Il legionario

Cammino sotto il sole infuocato del deserto, arranco con la gola riarsa e sento la mente che inizia a vacillare, facile preda dei dardi mortali di Helio.
All'orizzonte, bagnato per effetto del riverbero, intravedo una palma ondeggiante ‐almeno credo sia una palma‐ e già pregusto la sorsata d'acqua che può salvarmi la vita, quando, in un barlume di lucidità, mi accorgo che la supposta palma si muove, mi si avvicina a passo addirittura sostenuto.
Stringo gli occhi e porto la mano a visiera e lentamente l'immagine prende forma, una forma umana più che vegetale. Il sole risplende su un'armatura a placche d'acciaio, su un elmo stondato e su uno scudo con fregi gialli e rossi. Il gonnellino è rosso, le calighe marroni e la cuspide della lancia risplende incutendomi un timore reverenziale.
Mi fermo, priva di forze, il fiato corto e il mio sguardo si posa sul minaccioso gladio che sporge al fianco dell'uomo e che mi abbaglia all'improvviso.
[Immagine] Con estrema tranquillità, come se il caldo non lo sfiorasse neppure, appena arriva vicino mi assesta una cordiale pacca sulla spalla ed io cado a peso morto sulla sabbia sottile del deserto.
«Ehi!» esclama aiutandomi a tornare in piedi. «Non immaginavo fossi così gracilina.»
Mi pulisco dalla sabbia, sputo un po' di granelli, sbatto le ciglia e sospiro.
«Ma chi diavolo sei? E come ti viene in mente, poi, di abbattermi così?»
«Aho, e mica è colpa mia se sei fatta di gelatina.» ribatte quasi offeso. «Io volevo solo essere gentile, scambiare un saluto. Non si incontra molta gente nei paraggi. Comunque, io sono Caio, uno dei legionari del grande Giulio Cesare.» si presenta raddrizzando le spalle.
Per una frazione di secondo rimango senza parole, quindi, cercando vanamente di pararmi dal sole accecante, borbotto:
«Ecco. Dovevo immaginarlo. Siete tutti così gentili voi legionari?»
Sorride e si toglie l'elmo, mettendomelo in testa e studiando la mia espressione titubante.
[Immagine3] «Questo ti riparerà.» mormora conciliante.
Avverto la pesantezza dell'acciaio sulla testa, ma non riesco a replicare, troppo sfinita e prossima al collasso. È incredibile, eppure quell'elmo offre un'ottima visuale e lascia scoperte le orecchie, nonostante i guanciali che riparano i lati del volto.
«È per ascoltare bene gli ordini in battaglia.» spiega.
Lo vedo prendere una borraccia che porta in spalla insieme ad altre cose e me la offre per dissetarmi. La prendo con avidità e ne tracanno un lungo sorso, sentendomi subito meglio.
«Mi sembra giusto. Ma quanto pesa quest'armatura?» domando porgendo la borraccia che, nel frattempo, si è miracolosamente riempita di nuovo di acqua.
«Suppongo quindici, venti chili. Ma noi legionari siamo addestrati a marciare con questo peso addosso, pertanto non lo avvertiamo più. Ti basti sapere che, seguendo il nostro generale, abbiamo coperto duecento chilometri in soli tre giorni. A piedi, ovviamente.»
Il suo orgoglio è tangibile e gli occhi gli brillano di fierezza ed io mi sento di gelatina dinanzi a lui.
«Le legioni hanno reso grande Roma.» rammento, guardando la scritta "Legio" sullo scudo e il numero di appartenenza.
Annuisce e porta le mani sui fianchi, inspirando a fondo.
«Agli inizi la legione era composta da 6000 uomini che prestavano servizio solo in caso di guerra. In seguito, con l'espandersi del territorio, ci siamo dati un ordinamento e il servizio non si prestava più in modo sporadico.»
«Questo, però, non è stato sufficiente quando i Celti hanno invaso l'Urbe, nel 390 a.C.» commento.
«È vero.» ammette riluttante. «In quell'occasione i biondi barbari del nord ci hanno sopraffatto e noi legionari abbiamo dovuto rivedere la nostra tattica. Qualcosa, ovviamente, non andava.»
«Ossia?» domando curiosa.
«Be', innanzitutto il servizio di leva non poteva essere più a carattere facoltativo, bensì doveva divenire obbligatorio per tutti; di conseguenza, una volta arruolati, affrontare un faticosissimo ed estenuante addestramento che durava quattro mesi, dove facevamo marce forzate con tutta l'armatura addosso. Di pari passo l'addestramento con il gladio.» e tira fuori questa spada corta e larga che incute paura.
«Sembra un grosso pugnale.» noto deglutendo.
«E quasi lo era. Venivamo addestrati per colpire di punta, diritto allo stomaco dell'avversario, la parte più molle e priva di protezioni. Sotto il nostro assalto nessuno resisteva.» ammicca arricciando il naso.
«Posso benissimo immaginarlo. Siete diventati l'esercito più temuto dell'antichità, il più efferato, ma anche il più disciplinato.»
