Il drappo
Solitamente il mondo non si cura di me. Intendiamoci, non il mondo nel suo complesso, sto parlando il linguaggio socio‐psicologico che un tempo si chiamava “presenza del Fato”.
Il mondo, quindi, per lunghi periodi non mi invia nessun messaggero, nessun attore, a chiedermi attenzione e ad offrirmene.
Così che io, per lunghi periodi, riesco quasi ad ignorarlo e ad illudermi lucidamente ch’esso non sia nulla più di un palcoscenico di cartone e di gesso, con qualche drappo colorato per coprirne i buchi e le mancanze. E per ospitare quelli come me.
Io vivo sotto uno di questi drappi da così tanto tempo che non lo vedo neanche più.
Ogni tanto qualcuno nota il mio sudario, in mezzo a mille altri (il palcoscenico è infinito), vi si avvicina e scosta il velo, incuriosito.
Di certo il mio drappo non è molto colorato, vivace, accattivante, poiché sono pochi coloro che ne sono attratti.
Sotto il mio velo io sono comunque molto attento, come tutti. In genere vedo da lontano le figure che si muovono per la scena; a volte poche e sparse, a volte moltitudini intere.
Le vedo aggirarsi, guardinghe o distratte, scostare veli, inciamparvi o evitarli di proposito, quasi sdegnose.
Noto facilmente quali drappi le attirano maggiormente. Ce n’è uno a pochi metri da me, molto colorato. Sembra fatto di stoffe diverse, è molto ampio, potrebbe ospitare molte persone. Ma io so che sotto c’è solo un ragazzo, avrà 25 anni circa.
Una volta ci siamo affacciati nello stesso momento, scostando i lembi dei sudari e rimanendo per qualche secondo a fissarci.
Era notte, c’erano solo il silenzio e la luce della luna piena, che rendeva i drappi quasi fosforescenti. Non ci siamo detti nulla, né abbiamo fatto alcun cenno.
La cosa strana, del vivere così, sotto i drappi, è che nessuno conosce il colore del suo, perché a nessuno interessa saperlo. Tanto non potremmo cambiarlo e in questo palcoscenico così conosciuto e prevedibile, stantio quasi, è l’unico mistero che ancora serbiamo inviolato.
Dovete sapere che noi, sotto i drappi, non facciamo quasi nulla, a parte pensare e sognare.
I più giovani passano le giornate a sbirciare la scena, curiosi, ma verso i trent’anni diventiamo tutti molto più introspettivi e cauti, forse addirittura insofferenti.
E così passiamo anche intere settimane senza nemmeno gettare un’occhiata fuori.
E’ abitudine all’abitudine.
Però l’altro ieri una visita l’ho avuta, e non era il postino né il lattaio, che arrivano sempre al mattino presto e, senza nemmeno scostare un lembo del velo, posano quello che devono e se ne vanno fischiettando.
Quella mattina avevo ancora la testa piena di sogni, non sentii i passi né una voce o un respiro, ma avvertii che qualcuno si era fermato vicino al mio drappo (non chiedetemi come lo sapessi, noi dei drappi sviluppiamo una sensibilità superiore).
Sta di fatto che questa persona se ne stava lì, davanti al mio sudarietto gualcito, senza dire nulla, senza chiamare, niente.
Io trovai la cosa curiosa, nessuno si ferma vicino a un drappo se non ha l’intenzione di vedere chi c’è sotto.
Poi mi sentii indispettito da quella mancanza di educazione e fui sul punto di mettere fuori la testa, guardare in faccia il maleducato e dirgliene quattro.
Pensai, però, che era questo che voleva lo screanzato e mi proposi di dargli una lezione. Nessuno è più paziente di noi drappisti. Sarei rimasto muto ed immobile fino a stancarlo.
Doveva essere ben giovane, pensai, per non sapere che la nostra più grande virtù è proprio l’immobilità, il disinteresse per la scena.
Così passarono le ore, una, due, tre, quattro.
Ciò che mi incuriosiva era che l’individuo là fuori non emetteva suono alcuno, non faceva il benché minimo movimento. Eppure sapevo che c’era, non mi ero mai sbagliato su queste cose.
Pensai ad uno scherzo, o ad una sfida, addirittura alla provocazione di qualcuno, magari di quelli delle corde, che vivono appesi come prosciutti e fanno scherzi ai passanti. Possibile che uno di loro fosse sceso giù?
Ma poteva anche essere uno del sottopalco, che era uscito finalmente a vedere com’era fatto il mondo. Oppure chi altri?
Con il passare delle ore la mia compiaciuta ostinazione divenne preoccupazione, c’era qualcosa che non andava, non si era mai visto né sentito che qualcuno, chiunque fosse, si accostasse ad un drappo e non dicesse nulla, non facesse nulla per ore e ore.
