Il generale Malcontento
Un potente comandante, il condottiero delle catastrofi e delle rivincite. Chi lo possiede come alleato può sovvertire i destini di nazioni intere, della Storia stessa.
Quell’anno il grande generale aveva già messo a ferro e fuoco l’Etiopia, la Costa d’avorio, il Guatemala. Aveva rovesciato i governi di Palestina, Bangladesh, Utzbekistan, Afghanistan. Guidato sommosse in Iraq, Iran, Camerun, Filippine, Cambogia, Sumatra, Guyana francese. Compiuto eccidi in Algeria, Siria, Mozambico, Uganda, Pakistan, Corea del Sud.
Ed eravamo soltanto a Maggio.
Adesso se ne stava placidamente sdraiato al tepore primaverile di Roma, sotto le colonne di San Pietro, il quale lo squadrava facendogli gli occhiacci fin da quando lo aveva visto arrivare in lontananza, luccicante di mostrine e greche d’oro.
Il generale non si era minimamente intimorito alla vista del grande Santo. Sapeva bene che sulla Terra contava ormai come il due di picche. Lui e tutta la sua gerarchia di Angeli, Martiri, Profeti, Discepoli e quant’altro.
Si sistemò tranquillamente sotto le colonne, le possenti spalle appoggiate al bianco marmo, e si godette la brezzolina pomeridiana.
Era stato attirato in Europa dalla crescente crisi economica. Ormai in tutto il mondo centinaia di milioni di persone, che fino a un anno prima stavano discretamente, si trovavano sull’orlo dell’indigenza. Per un po’ era rimasto indeciso, se attraversare l’Atlantico e andare a fare danni negli Stati Uniti d’America, dove la crisi aveva sbattuto sulla strada milioni di poveracci.
Trovandosi di ritorno dall’Africa, ed essendo pigro per natura, si era limitato a fare quattro bracciate a nuoto, nel tiepido Mediterraneo, emergendo sul Lido di Ostia come un Tritone sgocciolante.
Durante la breve passeggiata fino alla Città Eterna aveva drizzato le orecchie e aguzzato i suoi grandi occhi bovini. Dovunque segni di rabbia, preoccupazione, disperazione. Tutti se la prendevano con tutti. Bestemmie e imprecazioni volavano a stormi, come i rondoni, nel cielo di Roma.
Passando per il mercato ortofrutticolo, si inchinò gentilmente ad ascoltare le lamentele delle massaie. Prezzi esorbitanti, poca scelta, frutta e verdura striminzite e pallide.
Sussurrò nell’orecchio di una anziana signora, china sulle mele ammaccate di un banchetto traballante, le sue osservazioni:
“Eehhh! Non c’è niente da fare, va tutto a rotoli. I poveracci se lo prendono sempre in quel posto”
La vecchietta ebbe un attimo di esitazione, non capendo da dove provenisse la rauca e intrigante vociona. Poi, senza nemmeno voltarsi spedì il grande generale a morì ammazzato.
Il cappello del potente condottiero saltò dalla sua testa larga e rossiccia, mentre lui si ritraeva, stupito di tanta energia compressa nelle fragili ossa dell’anziana signora.
Si compiacque della reazione e pensò che, se i vecchi erano tanto sotto pressione, pronti a scattare, figuriamoci i giovani. Roma e l’Italia erano una lunga striscia di polvere da sparo pronta ad esplodere al minimo sussulto. Uno stivalone traboccante di marciume e di rabbia.
Si allontanò fischiettando una marcetta di sua invenzione, facendosi fresco col cappello.
Arrivato nella zona dei palazzi della politica si mise a spiare ed origliare dalle finestre. Vide deputati che fumavano di scherno e ridevano di arroganza. Ministri fintamente composti e dignitosi, che sbavavano al pensiero della prossima mazzetta e della prossima sgualdrina da cavalcare. Uscieri che distribuivano consigli e soffiate in cambio di laute mance.
Lo scenario sembrava proprio promettente, completo di ogni ingrediente per una bella rivoltata allo stivale. Si stupì di non essersene accorto prima e deprecò la sua pigrizia e la sua distrazione che, essendo ormai molto avanti con gli anni, erano ormai diventate parti di lui.
Il generale attese qualche giorno, studiando la città, per preparare al meglio la sua campagna.
A metà Maggio gli sembrò tempo di agire. La Primavera avanzava, e voleva sbrigarsela prima che facesse troppo caldo.
Decise di cominciare da un grande quartiere di periferia. Si avvicinò a un folto gruppo di ragazzotti sfaccendati e repressi e, identificato il capetto della banda, insinuò le sue parole di guerra nelle acute, sebbene sporche, orecchie del giovinastro.
“Ssshhh... tze tze tze... qui bisogna fare qualcosa, reagire. Accaparrarsi quel che si può. Farla pagare a tutti sti signori e signore che se ne vanno in giro impellicciate a primavera, con le loro grosse automobili, con le loro villone...”
Il giovane scontento e rabbioso, sentendo questi pensieri fiorirgli nel cervello, iniziò a sbuffare e a scalciare una lattina accartocciata.
