante i dolori insopportabili, ma debole e vulnerabile fuori.
Carmen mi seguiva discreta. Ci ‘perdemmo’ nel guardaroba: vestiti, sete, broccati, abiti di scena… un mare di scarpe.
Il mio bauletto; i trucchi: lo aprii. Sul fondo trovai la piccola fiala, non la aprivo da 20 anni; sul fondo l’ultima goccia ambrata. La presi, la strinsi tra le mani.
Uscendo, mi venne in mente un’altra cosa:
– Ferma! – dissi – Devi fare una cosa, ti ricompenserò, lo giuro! – risi: era un vecchio gioco, tra di noi.
Carmen conosceva bene la mia tirchieria ma ero certa che non me ne volesse, dopotutto lei sapeva gestirla al meglio.
Ero legata a tutte le cose, persino alle monete; Carmen era l’unica che riusciva a farmi spendere i soldi per vivere, senza di lei saremmo morti tutti di fame!
– Vedi quella piccola valigia di cartone? Sai cosa contiene? – la serva mi guardò, sorpresa:
– Oh no, che non lo so è chiusa, con la combinazione… –
– Hai sbirciato, allora…? –
– No, che non ho sbirciato, signora – disse educatamente annoiata – solo che quella… ‘cosa’ l’abbiamo presa, per poi posarla, decine di volte, e lei non si è mai decisa ad aprirla! Mai. – recitò, come fosse una cantilena.
– Ah, Carmen, sei insostituibile. – Era vero, solo lei mi teneva allegra – Non c’è bisogno di aprirla. E poi mi sono scordata la combinazione: è passato troppo tempo. Eppure, c’è stato un periodo in cui l’aprivo tutti i giorni, come il cestino della merenda per la scuola, da bambina. Prendila! Poi ci allontanammo nel corridoio.
– Ascoltami bene – dissi seria – domattina questa ‘cosa’ deve sparire dalla faccia della terra: so che mi posso fidare di te. – Carmen non rispose.
Mi feci sistemare in poltrona, davanti alla finestra, con la ‘nostra cartella’ sulle gambe e, dopo tanti anni, mi decisi a ripensare a quei giorni.
3
“Lui” comparve nella mia vita attraverso la porta principale, tramite un amico di mio marito: si autodefiniva come una specie di “psicologo; un trainer, esperto nel curare l’immagine pubblica dei VIP”.
Quando venne a cena la prima volta mi turbò: scuro di pelle, naso aquilino: I capelli neri e lisci, e un paio di baffi folti e scuri.
Per tutta la sera non mi guardò mai. Parlò di me sempre in terza persona, chiamandomi: ‘La sua signora’ mentre discuteva col mio uomo.
Non mi offesi, forse perché avevo l’autostima sotto i piedi in quel periodo.
Sposare quell’uomo anziano e interessato mi era sembrata la soluzione a tutti i miei annosi problemi. Non rischiavo più di morire di fame, è vero, ma imparai che soltanto tu puoi fare qualcosa per te stessa. Gli altri hanno sempre uno scopo, sempre.
Certo non parlo d’amore, e come potrei? Non sono mai stata amata veramente e, io stessa, sono stata incapace di amare qualcosa… se non la musica, la mia bella musica, unica consolazione, anche adesso che la voce si è rintanata giù, giù, nel torace e non vuole più saperne di uscire… e il pubblico, poi, ho amato essere nota, apprezzata, applaudita, come una dea.
Makis, sembrava fosse greco, e conosceva la mia lingua d’origine ma parlava molte lingue. L’ho sentito conversare in francese, italiano, spagnolo e inglese, questo è certo, ma non sarò mai sicura riguardo al suo paese d’origine.
D’altronde non parlava mai di lui, mai!
Pochi giorni prima, una grande sarta, aveva risposto picche a mio marito: dopo avermi pesata con lo sguardo, devastandomi il corpo e l’anima. Ero entrata in sartoria gongolante, ne uscii svuotata, morta.
– Mia cara, non posso fare niente per te; torna quando potrai indossare una ’42! –
Poi, come dal nulla, comparve “Lui”.
Makis chiese che gli venissi affidata totalmente, come stesse trattando l’addestramento d’un cane, eppure non mi ribellai, e nemmeno mio marito.
Ora sono certa che quell’uomo dovette intervenire sulle nostre menti.
Mi prese, alle sue condizioni. Sei mesi dopo, la sarta raggiante, non riusciva a credere ai suoi occhi. Mi amò da subito e divenne la mia amica più fidata.
Mio marito fece preparare una stanza al piano terra, apposta per Makis.
Tutto cominciò una mattina, era mercoledì: da quel momento Lui prese in mano la mia vita e la stravolse per sempre. Dopo quella cena non l’ho mai più visto mangiare, né saprei dire se mai dormì veramente in camera sua.
Dal canto mio ero praticamente reclusa; potevo andare fuori solo all’alba, accompagnata da una domestica, come un cagnolino che si porta a spasso quando glia altri non vedono.
Dopo, rientravo nel mio appartamento e rimanevo sola con Lui fino alle diciassette. Nessuno poteva entrare, nemmeno mio marito.
Il pranzo, una dieta ricca di carboidrati, carne e frutta, lo lasciavano su uno sgabello, fuori dalla porta.
