Il macinino berbero
Il ricordo dI Nonna Ida è nitido. Avevo otto anni, ma già allora sentivo il bisogno di fermare nel tempo la sua immagine, tanto da ricordarla, come in una fotografia, in tutti i particolari che caratterizzavano quella figura altera, bellissima. Nonna era alta un metro e ottanta, capelli candidi e occhi come smeraldi. Una luce così intensa che non aveva perso il suo vigore nemmeno quando sul letto, figli e nipoti attorno al capezzale, pronunciava con un filo di voce le sue ultime parole, scandite per bene, in modo che nessuno potesse fraintendere o mistificare.
Figghi mia, cca nun si babbia… iu vi taliu e si nun faciti so' cchi vi dicu, iu v'ammalidicu… Tuttu scrissi. Tuttu. S'hava leggiri e s'hava ffari. Nun vi scurdati:v'abbenedicu v'ammalidicu.... iu mi nni vaiu, ma st'uocchi mia nun si chiuinu... Sempri apierti sunnu, sempri apierti…(Figli miei,qua non si scherza. io vi guardo e se non fate quello che vi dico, vi maledico. Ho scritto tutto, tutto. Si deve leggere e si deve fare. Non vi scordate: vi benedico o vi maledico. io me ne vado ma questi occhi miei non si chiudono. sempre aperti sono, sempre aperti.)
Le parole di nonna Ida, che morì a occhi aperti, fissi e luminosi come quando era viva, destarono non pochi timori in quella decina di persone che affollavano la camera da letto. Da quel momento non si finiva mai di raccontare la sua vita come qualcosa di magico e misterioso, perché, lo credo fermamente ora che ho quarant’anni, nonna un po’ magica lo era.
A nessuno venne in mente di mancare di rispetto alle sue ultime volontà. I parenti stretti, quelli nominati nel suo testamento, si ritrovarono nello studio del Notaio per l’apertura della busta e la lettura delle disposizioni. La nonna aveva lasciato la casa di Marzamemi allo zio Gaetano, il primo figlio, e la casa di città, quella di Ragusa Ibla, alle sorelle, mia madre e le zie Nuccia e Caterina, con tutto quel ben di Dio di quadri, arazzi, e suppellettili di pregiata fattura. Una suddivisione equa, ebbero ad ammettere tutti, ma, anche se non era vero, si rimandava alle ragioni della nonna, che mai avrebbe potuto cadere in errore nei suoi princìpi di spartizione.Piansi molto per la sua morte. Gli occhi di nonna Ida erano imbevuti di una premura elettiva. Solo a me riservava quella sua malcelata dolcezza, e il timbro della sua voce, da scuro e stentoreo, indietreggiava verso i toni alti del falsetto, come per accogliermi, e rendermi partecipe alle sue visioni della vita, perché non si disperdessero i tesori di famiglia, quelli importanti: i ricordi. Così mi invitava sulla bella loggia su cui si affacciavano i finestroni della sala da pranzo, e io mi sedevo accanto a lei, ad ascoltare le sue storie, rapita. I personaggi di quelle fiabe straordinarie erano tutte persone realmente esistite, ma non avendone conosciuta nemmeno una, per me appartenevano al mondo della fantasia.
Aspettavo l’estate con desiderio. Le vacanze nella casa dei miei nonni in Sicilia, era l’incontro con Nonna Ida, trascorrere il mio tempo con lei, accompagnarla nelle passeggiate nel giardino curato, abitato da lecci e carrubi secolari.
Quando mi fece guardare, senza toccare, il prezioso macina caffè che le regalò Nonno Petruzzo per il suo primo anniversario, sembrava che mi offrisse allo sguardo la corona inglese. Lo teneva nelle sue mani candide e affusolate, che lo giravano e rigiravano con sorprendente lentezza. La voce si era addolcita ulteriormente, lo sguardo perso lontano, e le labbra volgevano al sorriso. Il suo racconto era un dipanarsi di ricordi, di fuga nel passato. Un passato lezioso, a tratti commovente.
