Il falco che pregava al vento
Era una mattina di marzo, gelida ma tersa, mentre il sole timidamente faceva capolino sopra le montagne di Birkenstock, nella Frangea meridionale; quelle montagne conosciute in tutto il globo terracqueo, così come nelle più sperdute galassie dello spazio celeste, per una sola fantastica particolarità: le loro vette di cristallo, che brillano da mane a sera fungendo da sorta di stella polare o torre di guardia fluttuante e luminescente per tutti i viandanti che a valle transitano durante il loro cammino per poi disperdersi tra i meandri dei numerosi antichi borghi della zona. Intanto, il rosso e nero falco pellegrino era già al suo posto, abbarbicato con le zampe sul ciglio d'un dirupo ‐ lassù in alto ‐ pronto a partire; prima di aprire le sue maestose ali, però, e poi librarsi in volo per la solita battuta di caccia (quando il rapace si lanciava in picchiata sulle sue ignare prede ‐ quasi sempre giovani scoiattoli e marmotte oppure appetitosi coniglietti bianchi ‐ sembrava una stupenda freccia infuocata) avrebbe rivolto la sua preghiera al cielo...al vento. Quel falco che gli abitanti e i contadini delle valli circostanti avevano soprannominato "l'ultimo dei mohicani", perché rimasto uno degli ultimissimi esemplari della sua specie, rivolgeva la preghiera al vento per un motivo: esso doveva soffiare forte, portare nuvole e pioggia e così permettergli di volare veloce veloce veloce; più veloce delle pallottole dei fucili dei cacciatori, disseminati lungo il percorso che esso seguiva tutti i giorni. Non c'era un particolare motivo per cui lo facesse: lo faceva da sempre, dacché era venuto al mondo; da quando la madre lo aveva svezzato. Forse, chissà, perché ciò era connaturato nel suo imprinting naturale o perché in lui v'era un qualcosa di umano o...i motivi avrebbero potuto essere molti altri oppure nessuno: a nessuno, comunque, era dato di sapere quali fossero. Ma le preghiere del falco sino ad allora erano andate deluse, sino a prima di quella mattina di marzo erano sempre rimaste inascoltate: la speranza del falco che il vento soffiasse forte e giungessero nuvole cariche di pioggia, era sempre rimasta tale: eppure lui era ancora vivo, era ancora lì, al suo posto, come sempre: pronto a cacciare!
‐ Vento, sii magnanimo oggi con me, ‐ cominciò a ripetere il falco mentr'era in volo, ‐ soffia forte e sopraggiungi con tante nuvole, portale con te sul mio percorso, tanto che io possa volare alto per cacciare e rendermi invisibile all'occhio dell'uomo ed alle sue bocche da fuoco: micidiali, assassine, voraci divoratrici di prede nel cielo e sulla terra!
Il falco era ormai abituato, sapeva che la sua preghiera rivolta al cielo sarebbe rimasta inascoltata ancora una volta. Continuava a volare e, mentre si buttò in picchiata per catturare un piccolo topo bianco che aveva scorto sulla terra, accadde sorprendentemente lo straordinario e l'imponderabile della natura: il vento soffiò forte, le nuvole arrivarono minacciose e cariche di pioggia come ‐ e più ‐ dei seni d'una madre che sono madidi di latte quando si appresta ad allattare la prole. Il vento, questa volta, aveva ascoltato la preghiera del falco. Questi tornò a volare infilando una dopo l'altra le nuvole scure in cielo. Nel frattempo i cacciatori avevano cominciato a sparare al falco invano. Il falco pellegrino rosso e nero riuscì a portare a termine la sua "battuta" di caccia nonostante avesse sfiorato più volte la morte: questa volta, la prima in assoluto, lo aveva fatto con l'aiuto del vento e delle nuvole. Ma ancora nulla era concluso, però: le sorprese, infatti, eran vicine da sopraggiungere...Il falco si apprestava a far ritorno al suo rifugio scavato nelle rocce sul fianco della montagna e in volo cominciò a farsi alcune domande:
‐ Miracolo dei miracoli? disse. ‐ Favorevole destino? Come mai il vento oggi ha ascoltato le mie preghiere? Qualunque cosa sia stata, ciò che conta è che sono ancora vivo e domani...si vedrà!
Non appena ebbe pronunciato suddette parole il falco, purtroppo, si schiantò contro lo sperone sporgente di una roccia e cadde in un dirupo. La natura era stata sì, benigna, questa volta ma subito dopo, con gli interessi s'era ripresa quanto aveva poco prima generosamente elargito: come una sorta di spietato infallibile usuraio. Ma, probabilmente, il falco aveva esaurito le vite a sua disposizione: ne aveva avute ben più di sette e ne aveva già consumato sette volte tante durante la sua esistenza!
Un'altro falco in quello squarcio di cielo di quella vallata, d'ora in poi avrebbe preso il posto di quello morto: un incessante spietato, darwiniano susseguirsi degli eventi naturali che non conosce sosta e non guarda in faccia a nessuno, senza riguardo per la vita nè della morte di nessuno. La natura, tuttavia, a suo modo ha una giustizia spietata ma "giusta". Anche i cacciatori avrebbero continuato la loro opera. Anche loro, infatti, come i falchi sono perfette macchine di morte. Entrambi sono programmati per uccidere coi loro mezzi a disposizione; la differenza tra gli uni e gli altri, però, è netta: il cacciatore "falco" uccide per sfamarsi e sfamare la prole; il cacciatore "uomo", invece, lo fa per piacere e per vile convenienza...se non addirittura per puro sadismo!
Taranto, 17 febbraio 2014.