«Già.» sogghigna, mostrando una fila di denti bianchi. «L'astinenza forzata prima della battaglia aveva il potere di renderti più crudele contro il nemico. La legione, nel periodo di massimo splendore, era composta da 4800 soldati, suddivisi in 10 coorti di 480 uomini e questi suddivisi in 6 centurie di 80 uomini. I centurioni erano coloro che, alla fine, comandavano, essendo i più vicini ai soldati; un po' come succede alle basi di un esercito moderno. Non andavano mai in pensione e terminavano la loro vita facendo carriera militare. Ho conosciuto centurioni che combattevano pur essendo ottuagenari.»
[Immagine2] Trattengo un sorriso divertito, immaginando un attempato vecchietto con i radi capelli bianchi che ancora urla ordini ai suoi uomini. Ma, a parte questo, Caio ha ragione.
«Vedervi schierati doveva apparire terrificante per il nemico.»
Mi si avvicina con aria complice e sussurra:
«Se pensi che ogni legione possedeva anche 300 cavalieri, figurati il terrore.»
Provo solo a immaginare un esercito di decine di legioni, schierato dinanzi a un nemico più caotico e roboante che addestrato e disciplinato e rabbrividisco.
«Le battaglie sostenute dai legionari erano sanguinose.» ricordo.
«Sì, è vero. Però noi romani, a differenza dei barbari e dei Cartaginesi, potevamo permetterci il lusso di perdere anche 50.000 uomini al giorno, perché il giorno dopo erano comunque rimpiazzati. La legione era sempre pingue.» commenta con un sorriso di superiorità.
Inorridisco al pensiero e riesco a credere, a quel punto, alle parole di Giulio Cesare, quando disse che la guerra contro i Galli era costata due milioni di morti.
«A proposito di Cartagine.» inizio con cipiglio. «L'avete rasa al suolo con una violenza inaudita.»
Sbuffa e sposta il peso da un piede all'alto ed io mi soffermo sulle calighe, inarcando le sopracciglia: come diavolo facevano a combattere con quelle cose addosso? All’apparenza sembrano delicate.
«Tre sanguinose guerre puniche, durate decenni e costate molte vite. Sì, avevamo timore di Cartagine e non ci abbiamo pensato due volte a raderla al suolo quando ne abbiamo avuto l'occasione. Ma noi,» aggiunge scurendosi in volto, «non eravamo spietati solo contro i nostri nemici; anche con noi stessi.»
«Ossia?»
«Mai sentito parlare della decimazione?»
«Be', sì, quando il vincitore decima il nemico…»
«No, no.» mi interrompe con un gesto secco della mano. «La vera decimazione significa prendere un uomo su dieci e passarlo per le armi. I nostri uomini.»
Sgrano gli occhi inorridita e chiedo:
«E perché mai?»
Fa una smorfia e si avvicina per osservarmi bene.
«Sei mai stata sotto le armi?»
«No.»
«Allora è tutto chiaro.» commenta quasi con disgusto.
«Chiaro cosa?» insisto.
Si gratta il mento sbarbato e mi accorgo che, a dispetto delle apparenze, è molto giovane e mi sovviene anche il perché: l'età media, all'epoca, era di venticinque anni. Pertanto, come si entrava nella pubertà si veniva subito arruolati per un periodo non inferiore agli otto anni.
[immagi] «Chiunque si dimostrava codardo in battaglia, era causa della decimazione del proprio reparto.»
«Oh, mio Dio!» sussurro inorridita. «Non era più logico colpire il pusillanime?»
«Occorre disciplina.» replica perentorio, da buon legionario. «Non mi meraviglia che tu sia stata renitente alla leva.»
«Io non sono stata…»
Scuoto la testa, sorvolando sull'insinuazione e lui continua, come se non fosse stato neppure interrotto:
«Se ero consapevole di poter causare la morte dei miei compagni, preferivo superare la paura e morire in battaglia. Tu sopravvivresti con un fardello simile?»
«Assolutamente. Ora mi spiego perché le legioni romane erano temute in tutto il mondo.»
«Già. Il nostro arrivo era sinonimo di morte e distruzione. Io ero e sono tuttora fiero di essere un legionario di Cesare.» dice portando il braccio piegato all'altezza del petto, il pugno sopra il cuore.
«Be',» rispondo sorridendo, «in qualche modo, anche noi siamo legionari, legionari di una Roma diversa.»
«Quale Roma?» grugnisce e la sua irruenza quasi mi spaventa. «Di Roma ce n'è una sola.» puntualizza con occhi che scintillano.
«Non esattamente.»
«Sai cosa vuol dire "Legionario"?» incalza, provando a incutermi soggezione.
«Ammetto di essere molto ignorante.» rispondo con un sorriso accattivante.
«Nel nostro latino, la nostra bellissima lingua, significa "raccogliere in armi". Anche voi vi raccogliete in armi?»
Il mio sorriso si illumina maggiormente, pensando ai colori dello stadio e rispondo:
«Non proprio.»
«E allora, cara mia, di legionari esistiamo solo noi, la vera macchina da guerra di Roma.»
Lo vedo alzare il mento con fierezza e comprendo che non può capire quello che intendo io e lascio cadere il discorso, un attimo prima di sentire un tuono rombare sopra la mia testa. Alzo gli occhi al cielo e vedo un gruppo di nubi nere che arrivano con il loro pesante carico di pioggia e sorrido, rincuorandomi non poco.
Quando la pioggia scende, mi accorgo che l'uomo non c'è più, svanito come un miraggio, ma in testa porto ancora il suo brillante elmo d'acciaio e un sorriso mi piega le labbra.