Non arrivavo a comprendere tutto, nonna sovente si lasciava andare al dialetto, che io non capivo, ma la musica della sua narrazione, unita all’espressione del viso, lasciava intendere che la sua storia fosse la più bella e interessante del mondo, niente a che vedere con le fiabe che mia madre mi leggeva la sera prima di addormentarmi. Quel macinino da caffè aveva per la nonna un significato speciale. Era in metallo, con decorazioni in oro in rilievo, lei lo chiamava “U macininu berberu”, il macinino berbero. Diceva che quell’oggetto sarebbe appartenuto a me, e una volta salita in cielo, lei mi sarebbe apparsa in sogno e mi avrebbe fornito le istruzioni per cercarlo in quello che lei aveva stabilito fosse il nascondiglio segreto. Mi indicò una scritta, sul fondo di quell’oggetto fantastico che mi portava nel mondo di Alì Babà: أنا ولكن ليس منحنى كسر لي.
Mi disse che in quella scrittura c’era una formula magica, e che ogni volta che le capitava qualcosa di brutto, lei tirava fuori il macinino, lo teneva tra le mani, faceva un lungo sospiro, e tutta la tristezza fuggiva via lontano. Più di qualsiasi altra medicina, più di una preghiera, più di un miracolo.
Nonno Petruzzo era morto giovane. Quella dipartita segnò il primo grande dolore per la nonna, che dovette crescere quattro figli. Le agiate condizioni economiche che non mutarono mai e non furono scalfite da nessuna guerra, consentirono a nonna Ida di affrontare i problemi pratici del vivere quotidiano senza particolari difficoltà. Il suo carattere divenne più duro, pragmatico, i figli crebbero come soldati, scelse loro mogli e mariti e li mandò via di casa con la sua benedizione. Mia madre sposò un ufficiale dell’Aeronautica, di origini pantesche, perchè anche sull’argomento “legàmi di sangue” la specie non avrebbe dovuto disperdersi con contaminazioni non gradite. Per fortuna i matrimoni reggono ancora, nonostante influenze superiori, ma io mi ritrovo romana di nascita e di cultura.”Lu munnu cancia, niputi mia... Sicuramenti, lu maritu nun t'o pigghi 'n Sicilia......”, mi diceva fissandomi negli occhi, i miei occhi, verde smeraldo come i suoi. E io avevo la sensazione che lei si specchiasse dentro di me, vedesse il futuro, il mondo che andava avanti, pur cambiando, ma portando con sé i suoi tormenti, i suoi desideri. Anch’io ero attratta profondamente da quella nonna alta, imponente, dominante. Mi lasciavo dominare con gioia e con orgoglio.
“La storia di questo macinino da caffè parte da molto lontano, bedda mia. Le vedi queste decorazioni? Vengono dalla Terra D’Africa, dove abita un popolo ricco e nobile, sono i Berberi. Loro avevano terre, Re e Regine, le donne erano importanti, e contavano molto, quanto gli uomini. Poi un giorno vennero i francesi, per dominare popolo e terre, e costruirono fortezze, piene di soldati, ma nessuno si poteva avvicinare. Per i Berberi furono soltanto sofferenze, vennero ammazzati, e quelli che sopravvivevano dovettero scappare, lontano. Uno di questi era un poeta, uno di quelli che scriveva e cantava l’amore, ma dopo, anche il dolore dell’esilio. E il suo popolo lo amava tanto, lo fece grande di gloria. Lui si chiamava Si Mohand, era un poeta bravo e pieno di passione. Viveva come uno zingaro, da una città all’altra, senza casa, senza meta.
Tuo nonno Petruzzo era un ragazzino, si trovava a Tunisi con suo padre, per questione di affari. Si Mohand era seduto a un tavolino, stava fumando la pipa, e Petruzzo, con quella curiosità che i ragazzini si ritrovano, si era avvicinato, colpito dal fumo, dalla pipa, e da chissà cos’altro ancora.
“ Ti piace il fumo? “ Gli chiese Si Mohand, il poeta.
Petruzzo non rispose. Aveva un po’ di paura, si capisce. Ma continuava a guardarlo.
