Il naso
La prima volta non ci fece caso.
Stava tornando a casa dal lavoro divorato dal traffico caotico del venerdì sera, quello che somma indistintamente i rientri con le uscite, operai e impiegati stanchi con più abbienti in fuga per la serata o per tutto il fine settimana. Pensava a lei e la sua assenza riempiva il tragitto e rendeva sopportabili le lunghe code di automobili e secondario il disagio automobilistico.
Antonella in primo piano, il suo sorriso e i suoi occhi intensi avidi di lui: tra i due frammenti, nell’ovale regolare del viso un’assenza.
Arrivato a casa si spogliò di cravatta e camicia e saccheggiò di birra gelata il frigorifero; i sorsi lunghi e voraci gli provocarono un singhiozzo esasperante con conseguente tasso di nervi in crescita. Accartocciò il pacchetto di sigarette vuoto e ne aprì subito un altro.
Accese e la rivide nell’atto di accendere due sigarette e porgergliene una espirandogli addosso una nuvola azzurra. Le sue labbra ridotte a poco più che un cerchio dall’espressione del tirar fuori il fumo, la testa a scuotere i lunghi capelli neri. La mano sinistra che porge la sigaretta, la destra che passa sulla tempia e tira indietro i capelli appena scossi. L’orecchia regolare e tonda, la mano lunga e grande. Di nuovo un indefinito, stavolta percettibile. Ripensò a lei che sorrideva, ripassò con sofferenza i suoi lineamenti scossi nei loro amplessi abissali, l’abbronzatura delle settimane a sciare quanto il pallore delle sere affaticate con gli occhi incavati da occhiaie da troppo lavoro: ovunque colse lo stesso vuoto.
Lorenzo non trovava il suo naso.
Un industriale ed industrioso ricorso alle birre dal frigo, frammezzato appena da qualche fetta di pane in cassetta, liscio, lo ricondusse a minimizzare la cosa e a perdersi piuttosto dietro alle ferite della sua uscita di scena.
Me ne vado, aveva detto lei, e quando stasera tornerai non sarò più qui. Otto mesi fa. Una discussione come un’altra, aveva pensato lui, è almeno una quindicina di giorni che è strana, irascibile che non si sa come prenderla; stasera torno e si fa pace. Le parole di lei gli erano parse poco più che uno scherzo tra innamorati o il frutto di quella stanchezza crescente che la possedeva da qualche tempo. Da un paio di mesi non era più la solita Antonella: era più triste, pensierosa, forse un principio di depressione.
Era tornato anche un po’ prima del solito e aveva fatto in tempo a trovare il suo odore ancora in casa, ma solamente quello.
Non lei, non le sue cose – neppure un libro o un disco – vuoti metà degli armadi, quattro quinti della scarpiera, un paio di muri e quasi tutte le cornici d’argento antico.
Ti ho amato tanto che non pensavo si potesse. Addio. Scritto sulla lavagnetta della cucina e nessuna altra traccia di lei.
Otto mesi prima.
Dopo un mese da cirrosi epatica e tentativi inutili ci aveva messo il domopack e l’aveva girata faccia al muro perché a spolverarla il gesso si sarebbe cancellato.
Nonostante la giornata festiva, la luce che filtrava dalla tapparella mal chiusa e una vescica ridondante luppolo lo indussero ad un’alzata mattiniera. Capì immediatamente che le due aspirine avrebbero appena attutito il pulsare delle tempie e riconobbe la mattina come un golgota di caffè e pezze fredde.
Subito dopo si ricordò che il naso non c’era.
Ovvero cercò di ricordare come fosse il naso senza successo. Non era un naso di quelli che avresti definito importante e non aveva asimmetrie. C’era forse una leggerissima gobba o forse no; le narici erano larghe, oblunghe o tonde; finiva leggermente a punta o piuttosto a patatina; e puntava dritto, verso l’alto o in giù. Domande senza risposta. Neanche una foto gli aveva lasciato, zero totale.
Vuoto assoluto.
Lasciò su la segreteria telefonica per tutto il fine settimana e passò due giorni a bere, a fumare e, soprattutto, a disegnare profili di lei. Centinaia di profili inutili. La curva della fronte, l’attaccatura dei capelli, le labbra e il mento erano quelli: il naso proprio non c’era più. Ah, se non avesse avuto l’abitudine di fissarlo sempre diritto in viso, occhi contro occhi, avrebbe ancora avuto accesso alla memoria del suo naso di profilo ma lei mai che gli staccasse gli occhi di dosso; a volte in macchina, guidando, si era sentito quasi in imbarazzo quando girandosi la vedeva già fissa sul suo viso.