Quel famoso mercoledì ero a disagio, avevo da poco fatto colazione e mi ritrovai da sola con quello che, per me era uno sconosciuto.
Chiuse la porta a chiave, poi sedette su un sofà, accavallando le gambe.
– Da questo momento in poi tu sei una cosa mia, non una persona: non hai mente, sei solo un corpo. Sarò io a pensare per te e a dirti cosa devi fare. Se non obbedisci, sarai punita! Se non comprendi un ordine, sarai punita… da questo momento in poi mi chiamerai Maestro. Tutto qui! Hai capito? –
Per dignità personale cercai di obiettare qualcosa, lui si alzò e con un calcio in un fianco mi fece ruzzolare per tutta la stanza spezzandomi il fiato.
– Se non comprendi… sarai punita! – si limitò a ripetere senza emozione – E adesso spogliati completamente, palla di sego! – Lentamente, piangendo in silenzio, mi alzai da terra, mi ricomposi e iniziai a spogliarmi, tolsi le calze e pure le scarpe.
Nuda, in mezzo alla stanza, non mi preoccupavo della mia indecenza, mi vergognavo e speravo che il mio corpo grassoccio non offendesse quell’uomo, che sentivo essere diventato il mio padrone.
Il desiderio di obbedire fu così immediato da lasciarmi per sempre sbigottita.
Ero stata una donna volitiva e forte, molto caparbia, e adesso? Nelle sue mani non ero più nulla. Ma lo accettai, senza opporre nessuna resistenza. Mai avevo sentito un tale senso di appartenenza in vita mia.
5
Nel mio appartamento c’era un grande bagno, per fortuna.
Ricordo le pareti di mattonelle sempre bagnate, ricordo lui sempre sudato a causa del calore e del vapore che vi si respirava.
Tutta la giornata ero quasi sempre nuda oppure indossavo solo la vestaglia ma senza intimo: all’inizio mi sembrò sconcertante, poi mi piacque, mi sentivo libera, spogliata anche dai miei tabù.
Non mi capacitavo come il mio vecchio marito non s’insospettisse ma dopo le prime settimane non m’importava, anzi.
Makis, o chi diavolo fosse, oltre a impormi la sua disciplina e le sue oltraggiose “operazioni” mi prendeva rapidamente, in tutti i modi anche cinque, sei volte in giorno, come un animale veloce e aggressivo.
Ci accoppiavamo, per lo più in piedi, mentre lui non prendeva mai nessuna precauzione: sento ancora la sensazione gelida del suo seme deposto e abbandonato nei mie orifizi.
Non ho mai provato niente per lui se non un senso di profonda prostrazione, la certezza che ero una sua ‘cosa’ senz’ombra di dubbio.
Mi lasciavo usare come fosse un destino ineluttabile, come fosse un dovere a cui non potevo sottrarmi.
Non godevo mai con lui, mai. E nemmeno lui con me, credo. Non mi guardava, non si curava di me, non provava nulla se non il desiderio impellente di venire.
Alcune volte, ero sul tavolo, di schiena con le gambe spalancate, alloro lo vedeva di faccia. Guardava nel vuoto e non ansimava neppure quando scaricava. Solo qualche grugnito, durante le possenti spinte finali… poi usciva subito, abbandonandomi a me stessa, senza ma i dimostrare un minimo di tenerezza.
Anche la vergogna iniziale passò… le prime volte che mi costrinse a ricevere il clistere morivo di vergogna, ma poi mi abituai. Sebbene quella pratica, oltre a svuotarmi fisicamente mi lasciasse vuota, debilitata.
Mangiavo di tutto, l’ho detto ma non mi dava il tempo di assimilare niente. Dopo un poco iniziava a riempirmi di acqua tiepida e poi mi svuotava di tutto il cibo. Prima il cattivo odore mi mortificava, poi mi ci abituai. Infine l’odore non era quasi più percettibili e i clistere erano effettuati col latte, a litri.
Dopo alcuni mesi di piacere e sofferenze, passati in uno stato di dormiveglia dei sensi, mi accorsi di essere cambiata, ancora una volta.
Gli ultimi giorni, Lui non mi fece più niente, mangiavo solo carne cruda, marinata, verdure e frutta. Il colore tornò sulle guance e io, allo specchio, ero bellissima. Il mio stomaco era cambiato, non assimilavo quasi più, infatti da allora, cominciai a mangiare sempre meno, a livello di quantità.
Makis non mi prendeva nemmeno più ma mi faceva solo cantare, lui al piano suonava divinamente e sembrava godere di quei momenti.
Lasciandomi sconcertata si dimostrò un grande esperto di tecnica musicale, dandomi delle dritte sull’interpretazione e sul dosaggio dell’aria che, in seguito, adoperai con grande successo nella mia strepitosa carriera. Ero diventata divina e me lo sentivo addosso.
Poi andò via, per sempre.
Prima di partire mi consegnò la valigetta con i suoi attrezzi:
– Per ricordarti a chi appartieni… – mi disse.
Travolta dal successo, non volevo credere di aver accettato un patto col Diavolo, ma adesso temo ogni giorno, adesso che sento che l’ora è vicina!
Ho mentito a Carmen, ricordo la combinazione… apro… incredibilmente vuota! C’è solo un biglietto e due righe sbiadite:
“La tua voce val bene un’anima! Sei libera, adesso.”