Il fucile
Ed eccoti lì, di nuovo Domenica, di nuovo solo, seduto in uno spazio indefinito com’è il bosco. Accanto, a centro metri, una macchia di colore arancione fosforescente. Un altro te, seduto da solo nel mondo, che stringe quel ferro come fosse una scialuppa. Sì, è vero che siamo noi a trasportarlo, ma, in realtà, è lui che ci trascina fuori di casa, per sentieri impervi, facendoci, talora, ruzzolare nel fango, obbligandoci, talaltra, a scendere per dirupi, in maremmano detti troncacollo, ove ben difficilmente, altrimenti si avventurerebbero. In realtà, è lui che ci porta, come se si trattasse di un’antenna sintonizzata su un altro mondo. Un pianeta in cui ognuno ha lo stesso peso e valore. Sei tu, solo con lui. Non ci sono raccomandazioni o favoritismi. Certo! Ci vuole anche quel fattore, garbatamente definito fortuna, che consenta al tiratore di tirare, però, poi, tutto dipende solo e soltanto da te e da nessun altro. Serve che l’uomo metta a pieno frutto le sue potenzialità, che, col tempo e l’esercizio, si trasformano in capacità. E non ci si può nemmeno drogare, come negli sport olimpionici, perché, nel bosco, tutti i sensi devono essere perfettamente funzionanti, e, su di essi, deve governare la calma e la ragione. Il dominio della paura, il controllo dell’emozione.
Tutto ciò lo si può fare solo onestamente. Barare è impossibile. Il più bello, tuttavia, non è nemmeno questo, bensì la liberazione. Non quella definitiva, che si avrà solo quando lasceremo questa valle di lacrime, ma, almeno, l’alleggerimento del carico quotidiano. Responsabilità familiari, insuccessi lavorativi, pochezze umane, diatribe condominiali, ansietà economiche, finanche la malattia. Tutto perde di significato. Dicono, i profani: “Ma come fai a stare lì seduto a far niente per ore e ore?”.
“Dio mio!”, verrebbe da rispondere. “Potessi farlo tutti i giorni, invece di essere trascinato nel gorgo fangoso con cui il male cerca di avvilupparci per soffocare il nostro spirito”. Là, in quei boschi, ove il respiro si amplia e si purifica, lo sguardo si posa su ciò che esiste di più bello, puro, perfetto, incontaminato, innocente. La meraviglia del Creato che, lungi dallo stancare, rigenera costantemente e sempre stupisce e restituisce la gioia di vivere. Un pettirosso che viene saltellando a guardare che fai e si mette a rivoltare foglie e terriccio a poca distanza da te. Uno scoiattolo che si lancia e s’arrampica sulla tua testa, curioso come una comare. Un sasso muschiato, un mondo. Una gora d’acqua, una comunità. Lo zirlare d’un tordo, il riso d’un bambino. Il cielo adombrato che s’apre al sole risplendente, il sorriso di una madre. E i profumi. Il profumo di buono, anzi, di bontà pungente e fresca come si innalza da un rivo saltellante, gaio e rinfrescante come si libra dalla mentuccia, che in maremmano si chiama nipitella, dolce e pastoso come si diffonde dalla ceppica o acuto e secco come effonde il finocchio selvatico. Metallico nella pietra, delicato nel legno, inebriante negli ordinali e nei prugnoli. E tutto è donato, a disposizione di tutti, senza doverlo guadagnare, sudare, carpire, arraffare. A disposizione di colui che non sia cieco o sordo, e che sappia gustare e vedere l’immenso, inestimabile tesoro nel quale ci immergiamo. Che poi la preda arrivi o non arrivi, non fa alcuna differenza, perché il viaggio è sempre più emozionante del raggiungimento della meta. E la vita scorre così più accettabile, e gli anni passano e le impronte degli scarponi a volte si ripetono, a volte sono sostituiti da altri, e la falcata è più ampia e l’ambio più lesto, ma tutti coloro, che penetrano il bosco col cuore aperto continuano a vivere al riparo della sua ombra marezzata. Le risate, le cadute, le disavventure e le avventure, le fatiche e le soddisfazioni di chi lo percorre lo animano, e le loro imprese continuano ad echeggiare lungo gli stradelli e le radure. Dietro una macìa, sull’incavo rugoso di una quercia imbottita di edera, lungo il bordo segreto di un canneto frusciante e dovunque, dovunque l’avventura proceda, dovunque conduca, versando nei cuori di quei prodi l’essenza della Maremma che ne riesce traspirando un’emozione intramontabile. Nei detti antichi, nelle voci secolari delle fonti riecheggiano le gualdane dei briganti, gli amori clandestini, il ruggito dei draghi ed il mormorio delle streghe. I passi felpati degli amanti e quelli violatori dei pirati moreschi e tutto si fonde in una goccia di rugiada o di pioggia che si stacca dalla cima di un rovo e precipita lungo il collo di colui che è seduto lì da ore ad attendere ciò che possiede già, poiché galoppa nel suo sangue e rivive, prospero, nel suo spirito di uomo del bosco, di uomo di Maremma.