Lunedì mattina arrivò in ufficio spossato, di malumore e intristito dall’insuccesso con in testa il naso che non c’era.
Quando se ne era andata via l’aveva cercata, ah se l’aveva cercata, sbattendo contro il muro di una fuga organizzata, complice una città dove vivevano da meno di un anno; si era anche licenziata dalla società per cui lavorava; i pochi amici comuni ne sapevano quanto lui; il padre di lei fece subito intendere che non avrebbe mai parlato con lui.
Seguirono disperazione e rialzo del tasso alcolico.
Nelle due settimane che seguirono la dipartita del naso fu preso da una nuova e angosciosa preoccupazione. Posta l’impossibilità a ritrovarlo, almeno al momento, avrebbe prima o poi perduto altri pezzi. Era dolorosamente certo che la sua memoria avrebbe lasciato scappare tutta Antonella in una telenovela dell’orrore. La notte si lasciava cadere in incubi orrendi degni della peggiore sceneggiatura di un b‐movie con occhi che rientravano nelle orbite, labbra che cambiavano forma, Antonella che gli si decomponeva in braccio. Suggestionato da questi pensieri un mercoledì sera trascorse più di tre ore nella certezza dello smarrimento, nell’ordine, della curva tra il collo e la clavicola, della posizione del neo sull’ombelico (e della forma dell’ombelico stesso!), delle pieghe dei gomiti e delle vene sugli avambracci. Ricordò poi ogni cosa prima di mezzanotte ma decise perentoriamente di porvi rimedio fin quando in tempo.
Lorenzo tornò così ad esercitare quella felice mano sinistra che tanto aveva allenato quando aveva vent’anni e non aveva ancora lasciato l’Accademia di Belle Arti per la Facoltà di Medicina (così va il mondo, spesso). Seguì pertanto un periodo di accanimento disperato nel pervicace tentativo di fissare tutta l’anatomia dei ricordi su carta e su tela.
Il ricordo è altro, maledettamente altro, rispetto ad un atlante anatomico o alle tavole in sanguigna dei Maestri.
Furono quasi due mesi di una intensità enorme nei quali la costanza e la disciplina di Lorenzo nell’esercizio per lui felice del tratto e del colore e dolorosissimo della memoria produssero un’inverosimile quantità di materiale. Ogni disegno finito portava appunti dell’autore con frecce e richiami da lui ritenuti sul momento indispensabili perché il disegno successivo si avvicinasse maggiormente ad Antonella, la data e la sigla. L’ansia dello smarrimento lo portò a non strappare mai un foglio fino a raggiungere un archivio degno dei migliori ritrattisti rinascimentali.
Per almeno una settimana la sua barba trascurata portò in ospedale tracce di colori ad olio e rimase tre notti e tre giorni con una federa attaccata al muro finché non riuscì a ripetere fedelmente su una tavolozza l'alchimia di blu e di verde che aveva lasciato a mo’ di sindone sul cuscino: il colore dei suoi occhi. Magnetici, intensi, grandi sul viso magro ma così terribilmente cangianti da richiedere tele e tele e tele……..
Sulle stesse tavole di compensato dove miscelava i colori annotava con un carboncino le quantità dei vari componenti e le situazioni alle quali pensava dovessero corrispondere e più si accaniva più si perdeva in una infinità di combinazioni….
Nessuno potrebbe del resto mai dire quanto blu oltremare è negli occhi felici di una donna in un pomeriggio d’estate o chi quanto grigio in una domenica piovosa o ancora la luce del sole di taglio, ai tramonti di profilo a far brillare ogni venuzza di verde fino a scioglierti l’anima.
Talmente infervorato dalla propria ricerca era Lorenzo da non imprecare più per la definitiva uscita di scena del naso e a volte, guardando qualche suo disegno particolarmente felice, pensava addirittura che una volta o l’altra ci avrebbe inciampato, quasi per caso. Comunque stava salvando il resto, la curva dei suoi piccoli seni sfrontati come l’ansia vertiginosa delle caviglie sottili sotto un polpaccio lungo e ben disteso, ogni piega delle sue labbra come l’universo espressivo dei suoi sguardi….
