Il medico
Mi guardavo il fianco. La maglietta era stropicciata e da uno sdrucitura che si apriva in tanti piccoli tentacoli di cotone si intravedeva il taglio sanguinolento che pulsava intriso di pus. Ero stato accoltellato. E ad accoltellarmi era stato Florian della comunità rom che stanziava in periferia insieme a baracche e baracconi. Ero convinto di non aver commesso nulla, ma la ferita sanguinava a rendermi partecipe di un’innata e insondabile colpevolezza. Mi strascinavo lungo la tangenziale con una mano al fianco lasciando dietro al mio passaggio una traccia vermiglia. Le auto sfrecciavano come animali in fuga nella savana. I conducenti guardavano dritto fissando un punto in lontananza, la loro meta, non badando a me che sudavo a freddo tra la vita e la morte. Il colpo subito era stato netto. Un lampo nella notte, un baleno. Poi il rombo dei motori che si avviavano e lo stridore delle gomme sulla terra secca di luglio.
Ero rimasto da solo nella notte con una bocca aperta sul fianco che vomitava sangue infetto. Le civette e i pipistrelli si contendevano il trono regio della luna e le fate della radura vicina si tenevano lontane da me e dai miei dubbi peccati. Come un’ombra sghemba mi portai avanti nelle tenebre. Le luci della città brillavano distanti come lanterne di un galeone fantasma. Il cane di una fattoria vicina latrava, allertato dal minimo sospetto. Ciondolando e muovendo passi a fatica giunsi là dove iniziava la strada e la civiltà. I fari delle auto tagliavano la fitta nebbiolina di smog. Cercai invano aiuto. I viandanti percorrevano l’asfalto concentrati sui problemi delle loro coscienze, delle loro vite. Chiunque li avrebbe giudicati come buoni cristiani, come esemplari padri di famiglia, ma dinanzi la sofferenza di uno sconosciuto non avevano osato accostarsi. Cavoli suoi, disse uno di loro tra sé e sé mentre ingranava la quarta. Camminai per un paio di chilometri. Ad ogni passo perdevo sempre più sangue. Le vetture sfrecciavano veloci come le bighe negli stadi. Il sudore mi incollava i capelli alla fronte. La paura invadeva ogni cellula. Provai ad alzare la mano, a supplicare aiuto, ma la diffidenza che suscitavo tra gli onesti cittadini che tornavano a casa dopo una dura giornata di lavoro, così conciato, era più forte della pietà.
Un senzatetto che riposava al limite della carreggiata, dove impera la sporcizia e i mucchi di polvere la fanno da padrone, vedendomi in difficoltà protese un braccio e mi allungò una bottiglia di sangiovese involta da una busta di carta. In volto era sporco come di caligine e vestiva abiti logori, e le maniche della giacca erano troppo corte. Indossava una camicia di fustagno macchiata in più punti e dei calzoni strappati sulle ginocchia. Con una smorfia rifiutai l’offerta di bere un goccio. Che ti è successo, mi chiese. Niente. Niente non sanguina come un fiume che ha spezzato la diga. Mi guardava sempre con il braccio proteso impugnando la bottiglia che emanava fetido alcol, suo unico compagno in quella notte carica di stelle e canti stonati. Tu hai bisogno di aiuto, affermò. Poi ruttò sonoramente. Sto bene, non c’è bisogno di preoccuparsi. Stanno venendo a prendermi. Nessuno verrà, spiegò con severità quasi leggendomi nell’animo. Sei solo, e perdi sangue. Chi ti ha aggredito. Nessuno. Sì, nessuno. Nessuno come quel nessuno che verrà a prenderti. Hai bisogno di un medico. Se non tamponi quella ferita non ne uscirai vivo. Fatti un goccio. No, grazie. Non mi va di bere. Peggio per te, il vino fa sangue. Mi guardai intorno. Mi trovavo a dibattere con un barbone e sanguinavo vistosamente. La vista cominciava ad annebbiarsi. Vado a chiamare aiuto, disse quello interrompendo il flusso irregolare dei miei pensieri. Non mi serve, sto bene. Ti serve eccome. Aspettami qui. Accomodati pure. Non è la reggia di Versailles ma starai più comodo che in piedi. Mi sedetti su un foglio di cartone e mi coprii con una coperta sfilacciata. Era luglio, faceva caldo, ma a quell’ora della notte la temperatura all’esterno si irrigidiva di qualche grado. Il vagabondo si allontanò di gran carriera. Lo vidi sparire all’orizzonte. Fu allora che persi i sensi. Venni svegliato un tempo indefinito dopo. Un volontario della croce bianca mi scuoteva con determinazione. Sveglia, signore. Come sta? Adesso la portiamo all’ospedale. In quattro e quattr’otto fui caricato sulla barella e inserito nella plancia dell’ambulanza. Le sirene, spiegate, aprivano la via tra i semafori. Una dottoressa mi parlava per tenermi sveglio. Mi chiese da dove venivo. A fatica le dissi che lavoravo in una fabbrica di buste da quindici anni ma che ero originario di un piccolo villaggio in provincia di Salerno. Con premura mi domandò come mi trovassi a Milano, su nel grande nord e così tanto lontano dagli affetti e dalla famiglia. Mi chiese anche se fossi sposato. Voltai il capo da una parte all’altra, simulando un tacito diniego. La maschera che mi copriva bocca e naso pompava ossigeno ai polmoni. Siamo arrivati, disse d’un tratto. L’autoambulanza arrestò la sua corsa. Ci fu un gran trambusto quando fui scaricato dal mezzo. Gli infermieri accorsero sgusciando dalle porte automatiche del pronto soccorso. In una viavai acceso mi portarono dentro. Un medico col camice bianco che sventolava come una bandiera al vento intimò di trasferirmi all’ambulatorio numero sette. La schiera di infermieri obbedì mascherando malcontento. Erano abituati ad essere trattati senza riguardo. La stanza dove mi abbandonarono era luminescente e odorava di candeggina.