“Vieni, ragazzino, che ti faccio vedere una cosa” Si Mohand, vedendo che Petruzzo non si muoveva, smise di fumare, si alzò dal tavolino e infilò la mano dentro un sacco che aveva con sé. Tirò fuori un oggetto strano e lo appoggiò sul tavolo.
“Sai cosa è questo?” E’ un macina caffè. Oltre a questa pipa, non ho nient’altro. Niente. La mia famiglia, quello che ne è rimasta, vive lontano, in un paese che neanche so più qual è. “ Si Mohand lo sollevò e lo porse a Petruzzo. “Lo vuoi? Te lo regalo. Ma tienilo bene. Era di mia madre Fatma. Lei preparava per noi un caffè buonissimo, che faceva passare tutti i mali. Lo devi dare alla donna più attraente che incontrerai. Sicuro che non riceverà dono più bello.”
Petruzzo gli sorrise, senza parlare, e timidamente prese in mano quel dono. Si Mohand recitò allora dei versi composti al momento:
Quanto è bella la mia terra,
Canto ogni sera le sue grazie,
Come una donna generosa
La sogno ogni notte sotto la luna piena.
Tutto quel sangue sulla sua coltre
Non mi scalfisce e non mi turba,
Nessuno di quelli mi comanderà,
mi spezzo ma non mi piego,
preferisco essere maledetto
in un paese governato da ruffiani
l'emigrazione è il mio destino...
meglio l'esilio che la legge dei porci
Un tale che poteva sembrare un mercante che aveva assistito alla scena, prese da parte Petruzzo e suo padre, e sussurrò loro:
“ Voi sapete che quello è un grande poeta, un uomo d’onore. Tutti lo conoscono, tutti lo amano. Era ricco e nobile, ma ora vive vagabondando da una città all’altra. E’ un grande privilegio averlo incontrato, e aver ricevuto un regalo così prezioso.”
L’uomo vide che Petruzzo e suo padre erano molto interessati e continuò:
“ La sua famiglia fu sterminata dai francesi, e nelle sue poesie arde il desiderio di resistenza a tutti i soprusi, gli inganni, le prepotenze che hanno fatto versare sangue sulle nostre terre. Si Mohand è un simbolo per i popoli berberi, ed è grazie a lui che noi manteniamo la nostra dignità di popolo nobile. ‐ Mi spezzo ma non mi piego ‐ è il suo motto.”
Petruzzo guardò suo padre e sorrise, con gli occhi neri neri pieni di luce. Guardava il macinino e aveva capito che quello era un oggetto magico, che avrebbe fatto tanta strada.
Si Mohand era malato. Morì a Tunisi, in ospedale. Petruzzo lo seppe molti anni più tardi. Forse quel giorno che lo incontrò era uno degli ultimi della sua vita leggendaria.
E sai perché, bedda mia, ti dico che il macinino è magico? Quando tuo nonno e il tuo bisnonno si imbarcarono per il rientro, affrontarono una tempesta in mare e la nave si riempì d’acqua e morirono tutti. Solo loro si salvarono su una barchetta di salvataggio, appena sotto le coste della Sicilia. E il macinino intatto era, bello e splendente come sempre, come lo vedi. Adesso prova ad annusare…” La nonna avvicinò la scatolina aperta al mio naso. “Lo senti? Questo è il caffè di Si Moahnd, pensa da quanto tempo si conserva l’odore, forse cento anni, nemmeno il mare in tempesta l’ha cancellato…”
Lo annusai e sorrisi. Ero felice che la nonna l’avesse destinato a me, sarei diventata la proprietaria dell’oggetto a cui lei teneva di più, tra tante ricchezze di famiglia.
Roma.
Claudio è assorto nei suoi libri. Come al solito. Dopo un pasto fugace, durante il quale non ci guardiamo nemmeno negli occhi, si rannicchia sulla sua poltrona e lì ci resta fino alle due, anche le tre di notte. Sgombro la tavola e cerco di riordinare le carabattole della cucina, lo faccio per scaricare un po’ di nervosismo, che oggi è particolarmente insistente e non se ne vuole andare.
