Il gatto di Leningrado
La notte fra l’11 e il 12 agosto 1988 feci vari sogni, interrotti da rumori insoliti. Mi trovavo in un albergo piuttosto movimentato a Leningrado, in attesa di proseguire per Mosca.
La mattina raccontai a Domenico uno dei sogni, quello che più mi turbava: un cane stava per inghiottire un uccellino e io provavo una gran pena dovendo assistere alla scena senza poter far niente.
Certo non immaginavo che, poco dopo, mi aspettava un’esperienza abbastanza simile al sogno.
Uscimmo a fare due passi lungo la Neva. Vedemmo un gattino rotolarsi stranamente sull’asfalto e sparire in un baleno dentro un buco del marciapiede. Riapparve dopo un istante, ma sparì di nuovo. Pensammo che forse, non essendo abituato alla vita di strada, fosse stato colto di sorpresa da tutto quel traffico. O, chissà, magari era stato addirittura investito da qualche auto…
Mi affacciai per curiosità in corrispondenza del buco e scoprii che il gatto, di lì, aveva rischiato di finire dritto nel fiume. Per fortuna però era riuscito ad aggrapparsi ad un pilastro del ponte. Doveva essere terrorizzato, e da quella scomoda posizione guardava verso l’alto.
Non si poteva farlo annegare! Ci voleva un appiglio, magari una fune alla quale permettergli di afferrarsi.
Sopraggiunse una signora anziana, italiana anche lei, ma appartenente a un altro gruppo di turisti. Fu colta da una gran pena per l’animale. Le sembrava di avere in camera una cordicella, ma non ne era certa. Le raccomandai di tornare il più presto possibile. Il gattino infatti non avrebbe potuto resistere a lungo in quella posizione tanto precaria.
I minuti erano preziosi. Chiamai un ragazzo che si stava allenando a correre lungo il fiume. Lui guardò giù, ma a gesti mi spiegò che non poteva farci niente.
Lì vicino c’era un cantiere. Ci poteva essere materiale utile, ma come fare? Mi rivolsi a un altro passante che mi fece capire di aver fretta. Però, impietosito, quando gli mostrai il cantiere, ci andò di corsa con Domenico.
Nell’attesa, pensai che avrei potuto salvarlo a nuoto… quel povero micino! Avevo sempre avuto ottima dimestichezza con l’acqua, la corrente sembrava minima, agevole il punto da cui tuffarsi. Ma fu un pensiero lampo: non mi andava di fare uno spogliarello in quel centro cittadino così frequentato e per giunta in un paese straniero, né di bagnarmi in quell’acqua verdognola e certamente inquinata.
Intanto il micino aveva cominciato a lamentarsi come cercando aiuto. Per fortuna arrivavano di corsa il passante e Domenico con una lunga tavola da impalcatura. L’abbassarono con cautela dal parapetto verso il punto dove era situato il gatto. Ma ahimé… lui, ancora più spaventato di prima, lasciò la presa, scivolò lungo la parete fino all’acqua, e si allontanò verso il centro del fiume con un tentativo di nuoto.
Ero disperata, mi sentivo un’egoista per non essere stata capace di tentare il salvataggio quando era ancora possibile. Ormai non c’era davvero più niente da fare! Cercai di chiamare il micetto verso la riva, di attirare la sua attenzione, ma inutilmente. Diverse persone impietosite si erano fermate a guardare la scena.
Tornava di corsa anche la signora italiana tirando fuori dalla borsa, invece della cordicella, una serie di calze di nylon bene annodate fra loro. Ma il gatto era sempre più lontano.
Lungo la riva era ormeggiata una piccola imbarcazione completamente coperta da un telo. Fin dall’inizio avevo pensato che sarebbe stato il mezzo più adatto per tentare quel salvataggio. Ma di chi era? A chi rivolgersi?
Mi accorsi all’improvviso che, arrivato chissà da dove, un uomo era montato proprio su quella barca. Corsi a mostrargli il gatto ma lui, con un gesto di impazienza, mi fece segno che già lo sapeva. Dunque, qualcuno doveva averlo chiamato.
Ritornai a puntare gli occhi sul gatto senza però trovare la forza di tuffarmi. Ormai non ce la faceva più, nuotava senza direzione girando rapidamente su se stesso. Ogni tanto la testa affondava sott’acqua, poi, miracolosamente, riaffiorava…
Tornai dall’uomo della barca supplicandolo a gesti di far presto. Lui intanto aveva già tolto l’ancora, ma aveva difficoltà a liberare la barca dal telo e quindi non poteva avviare il motore.
Guardai di nuovo il povero “naufrago” sempre più scontenta di me. Anche la signora italiana era lì piangente. Diceva: ‐ Ormai non ce la fa più, ormai annega…
Accanto a noi c’era una giovane donna vestita di nero, piuttosto elegante, che si copriva gli occhi con le mani. Era vero: il gatto sollevava la testa sempre più raramente.
Intanto la barca era partita a remi. I secondi sembrarono un’eternità, ma eccola raggiungere il gatto. L’uomo si sporse e lo raccolse accarezzandolo. Il povero animale vomitò una grande quantità di acqua e si aggrappò disperatamente a una fune che trovò sull’imbarcazione.
Alcuni di noi si avvicinarono. Il gatto piangeva, era bagnato fradicio e aveva la pancia gonfia. A quel punto la signora vestita di nero mi gridò: ‐ Madame, à l’hotel!…
Io presi il gatto accarezzandolo. Attraversammo la strada. Seguii la bella signora fino all’atrio di quell’albergo e poi nell’ascensore. Lei sparì per un attimo, tornò con un asciugamano e avvolse l’animale stringendolo al petto.
Le chiesi in francese se il gatto fosse suo. Forse è stata lei, pensai, a chiamare l’uomo della barca. All’approdo aveva tentato anche di dargli una mancia, ma lui l’aveva rifiutata.
Mi rispose che il gatto non era suo.
Fuori mi aspettava la signora italiana. Doveva scappare perché il suo pullman era in partenza, tutti i passeggeri erano già saliti. Era emozionata. Mi disse “speriamo che viva”, mi spiegò che lei era veneta e aggiunse “siamo di posti così diversi, ma tutti uniti per salvare una povera bestiola!”.
Mi sentivo molto affaticata, ma ora contenta.
Due giorni dopo andai a chiedere notizie del gatto in albergo. Non ebbi la fortuna di incontrare la signora che parlava così bene il francese. E col russo, si sa, è tutta un’altra cosa!
La lingua era difficilissima e non riuscivo a far capire la parola “gatto”. Tentai col francese e con lo spagnolo. Non conoscevo altre lingue. Anzi…
Ricorsi prima a un “miao”, poi a una serie di gesti di cui i napoletani come me sono maestri. Capii che finalmente avevano afferrato la “storia” del gatto e allora… ebbi un altro lampo di genio.
‐ Caput? ‐ pronunziai. Chissà come e quando avevo imparato il significato di quella parola! Forse durante qualche vacanza all’estero, ma mi fu davvero molto utile.
Mi risposero subito di no. Capii che non era morto. Sorrisero con aria rassicurante aggiungendo una breve frase. Intuii che il gatto poteva essere tornato dalla padrona.
Non sapevo se fosse proprio così, se fosse esattamente ciò che avevano cercato di spiegarmi, ma ero felice. Il gattino era sopravvissuto!