Il medico entrò sbattendo la porta. Lo stetoscopio stretto al collo. Respiravo a fatica. Cosa le è successo, mi interrogò. Sono stato aggredito. Aggredito da chi. Uno zingaro. Ha contatti con gli zingari, chiese sospettoso. No, spiegai. Da dove viene? Cosa c’entra? Sa, di questi tempi. Ma mi dica, dove è stato colpito. Al fianco, sussurrai in uno spasmo di dolore. Come mai era in compagnia di quell’uomo? Mi sono trovato lì per caso. È scoppiata una lite, sono finito nel mezzo. Quando la banda è andata via ero piegato nella polvere e ferito. Cosa è successo, mi dica. Non lo so, dottore. Sto perdendo le energie. È stato accoltellato in un campo rom e non sa come e perché è successo. Capisce bene che suona strana come analisi dei fatti. Le ho detto che non le so spiegare l’accaduto. Il dolore mi martellava i sensi. La ferita intanto sanguinava vistosa ma il medico non se ne curava. Avete avvertito la polizia? No. Allora chi ha chiamato i soccorsi. Un senzatetto, dissi stringendo i denti. Sentivo che il fiato cominciava a mancarmi. Le fitte erano strazianti. Da quanto in qua frequenta malintenzionati? Non era un malintenzionato, era semplicemente un senzatetto. Senza di lui a quest’ora sarei già morto. Ma la prego, dottore, il dolore si sta facendo insopportabile. Tossii sputando sangue. Un lembo del camice del medico si macchiò. Per tutti i diavoli! faccia attenzione, mi rimproverò. È meglio che avverte il suo avvocato. Perché, chiesi spazientito. Perché la storia non mi convince, è lacunosa. Sono costretto ad avvisare le forza dell’ordine. Cristo, dottore, faccia pure ma intervenga. Sto morendo dissanguato. Ha un avvocato, domandò circospetto. No, replicai in un filo di voce. Ognuno di noi ha un avvocato. Dovrebbe averlo anche lei. Io non ce l’ho. Non ho mai avuto a che fare con la giustizia, per fortuna. Devo dedurre che risolve da sé le proprie questioni legali. È forse per questo motivo che si è ritrovato in questa brutta faccenda. Io sono innocente dottore, non ho fatto nulla. Sto perdendo conoscenza. Presto, chiami qualcuno. Ne riparleremo domani, quando sarò fuori pericolo. Il dottore sembrò soppesare la ferita con lo sguardo. Poi infilò le estremità dello stetoscopio negli orecchi e mi auscultò il battito. Sembra apposto, disse. Lei è in piena salute. Dottore, protestai, ho uno squarcio nel fianco destro. Ho perso già tantissimo sangue. Ho bisogno di essere curato altrimenti morirò. E così dicendo mi sollevai mostrando la ferita al medico. Avevo i nervi a fior di pelle. Com’era possibile che non si accorgesse della situazione di gravità. Resti calmo, disse semplicemente. Non vedo nulla di cui preoccuparsi. La lettiga era un pozza densa. Il sangue si era sparso anche sul pavimento come prova irrefutabile. Come faccio a rimanere calmo se sto morendo, gridai. Il medico s’irrigidì e mi guardò fisso negli occhi. Infermiera, urlò. Sì, dottore, rispose una flebile voce dalla stanza accanto. Mi chiami le guardie. All’istante due omaccioni entrarono nell’ambulatorio e mi afferrarono i polsi. Provai a dimenarmi ma le forze erano fluite lontano con il sangue perso. Mi legarono alla barella che ero sul punto di svenire. Quando mi calmai il dottore mi toccò la fronte. È bollente, esclamò. Vedrà che con una bella dormita le passerà tutto. Non ho la febbre, dottore. Le parole ora si mischiavano alle lacrime. Perché vuole farmi morire? Morire? Giovanotto, ma cosa va raccontando. Sono un medico rinomato. Lavoro in questa città da quando lei era in fasce e nessuno si è mai lamentato delle mie cure. Questa notte la terremo sotto osservazione ma domattina lascerà la struttura e andrà in questura a costituirsi. Io non ho fatto niente, come devo spiegarglielo. Non deve spiegarlo a me, infatti, ma dovrà raccontare la sua versione dei fatti alla polizia. Non posso tenere un soggetto socialmente pericoloso nel mio ospedale. Io sono un onesto cittadino. Non può infangare la mia onestà. Se non ha nulla da temere perché si preoccupa tanto di presentarsi in questura? Io non temo di presentarmi in questura, ho paura di non sopravvivere alla notte. Ma suvvia, rise il dottore, che era anche un emerito professore di università. Nessuno è mai morto per una banale febbre. Ora la saluto, e, mi raccomando, faccia il bravo. Strabuzzai gli occhi per l’incredulità. Dottore, non può lasciarmi in queste condizioni. Guardi il mio fianco, è lacero. Guardi il pavimento, è un torrente di sangue. Con un vago gesto della mano il dottore ordinò agli uomini che mi tenevano fermo di ritirarsi. Andate pure, disse. La febbre gli sta provocando delle allucinazioni. Una bella dormita lo rimetterà in sesto. I due si guardarono e accennandomi un saluto di compatimento levarono le tende. Il dottore mi guardò per l’ultima volta, poi alzò i tacchi e andò via. Le sue scarpe lasciavano inconfondibili tracce di sangue.