Il doppione
Carla ha quarantadue anni e fa l’infermiera. Tutte le mattine dopo aver preso il caffè leggermente zuccherato si guarda allo specchio e sorride fermando gli occhi sull'angolo sinistro della bocca, che tende verso l’alto più di quello destro. Ha sempre visto bellezza e furbizia in quest’impercettibile dissimmetria estetica. Ha sempre trovato bellezza nell’aspetto non canonico della realtà.
Quando si osserva le capita di ripercorre a ritroso il sentiero della vita, ricordando minuziosamente tutto quello che l’ha resa una persona migliore. Non si sente speciale ma fortunata. È stato il tempo a regalarle le consapevolezze che adesso stringe tra le mani come un rossetto. Rosso, il colore preferito dalle sue due donne.
Dà un’ultima sistemata ai capelli, prende lo zaino Invicta viola e azzurro macchiato da citazioni anni 90, controlla che ci siano tutti i libri al suo interno e in punta di piedi raggiunge la porta. La chiude pianissimo, quasi fosse in cristallo, attenta a non spargere rumori in casa e svegliare chi dorme.
Concitata sale sul 18 per raggiungere i pazienti. La sua esistenza conta molteplici inversioni, forse questa è la più importante: prestare cura alle ferite degli altri dopo aver imbellettato i tagli sul suo cuore.
Da piccola Carla era una bambina esile e introversa. Durante i pochi minuti di ricreazione non avvicinava mai nessun compagno. Preferiva, piuttosto, osservare i suoi amici da lontano mentre giocavano e cantavano a squarciagola canzoni sbagliate.
Eppure aveva una grande voglia di entrare a voce alta nella mischia, e sbattere piedi per terra, colorare, sorridere e correre attorno ai banchi verdi. Ma sceglieva di fare tutto questo in silenzio. Avvertiva un senso di tranquillità nell’immaginare e basta. Le permetteva di essere serena quello spazio di sicurezza che segnava la distanza tra la sua vita e le domande a cui non aveva intenzione di rispondere.
‐ Carla, vieni con tuo padre al cinema a vedere “Wally”?
‐ Giulio, lei non ha un papà. Non è come noi.
In questi casi scappava in bagno quasi perdendo il controllo dei suoi piedi, delle sue Superga bianche vissute e soprattutto di se stessa. Chiusa la porta iniziava a toccarsi le mani con le mani, poi premeva il palmo sugli occhi sino a vedere macchie simili all’eredità lasciata dal sole dopo averlo guardato troppo in faccia. Sfiorava i capelli, strofinava il naso, spingeva le unghie nelle braccia, tratteneva il respiro, accarezzava le gambe dritte e veloci. Faceva tutto questo per sentirsi: era uguale, uguale a tutti. Non le mancava niente.
La sua grande passione erano gli album di figurine. Le piaceva vivere per immagini. Portare a termine le cose era fonte di soddisfazione, compiacimento che diventava visibile in quel sorriso asimmetrico.
Parlava con contentezza nel tono solo al momento dello scambio dei doppioni. Li conservava in ordine, legati con un elastico giallo limone, nella cerniera esterna dello zaino Invicta. Una volta tirati fuori, li disponeva con cura sul banco. Accadeva, a volte, quando la posta in gioco era particolarmente alta e il traguardo della completezza sempre più vicino, che ne scambiasse dieci per una. Considerando quelle dieci di poco valore rispetto a quell’uno.
Non le mancava nulla ma aveva qualcosa in più: due madri. Una Serena, l’altra Chiara. La serenità era spesso di Chiara, a Serena mancava a volte la chiarezza. Una era più tenera, l’altra più autoritaria. Una era fatalista, l’altra ribelle. Una amava il rosso, l’altra pure. Una preferiva la gonna, l’altra la gonna pantalone. Una amava il rock, l’altra l’elettronica. Una stirava, l’altra cucinava. Una cucinava, l’altra andava a prendere Carla da scuola. La spesa si recavano a farla in tre. Una amava il calcio, l’altra la letteratura ma per amore una Domenica al mese la passava allo stadio. Una adorava uscire in bici, l’altra preferiva la sua Kawasaki Z 750. Una faceva da mamma, l’altra anche. Una faceva da padre, l’altra anche. Carla, invece, realizzava quattro lavoretti l’anno: due per la festa della mamma, due per la festa del papà.
Non c’era nulla di strano in tutto questo se non i pregiudizi sociali che additavano con scherno i baci tra due pedine uguali.
Una famiglia composta da tre donne. Una bambina felice, abbracciata da un amore doppiamente sensibile. Felice sì, in casa però. Gran parte della sua tristezza e della sua infelicità le veniva trasmessa dall’esterno. Da quella parte di persone che definiva “altri”. Per colpa degli “altri” quando alzava la testa al cielo non coglieva la grandezza di quel lenzuolo azzurro terso, scovava sempre tra le pieghe di quello splendore una nuvola grigia in cui si affastellavano moltissime paure:
‐ Cosa penseranno gli altri?
‐ Per gli altri non è normale.
‐ Cos’è normale per me e cosa lo è per gli altri?
‐ Gli altri dicono che da grande amerò una donna.
‐ Gli altri definiscono le mie mamme egoiste.
‐ Per quale motivo per gli altri non ho una famiglia solo perché non ho un padre?
E così fino al punto in cui le domande si ripiegavano su altre senza risposta.
Crescendo imparò a rispondere, prima a se stessa poi al resto del mondo, senza pensare a ciò che avrebbero voluto sentirsi dire gli “altri”. Rompeva piatti, bicchieri e pregiudizi. Non senza avvertire il colpo delle parole pungenti, trattava con cura le ferite. Era diventata abilissima nel farlo.
Sul numero 25, Carla, s’innamorò di Alessandro. Lo incrociava ogni mattina sull’autobus che era solita prendere per raggiungere l’aula studio. Era diverso dagli altri ragazzi nell’espressione, negli occhi cerulei, nel modo in cui teneva “La critica della ragion pura” tra le mani. Studiava filosofia e trasmetteva malinconia quando sorrideva. Apparentemente aveva tutto, ad uno sguardo più profondo gli mancava molto. Figlio di genitori separati, era cresciuto solo con sua mamma che gli faceva anche da padre. Cercava di riempire di senso e corposità il vuoto lasciato da un uomo assente ed aggressivo. Da un uomo estraneo e snaturato.
Tra Carla e Alessandro andò esattamente come doveva andare, ad una birra ne seguì un’altra fino al giorno in cui i loro spazzolini si ritrovarono nello stesso posto.
E la sera, ogni volta che lo guardava addormentarsi, rifletteva sulle mancanze di lui e sulla pienezza di lei. Le sue due donne. Non avrebbe scambiato quel doppione con niente e nessuno. Non avrebbe modificato una sola virgola nel testo della sua vita. Si sarebbe messa volentieri solo tra parentesi, almeno un paio di volte al mese, durante la fase premestruale delle sue due madri. Gestire la propria le veniva difficile, gestirne tre richiedeva una sforzo sovraumano.
Abbassando le palpebre, investita dalla stanchezza, si lasciava andare al sonno, dedicando l’ultimo pensiero a quel meraviglioso album di famiglia.