Il domatore di penne
Ho sempre voluto fare il giornalista. Fin da quando vidi, da bambino, il film “Quarto potere”.
Mi esaltai a vedere tutti i film di giornalismo, anno dopo anno. Intanto studiavo come una bestia, sempre ottimi voti. Il liceo, poi l’università, sempre fra i migliori.
Dopo gli studi e la laurea, la vera gavetta, i veri insegnamenti della vera vita.
Il primo impiego in un piccolo quotidiano di provincia, a scrivere di cicli della semina, allevamento di suini e festività religiose.
Il giornalista scrive di tutto, sa scrivere di tutto, e in fondo è come se sapesse tutto.
Ho fatto carriera. Con l’appoggio giusto al momento giusto si arriva in alto. Funziona così. È una di quelle verità che non insegnano a scuola, ma che tutti imparano molto presto nella vita.
I giornali sono imprese commerciali e politiche, come ogni altra cosa umana. La cultura con la C maiuscola non appartiene al giornale, se non per dargli un minimo di spessore, nella pagina culturale appunto. Una farcitura. Un modo per dire “guardate che potremmo disquisire su Proust o Kant per giorni interi, non lo facciamo soltanto perché voi non siete all’altezza. E noi non siamo così spocchiosi”. Autorevolezza e simpatia in un unica soluzione.
Sono diventato direttore, seguendo diligentemente la gavetta, i suggerimenti dei miei sponsor politici, e la rigorosa filosofia “cintura e bretelle”. Mai farsi trovare col sedere scoperto. Meglio una notizia in meno che una causa o un nemico in più. Punto.
Sono passati sotto la “mia scuola” ormai centinaia di giovani aspiranti giornalisti. Li ho visti arrivare da me, come pulcini sotto le ali di mamma chioccia. Tutti pieni di compunzione e coscienza della nobile missione. Tutti traboccanti di arguzia e cultura e intelligenza. Tutti pieni di ideali e di desiderio di verità.
Tutti con la penna affilata e temprata al sacro fuoco del mito.
E a tutti ho spuntato la penna, come avevo dovuto fare io, e come migliaia di altri prima di me.
Ad uno ad uno, questi giovani leoni sono stati addomesticati, le loro penne smussate, i loro artigli limati. Fino a renderli tutti docili e partecipi del comune interesse.
Il giornalismo è mestiere. Non è arte. Non è studio. Non è guerra. Non è religione. Soprattutto non è rivoluzione.
Il mondo lo cambiano altri, se ci riescono, il giornalista riporta soltanto la notizia che il mondo sta cambiando.
Ho allevato generazioni di giornalisti, sotto le mie ali ingrigite e annoiate. Ho fatto scenate e fatto piangere fior di ragazzoni e legioni di ragazzotte. Per il loro bene, per insegnargli il mestiere.
Ci vuole poco a bruciarsi in questo campo. Basta un articolo un poco sopra le righe, una frase un poco malevola verso qualche potente, o amico di potente, o amico di amico di amico....
Chi avrebbe detto che dopo tanti anni avrei visto tutta la faccenda da questa nuova posizione, da questo nuovo punto di vista.
A volte le vita sorprende. Raramente, ma a volte lo fa.
Stavo “domando” la nuova ragazzina, 23 anni, fresca di laurea in storia moderna.
Aveva preparato un pezzo di costume, sulla stagione balneare. Solo che l’aveva riempito di riferimenti ad abusi edilizi, inquinamenti fraudolenti, speculazioni, processi, nomi, luoghi, sembrava si fosse andata a studiare tutti i fattacci della riviera degli ultimi 50 anni.
Gran bel pezzo, non c’è che dire, perfino divertente nella sua stesura ritmata, ironica e appassionata.
Roba da far chiudere il giornale, o far saltare tutte le poltrone, da quella dell’amministratore delegato, alla mia, fino a quella dell’usciere invalido.
Ho dovuto domare la ragazzina. Un ragnetto di 55 chili scarsi. Occhialuta e brufolosa.
Ha cercato di tenermi testa. Ho dovuto, come spesso succede, alterarmi ad arte. Ormai so urlare meglio di un sergente maggiore anziano dei Marines.
Al primo urlo è impallidita.
Poi man mano che rincaravo la dose, ha ripreso colore, passando da un bel rosa carnicino, a un ramato rosso‐arancione, fino a un rosso infuocato.
Io intanto continuavo la mia missione formatrice, impartendo a lei e, per la forza dei miei polmoni, anche a tutti i colleghi, un’ennesima lezione sul giornalismo moderno.
Mi aspettavo ormai di vederla scoppiare in lacrime e probabilmente scappare via come un povero animaletto braccato.
Lei invece si è tolta gli occhiali. Ha preso la mia grossa e preziosa stilografica di marca dalla scrivania, l’ha scappucciata, e me l’ha infilzata nel petto. Me l’ha infilzata nel cuore!
Adesso sono a terra, riverso malamente tra la scrivania e la poltrona girevole.
Da questa posizione vedo la mia stanza completamente diversa.
Chi avrebbe mai pensato che il piano della scrivania, sotto fosse così pulito, virgineo; niente macchie di inchiostro e caffè, molto più caffè che inchiostro a dire il vero.
Invece la mia poltrona, sotto, è tutta una ragnatela, è tutta un grumo di polvere accumulata in anni di redazione coscienziosa e attenta.
La stilografica doveva essere ben affilata, la sento dentro al petto, brucia. Sento colare il sangue e altro sangue sento salire su per la gola. Chi avrebbe mai pensato che una penna stilografica di marca potesse diventare un’arma bianca.
E chi avrebbe mai pensato che quel ragnetto di ragazza, occhialuta e brufolosa, potesse avere tanta forza e tanta follia.
Da questa posizione supina, sento la moquette sotto le dita, è ruvida e secca, come la mia lingua.
Vedo tutti i miei redattori, dal basso in alto, che strana visione, li avevo sempre visti dall’alto al basso.