Lasciai passare il giorno e la notte, e ancora il giorno e la notte seguenti.
In certi momenti mi dimenticai della presenza ingombrante dello sconosciuto.
Avevo i miei pensieri e i miei sogni a cui badare, non potevo certo stare lì a fare nulla, con le orecchie tese per cercare di cogliere in fallo il misterioso e maleducato visitatore.
Dopo una settimana precisa (noi drappisti abbiamo un senso del tempo perfetto) udii un leggerissimo scricchiolio.
Fui inondato da un sentimento di trionfo, la prima sfida era vinta, lui aveva emesso il primo rumore.
Che principiante! Io avrei potuto stare immobile per mesi, senza neanche muovere un granello di polvere o far borbottare lo stomaco.
La seconda settimana mi cominciai a preoccupare un po’.
Tutto preso da quella sfida e fiero della prima vittoria, non mi ero accorto che, da quando quel maledetto scocciatore si era piazzato vicino al mio drappo, né il postino né il lattaio si erano più fatti sentire.
Era già accaduto in passato che per qualche sciopero noi drappisti si rimanesse per alcuni giorni in perfetta solitudine.
Stava accadendo qualcosa di insolito, il misterioso astante e la misteriosa assenza del postino e del lattaio potevano anche non essere casuali.
Per tutta la terza settimana mi scervellai per cercare di capirci qualcosa, ma bisogna ammettere che stando immobili sotto a un drappo è difficile capire cosa accade sulla scena.
Di certo il mondo stava cambiando, se succedevano cose come queste.
Il primo giorno della quarta settimana udii nuovamente lo scricchiolio.
Mi prese un impeto di rabbia e fui lì lì per spalancare un lembo e risolvere la faccenda una volta per tutte, ma la mia ferrea disciplina e l’educazione mi impedirono un gesto così platealmente isterico.
Il giorno dopo un altro scricchiolio.
E ancora un altro il giorno appresso.
Quotidianamente, ormai, uno scricchiolio accompagnava i miei risvegli.
Con il passare del tempo imparai a riconoscerli uno dall’altro. A volte era il rumore sordo e ottuso di un metacarpo, altre volte quello secco e penetrante di una falangetta o lo schioccare largo e sgradevole di un’anca.
Erano chiaramente dei messaggi in codice.
Mi buttai per settimane nello studio degli scricchiolii misteriosi, annotando mentalmente le sequenze : una falangetta, una mandibola, due falangi, ancora l’anca, un ginocchio.
Formulai decine di codici, per cercare di interpretare il messaggio segreto, ma i segnali non si ripetevano mai in sequenze sensate.
Sotto il mio drappo cominciai ad innervosirmi, ormai era arrivata l’estate e il caldo iniziava a farsi sentire. Avrei voluto poter riprendere le mie sane abitudini : scostare un lembo di due dita, la mattina, per far entrare un po’ d’aria pura; dare qualche colpetto al drappo, per far cadere le foglie secche e la polvere accumulata nell’inverno. E magari anche gettare qualche occhiata al mondo.
Il mistero non accennava a risolversi, decisi quindi di porvi fine e attesi la luna nuova.
Nel buio completo avrei scostato il drappo lentamente, quando certamente il provocatore dormiva, pensando di tenermi in scacco, e lo avrei colto impreparato.
Quella sera non riuscii a concentrarmi su nulla, i pensieri andavano e venivano, agitati dalla sortita imminente.
A metà della notte allungai le dita verso un lembo del mio drappo, senza fare il minimo rumore.
Lo sollevai di un paio di centimetri, ma non vidi nulla, soltanto il nero della notte.
Mi azzardai ad aprire il varco di altri due centimetri, l’aria della notte era ferma, immobile, non sentii la minima corrente o variazione di temperatura.
Continuai a sollevare il drappo, un palmo, due palmi; ormai avevo il braccio completamente steso in alto, ma continuavo a non vedere nulla, se non il nero della notte illune.
Portai il drappo al di là della testa e cominciai a sollevarla verso l’alto.
Mi resi conto che quel nero non era il buio, ma un pesante drappo nero, che si innalzava davanti a me.
Mi sporsi completamente dal mio vecchio sudario e mi buttai all’indietro, per poter alzare lo sguardo fino alla sommità di quel muro nero, che adesso vedevo ondeggiare lentamente.
I miei occhi percorsero tutta la nera superficie, su verso l’alto, fino ad incontrare il bianco cereo e lucido, le orbite vuote ed il ghigno fisso della Signora.
Mi salutò con un lieve schiocco della mandibola, mentre il mio drappo ricadeva dalle mie spalle.