“Ahò! E che te pija Francè?” – Chiese uno dei suoi lacchè
“Che me pija? Che me Pija?!” – Sbottò lui – “me pija che c’ho na voja de menà le mani che quasi quasi te meno a te!”
Ciò dicendo allungò uno schiaffone al suo accolito.
“Ahòòòò!! Ma che te la piji con me? Ma vedi d’annà!”
“Regà, non stiamo a darcele fra noi” – Intervenne il braccio destro del capobanda – “Annamo a fà quarche casino in centro. Magari a ripulì quarche signora”
“Quarche signora? A’ Gennà, qua ce sarebbe da ripulire tutta la città. Anzi tutta l’Italia” – Ribattè il capo.
“Annamo ar covo nostro, raduniamo tutti e spaccamo la città!” – Propose un piccoletto dalle gambe storte.
“Spaccà?! Ma che spaccamo. Ah Fregnoni! Che ce spaccano a noi. Come l’artra vorta a Monte Mario, che a Romoletto ianno messo i braccialetti e se lo so’ tenuti pe’ sei mesi” – Il capobanda raffreddò gli entusiasmi facinorosi dei suoi bollenti coetanei.
Il generale Malcontento, insisté, con sapienti parole, ad aizzare uno e l’altro. Svolazzava, leggero come un danzatore, da un ragazzo all’altro, soffiando nelle acerbe menti pensieri di rivalsa e di vendetta.
“Oh regà! Non so voi, ma io a star qua a menarmela me sta a venì mal di testa. Me sento come un ronzìo ner cervello” – dichiarò uno dei giovani.
“E c’hai raggione Antò” – Soggiunse il capobanda – “Annamo da Rosetta a farci una partitina a bijardo, che c’ho voja de stracciarte un po’”
I due si presero braccio a spalla e si avviarono verso la sala giochi. Gli altri compari, a poco a poco, si dispersero a loro volta, chi a raggiungere la ragazza, chi a fumarsi quel che aveva dietro i capannoni dismessi, chi a casa a guardare la Tv.
Il glorioso generale, li inseguì sbattendo i tacchi e sferragliando con speroni e sciabola.
Non riusciva a credere che le sue sapienti armi di convinzione fossero state annullate da banali pruriti, puerili voglie di gioco e adolescente indolenza di periferia.
Gli gridò dietro per un po’, accusandoli di codardia, smidollata degenerazione, onanistica rassegnazione. Ma i giovani si dispersero ugualmente per le strade del quartiere, sordi ai richiami guerreschi del grande condottiero.
Il supremo Aizzatore rimase solo, in mezzo al polverone della spianata di terra, sotto il sole che picchiava allo zenit.
Cercò di rimettere in ordine le idee e le mostrine, farfugliando fra sè. Evidentemente aveva avuto una particolare sfortuna, aveva pizzicato proprio i più codardi e sfaticati di tutti i giovani sbandati di Roma.
Si riparò dal caldo all’ombra di alcuni platani, presso un grattachecche.
Il gelataio stava imprecando svogliatamente, in compagnia di due ragazzine che sorbettavano con faccia annoiata e stralunata le loro granite.
Allungò la sua facciona sudaticcia verso le orecchie della pischella più bardata di borchie, piercing e tatuaggi.
“Sshhhh...con tutto il mondo intorno, tocca stà qua a ruminare na granita. Si potrebbe invece andare a combinare qualche sfracello. Aizzare qualche ragazzo incazzoso a fare a botte, magari a mettersi d’impegno per tirare su un po’ di grana...”
Le pungenti parole del generale si insinuarono come biscie nei padiglioni auricolari della ragazzotta, strisciarono su fino al cervello e lì si misero a rigirarsi e attorcigliarsi senza posa.
“Ah Debborah! Me sa che me stanno a venì !”
“Che te stà a venì Carmè ? Te ritornano i pruriti alla passera?”
“Ah ‘ntroiata! Ma che cazzo stai a dì! Me stanno a venì le cose mie. Me sento tutto un subbuglio in testa. Na voglia de fare casino.” – Carmela si aprì in un sorriso bellissimo e sguaiato, strinse la mano dell’amica e si mise a saltellare.
“Nun sò incinta Debborah! Nun sò incinta! Oh San Gennaro te ringrazio!”
Le due sgualdrinelle gettarono gli avanzi delle granite, con grande slancio, investendo il corpulento generale e inaffiandolo di menta e mandorla sul cappello, sulle spalline, sulle greche e sugli stivaloni già impolverati.
“Mah...mah!” – Provò ad esclamare il glorioso disfacitore di mondi, ma le parole gli si seccarono in gola, mentre le grasse e sudaticce manone gli si incollavano al cappello.
Si accasciò sulla panchina, sotto al platano, leccandosi le dita dolciastre e appiccicose.
“Ma non c’è più religione!” – Blaterò fra sè e sè – “Sono stato via troppo a lungo. Qua si sono ridotti a poveri idioti. Non c’è più un cane che abbia voglia di sovvertire il sistema. Non un giovane con un po’ di iniziativa e di vera rabbia in corpo”
Con gli occhi fissi sui suoi stivali, la schiena incurvata dalla frustrazione e le mani penzoloni, il generale Malcontento era stordito. Per la prima volta nella sua lunghissima e gloriosa carriera stava facendo cilecca.