Dappertutto in casa, sui muri e su ogni mobile, ritagli di giornali: facce note o sconosciute che potessero per similitudine reale o per singolarità nella posa o nell’atteggiamento ricordare qualcosa…
Poi nella freneticità della ricerca trovò posto una consuetudine più concreta (anche se non priva di fastidiosi inconvenienti): Lorenzo cominciò a cercare il naso perduto nella faccia delle altre persone, certo che qualcuna con il naso di Antonella non poteva esser poi rara.
Seguendo questo suo nuova convinzione maturò una nuova curiosità per l’universo femminile fatta di indagine attenta e appassionata. Quando pensava di aver trovato una somiglianza nasale concentrava tutta la sua attenzione sulla portatrice per sezionarne tutti gli aspetti otorini: dimensioni, attaccatura alla fronte, attaccatura all’area sopralabiale, narici e così via.
Si può facilmente intuire però come un interesse scientifico anatomico possa essere ricondotto ad altro da una superficiale catalogazione. Puoi provocare rossori o evocare pruriti di vari generi, infastidire ed indurre una ragazza a cambiare passo per allontanarsi preoccupata. Quando, ingenuamente, non te ne rendi conto puoi cercare nasi e trovare botte: il risentimento di un fidanzato manesco glielo provò inconfutabilmente.
Fu così che, in un venerdì pomeriggio dal labbro spaccato, Lorenzo tornò a casa per arrendersi alla scomparsa del naso e alla necessità del ghiaccio per scongiurare gonfiori eccessivi.
La perdita della speranza lo riportò ad un forte stato depressivo: era più di un anno che Antonella se ne era andata e il naso era disperso da quattro mesi.
Dopo altre tre settimane tristissime, di poco appetito e incubi notturni gli arrivò la lettera.
Lorenzo amore mio,
so che mi hai cercata, so che mi hai cercato tanto e che per me hai perduto la pace.
Oggi ti imploro di perdonarmi.
Io ti amo e non ho mai smesso di farlo.
Perdonami anche per essermi fatta viva solo adesso con una spiegazione: quando avrò finito capirai il perché. Scriverti, soltanto questo, fa si che io possa superare la profonda vergogna ed il dolore e raccontarti della mia fuga.
Quando sono andata via ero incinta e non sapevo se tu fossi il padre.
Ecco: l’ho detto.
Non accampo giustificazioni per quello che è successo. Sono stata soggiogata da Enrico, il mio ex‐capo, dopo una corte spietata ed asfissiante ai limiti delle molestie e così è successo.In ufficio.
Due volte. Poi ho trovato la forza di dare sfogo alla mia rabbia ed alla mia vergogna ed ho troncato. Per ritrovarmi emarginata, minacciata, insultata da allusioni e gesti. Io zitta con te e perciò sempre più sola, sempre più affogante in un mare di sensi di colpa.
Poi la mazzata finale: incinta senza sapere se di te o di lui.
Ero al terzo mese: sono fuggita. Da allora la mancanza di te è stata la punizione della mia colpa; mi sei mancato quanto non pensavo mai.
Mio padre sapeva ma aveva la consegna del silenzio; povero papà, mi è stato sempre vicino e mi ha aiutato a decidere di portare avanti la gravidanza.
Così è nata Rosa, che ieri ha compiuto mezzo anno.
Rosa, che ha i tuoi occhi, che ti ha staccato la testa, che ha le tue mani e i tuoi piedi; Rosa che mi dimostra di essere tua quanto mia,
grazie a Dio.
Rosa che vorrei formasse con noi una famiglia.
Se mi perdoni veniamo.
Anche mio padre è felice che sia tu il padre anche se un po’ si rammarica che di me abbia così poco, forse l’attaccatura dei capelli e il naso.
Sono a casa di mio padre e ti imploro: telefonaci.
L’aspetterò senza mai farmi viva finché tu non ci vorrai; se non chiamerai capirò ma non potrò mai smettere di aspettare e di amarti.
Antonella
Pianse, di gioia.
Tolse la pellicola alla lavagnetta continuando a piangere. Poi si soffiò il naso e si lavò il viso. Accese una sigaretta, si sedette e fece il numero.