Sono stanca. Il figlio desiderato non arriva. Dopo tentativi di diversa natura siamo stremati, e silenziosamente, più o meno inconsciamente, uno colpevolizza l’altro. Di adozione non abbiamo mai parlato, ma so già che Claudio non vuole prenderla in considerazione. Lo conosco bene.
Credo che non mi ami più. E’ una pianta secca, questo amore, faccio persino fatica a chiamarlo così.
Mi siedo davanti alla tv, guardo un po’ di notizie dal mondo. A Tunisi c’è una folla scatenata che grida contro le guardie. C’è una repressione. Il popolo berbero insorge e rivendica i suoi diritti. Sono giovani. Urlano uno slogan in lingua araba, che il cronista traduce con la frase “ Mi spezzo ma non mi piego”.
Mi immobilizzo e cerco di capire, di ricordare…la poesia di Si Mohand…incredibile, è diventato uno slogan che vive ancora oggi…Nonno Petruzzo, Nonna Ida…il macinino del caffè…
Ma che vado a pensare, la fantasia galoppa, e in questi momenti di tristezza e rassegnazione, la testa se ne va un po’ troppo lontano.
La notte è particolarmente agitata. Mi giro e rigiro prima di prendere sonno, poi, all’improvviso, cado in catalessi.
“ Bedda mia, sono tua nonna… Ti avevo promesso che sarei apparsa in sogno… Ricordi?. Vai da Sant’Agostino, nel convento vecchio, e conta fino a sette, sul coro a destra c’è un legno sordo, lì c’è quello che è tuo.”
Al mattino la testa è confusa. Raramente sogno o mi ricordo di aver sognato, ma stavolta è diverso. Sento addosso una smania, vedo il volto di Nonna Ida con gli occhi di smeraldo come se fossero lì, davanti a me. Per giorni mi interrogo sul significato di quel sogno, di quelle parole, sull’immagine della nonna. Mentre sono in metropolitana, gli occhi si imperlano. Sto piangendo. Il cuore mi si stringe di nostalgia, avverto una leggera nausea e mi gira la testa. Ma è un malessere che passa presto.
Quando torno a casa mi rendo conto del vuoto che c’è. Claudio resta in ufficio fino a tardi oggi, e io non ho voglia di mangiare. Mi butto sul divano, mi avvolgo in una coperta di pail e piango fino ad addormentarmi.
Quando mi sveglio c’è Claudio, di fronte a me. Mi sta guardando, senza parlare. Forse vuole dirmi qualcosa, leggo nel suo sguardo un turbamento che vorrebbe uscire, ma resta lì: una dura tenerezza. Mi rimbocca la coperta e mi accarezza appena una spalla, poi si siede su un angolo libero del divano.
“ Domani partiamo, ho preso cinque giorni di ferie”. Mi dice sottovoce, con una nuova dolcezza.
“ Ma come…” faccio io “Dove andiamo…”
“A Ragusa” Continua lui.
“ E’ incredibile…ci stavo pensando in questi giorni…è tanto che non torniamo giù.”
“ Ne ero certo. So che ti fa piacere, e in fondo anche a me fa piacere un viaggio in Sicilia. Abbiamo bisogno di un po’di pace, tutti e due.”
Non so esattamente cosa stava per accadere, di certo si stava aprendo una porta.
Nella casa di Ragusa Ibla, l’eredità della nonna, vive la zia Caterina, sola e anziana. La zia Nuccia e mia madre non ci sono più, la zia aveva rilevato anni fa le parti spettanti alle sorelle, offrendo in cambio una somma in denaro. Ma il Palazzo è piuttosto grande, una parte è stata destinata al Bed and Breakfast, di cui si occupa una famiglia del luogo che lo ha preso in gestione. Zia Caterina ci accoglie con grande affetto, e ci invita a soggiornare in quella che fu la camera di mia madre, dove ci sono ancora i vecchi letti e un armadio primo Novecento, con un grande specchio. Sento ancora il profumo di mamma, il sigaro di mio padre, sento gli odori della mia giovinezza. Zia Caterina ci ubriaca con del buon moscato, e poi ci lascia liberi.