Non poteva essere vero. Doveva aver sbagliato qualcosa. Tutti quegli anni lontano dall’Italia gli avevano fatto dimenticare la profonda natura dei discendenti di Roma.
Forse non era lì che doveva aizzare. Forse doveva spingersi più a Nord, o tornare più a Sud. Le isole no, era strategicamente ridicolo. Attese la sera e con il favore della frescura si mosse a grandi falcate verso nord. Superò Firenze, scavalcò l’Appennino e diede una sbirciatina a Bologna. Sembrava che anche lì i ragazzi e gli adulti imprecassero contro tutto e tutti. Ma ognuno intanto sorseggiava una bibita, armeggiava con il cellulare, ascoltava musica con l’I‐pod. La rabbia c’era, non si poteva fare a meno si vederla e sentirla. Ma qualcosa distraeva sempre i potenziali rivoltosi. Le loro energie erano come represse, disperse in mille stupidaggini senza senso.
Fece ancora quattro passi e si trovò alle porte di Milano. Era Lunedì mattina ormai, le strade erano affollate di pedoni e macchine che tristemente si avviavano al lavoro. Una pioggia fitta e gelida batteva sulla città. Il cielo plumbeo si fondeva all’orizzonte con la nebbia. Lo scenario era perfetto.
Camminando da Porta Genova verso il centro, il generale tese le sue grandi e carnose orecchie.
Una sinfonia di bestemmie, imprecazioni, ingiurie e maledizioni accompagnava il corteo di uomini e macchine. Era tutto un concerto di odi manifesti, di minacce e insulti. I clacson suonavano in una stupenda cacofonia senza interruzione.
Due omaccioni sulla quarantina, probabilmente operai o muratori, si affrontavano, muso a muso, per una precedenza rubata. Il grande generale si avventò come un rapace, soffiò nei cervelli semi annebbiati dal sonno, parole di violenza e ribellione, di vendetta e di distruzione.
I due omoni smisero di urlarsi in faccia e si guardarono un attimo negli occhi.
Il sommo provocatore si stava già sfregando le mani, in attesa di vedere i primi pugni volare come cannonate.
I due ascoltarono per qualche istante ciò che gli ronzava nei cervelli, visualizzarono i sentimenti di odio che sentivano montargli dentro. Finché uno disse :
“Uè ma ghe n’è già tant da essere incazzat, avemm mic da rincarare la dose. E poi il lavur ming aspett!”
“E dighe bèn” – Replicò l’altro. E presero ognuno la via del cantiere e della fabbrica.
L’inarrestabile arruffapopoli si sentì mancare. Dovette appoggiarsi a un lampione per non cadere a terra. Le sue gambe muscolose tremavano e cedevano, la testa gli girava, il colletto gli stringeva la gola e gli impediva la respirazione.
Preso da ira divina iniziò ad urlare, che tutti sentissero, il suo migliore repertorio. Tenne un vero comizio, come non gli accadeva dai tempi della Comune di Parigi. Le masse popolari, nonostante la sua voce stentorea e baritonale rimbombasse come un furioso temporale, continuavano a fluire, incazzate e represse, verso i loro posti di lavoro.
É sera. Al centro di accoglienza per extracomunitari, centinaia di poveracci, provenienti da ogni parte del mondo, stanno aspettando una scodella di minestra.
Il grande generale, diligentemente in fila, tenta la sua ultima strategia.
“Se non si sollevano questi qua” – Pensa – “Allora qui è successo veramente qualcosa di strano”
Le sue sapienti parole, rodate da secoli di infallibile pratica, rimbalzano nelle orecchie di ogni colore. La rabbia comincia a montare. La sente vibrare sotto pelle. La lunga fila di poveracci ondeggia sempre più vistosamente. I volti si accartocciano in smorfie di dolore, frustrazione, collera.
Alcuni iniziano a spintonarsi e a reclamare il piatto di minestra. I pochi operatori cercano di sedare gli animi, accelerando la distribuzione. Si sente nell’aria l’elettricità che si accumula. Il generale attende, con le mani giunte, lo scoccare del sacro fulmine della rivolta, la saetta della rivoluzione, il tuono della distruzione indiscriminata.
Dalla radio portatile di un grosso nero cominciano a risuonare le note ritmate di una famosa canzone reggae. Un altro extracomunitario si mette a cantare, altri due a battere le mani a tempo.
In pochi secondi tutta la fila ondeggia al ritmo della musica. Molti cantano con gli occhi al cielo le parole di speranza della canzone.
Altri ausiliari distribuiscono coperte e bevande. Qualcuno piange di tristezza, pensando alla sua terra lontana. La musica copre il rumore delle bocche che masticano il pasto frugale.
Il generale Malcontento si rizza in tutta la sua impotenza, per un attimo sembra voler esplodere, poi con marziale disciplina, saluta militarmente la folla di persone, fa dietrofront, sbatte i tacchi, e si allontana a passo di ritirata.