Ragusa Ibla è bella, intatta, come sempre. Il mio cuore è gonfio di nostalgia, e godo di una rinnovata serenità che non provavo da tanto tempo. Guardo Claudio, che è concentrato nel mirino della sua Canon, e mi rendo conto che il suo è stato un gesto d’amore, grandissimo.
A lui non ho parlato di quella strana apparizione di Nonna Ida in sogno, ma cerco di indirizzare la nostra passeggiata verso il Convento di Sant’Agostino. C’è un viale alberato e un odore di frati, in lontananza scorgo il portale della piccola vecchia Chiesa.
“ Santo cielo… Sant’Agostino è di origini berbere…” dico a voce alta.
“ Ebbene?” Domanda Claudio, sorpreso.
“ No…ecco…una strana coincidenza. Vieni , entriamo, voglio vedere una cosa.”
Claudio mi asseconda senza fare domande, mi segue, si segna come me e cercando di non fare rumore ci avviciniamo verso l’altare. C’è un frate che sta inginocchiato sul primo banco ma è assorto e sembra non accorgersi della nostra presenza.
Ripeto a memoria dentro di me le parole di Nonna Ida:
“Conta fino a sette,sul coro di destra c’è un legno sordo…”
Con circospezione, lanciando un occhio al frate in preghiera mi avvicino al coro di destra, proprio dietro all’altare. E’ un vecchio coro ligneo, ma in buone condizioni. Come posseduta comincio a contare le sedute, alla settima mi fermo. Picchietto dolcemente con le nocche , mentre Claudio si allontana attratto da una statua di Sant’Agostino, poco più indietro. Una di quelle tavole in legno è più chiara, provo a sollevarla. Viene via senza forzature e un nodo mi prende la gola: vedo una piccolo pacco avvolto in carta di giornale ormai consunta. Lo svolgo piano piano, per scorgere qualcosa che mi aspetto ci sia…è il macinino di Nonna Ida, di Nonno Petruzzo, di Si Mohand…Mi assale un ansia molto vicina a un attacco di panico, raggiungo Claudio e velocemente lo trascino fuori del convento.
Lungo il viale alberato racconto tutto a Claudio, cominciando dalle narrazioni fantastiche di Nonna Ida. Ci fermiamo, apro il cassettino e a turno, apprezziamo l’odore di caffè, che è ancora lì, intatto, come se qualcuno avesse usato il macinino fino a un giorno prima. Proseguiamo nella passeggiata, Claudio assorto ma non incredulo, mi cinge le spalle, e lentamente ce ne torniamo verso casa.
***.
“ Si, la traduzione di questa iscrizione in lingua berbera è ‐ Mi spezzo ma non mi piego ‐, mi disse Alì, il proprietario di un alimentari di Ragusa, una vecchia conoscenza di famiglia.
“Conosco questo motto” Continuò Alì “ E’ lo slogan dei rivoluzionari berberi”.
Ringraziammo Alì, che mi aiutò a consolidare le mie intuizioni riguardo quella scritta incomprensibile impressa sul macinino da caffè e mi fermai a riflettere con Claudio.
“ Nonna era molto legata a questo macinino. A suo modo anche lei ha combattuto le sue rivoluzioni nella vita. Da quando morì Nonno Petruzzo, per lei fu come morire con lui . Era legata e totalmente dipendente dal Nonno. Ma riuscì a sopravvivere, forse grazie anche al significato intrinseco di questo oggetto, che lei considerava magico. Voleva dire che non bisogna arrendersi mai, la vita è una lotta, bisogna trovare il modo di vincere le battaglie contro la disperazione, le avversità.”
Non osai confessarlo, ma credetti che Nonna desiderasse dall’alto che io entrassi in possesso del macinino berbero nel momento più difficile della mia vita, per cercare e, ritrovare, la forza perduta.
Sentii di nuovo un vuoto nello stomaco, e poi ancora nausea, la stessa che provai a Roma , giorni prima.
Ebbi un strano presentimento.
Ti voglio bene, Nonna.