Il paese senza lacrime

Il paese senza lacrime

C’era una volta un piccolo paese nascosto tra alte cime ghiacciate. Non era facile arrivarci:” bisognava camminare e camminare, attraversare scure gole, torrenti impetuosi, tremuli ponti di corde”. Solamente in fondo, in fondo, là dove la linea verde della terra si congiungeva a quella azzurra del cielo, là dove, di notte, le stelle brillavano a migliaia nei prati scoscesi assieme alle stelle alpine ed alle genziane, iniziava il paese senza lacrime.

Era un posto così piccolo e sperduto che nessuna carta, nemmeno la più particolareggiata, ne faceva menzione. In realtà neppure gli abitanti del paese erano a conoscenza che, oltre le loro aguzze cime, ci fossero città e nazioni e persone. Erano convinti che il mondo si fermasse lì, in quel loro paese dove il cielo si stringeva alla terra in un amichevole abbraccio.

Il paese senza lacrime era proprio piccino:” una piazzetta acciottolata, affacciata su un panorama di rocce chiazzate di verde ed una spruzzata di casette tutte uguali ornate di gerani”.

La gente del paese senza lacrime non era, ad un primo sguardo, in nulla dissimile da quella del resto del mondo: “aveva due gambe, due braccia, due occhi, un naso e perfino una bocca”. Beh,qualcosa di differente in realtà si notava ... Tutti, sia gli uomini, sia le donne e perfino i bambini, avevano stampato sul viso l’identica espressione di allegria. Non s’incontrava, neanche a cercarlo col lanternino, un bimbo che piangesse per un capriccio o una vecchina cui si scorgesse, tra le pieghe del viso, due labbra rivolte malinconicamente all’ingiù. Tutti sfoggiavano aperti sorrisi e le viuzze echeggiavano di risate.

Un giorno un cacciatore, che s’apprestava a tornare a casa attraverso la foresta, scorse, dove la boscaglia s’addensava umida e scura, una piccola forma. Stupito s’avvicinò. Scostò qualche ramo e a bocca aperta contemplò l’essere che giaceva nell’erba. Era un ragazzetto, non più bambino, ma non ancora adolescente, con un cespuglio di capelli color buccia di castagna che spioveva sugl’occhi larghi di paura.

“E, tu chi sei?” gli chiese nella sua lingua gutturale.

Il ragazzino si rattrappì su se stesso: “sembrava una bestiola presa in trappola”.

“Chi sei, dunque?” domandò nuovamente il cacciatore, questa volta accompagnando le parole con i gesti.

“Mi ... mi chiamo Alessandro” disse finalmente con una vocina da bambino piccolo.

“Da dove vieni? Non ti ho mai visto qui” disse il cacciatore mentre tentava di far alzare il ragazzo. Ma Alessandro era proprio esausto e scivolò di nuovo nell’erba.

Non sapeva neanche lui come fosse arrivato in quel luogo. Ricordava solo di essersi perso nel bosco, di avere corso e corso con ansia crescente. I piedi sempre più stanchi inciampavano, frusciando, nel tappeto di foglie. Per giorni aveva vagato, atterrito da ogni ombra oscura che occhieggiava dietro la scorza rugosa degl’alberi. Il silenzio lo aveva avvolto denso, solo scheggiato dall’urlo di qualche invisibile animale. Aveva avvertito su di sé le dita della morte allungarsi, pronte a ghermirlo al primo segno di cedimento. Si era fatto forte ed era andato avanti, con i piedi feriti, i vestiti strappati dai rovi, la pancia vuota che gorgogliava, il cuore pesante d’angoscia.

Abbassò le palpebre e chiuse fuori le sue paure. Era stanco, non poteva più lottare: “si consegnò al destino, qualunque cosa lo aspettasse”.

Una lieve carezza lo svegliò. Aprì gli occhi: “la coscienza faticava a disegnare i contorni delle cose”. Alla fine mise a fuoco la figura di una ragazza. Che lui la descrisse con: “occhi come caramelle d’orzo e capelli come miele selvatico e un piccolo naso all’insù”. Ma ciò che più attirava l’attenzione di Alessandro era il suo sorriso: “illuminava, netto, senza ombre, tutto il volto. Non ne aveva mai conosciuti di uguali”.

Un po’ a segni, un po’ a parole, si presentarono. La ragazza si chiamava Federica. A Alessandro piacque subito. I discorsi di Federica erano percorsi da zampillanti risatine.

Era figlia del cacciatore che l’aveva trovato e ora abitavano insieme nella casina bianca con i gerani rossi alle finestre.

Alessandro si rese conto ben presto della felicità che, come un dolce sciroppo, scorreva per tutto il villaggio.” Ah, ah!” si sentiva echeggiare nelle case e per strada i visi sembravano avere rubato la luminosità al sole. Probabilmente l’aria che si respirava in quel luogo sperduto era impregnata di un’allegria perenne e nessun abitante sfuggiva al misterioso influsso.

Il tempo trascorse veloce tra quella gente che non conosceva tristezza. I giorni si aggiunsero ai mesi e i mesi agl’anni.

Alessandro si fece un giovanotto: “le ragazze del paese se lo segnavano col dito, manifestando con risatine il loro apprezzamento”. Alessandro n’era lusingato, ma anche infastidito. A lui interessava solo Federica.

Un giorno, mentre il tramonto ramato si stemperava nelle prime ombre notturne, Alessandro si recò alla cascata dietro il paese. L’acqua scivolava spumeggiante lungo la gola verde di muschio; all’improvviso, quasi stregato da tutto quel fragore, la sua mente si staccò dal corpo, volò lontano, fino alla casa dal poggiolo di legno annerito dal sole e dagl’anni. Appoggiata alla balaustra c’era una donna minuta con i capelli biondi un po’ scoloriti e gl’occhi bagnati di lacrime. Scrutava nel vuoto in cerca di qualcuno.

“Sta cercando me!” mormorò il ragazzo, quasi in sogno.

“Mamma...” gridò, tendendo istintivamente le braccia. Il suo grido echeggiò, ampliato dai dirupi, ma la mamma non poteva udirlo.

La nostalgia per la madre gli rovinò addosso di colpo. Avrebbe voluto dare sollievo all’angoscia che avvertiva nell’animo, ma i suoi occhi rimasero asciutti e la bocca, come il solito, stirata in un sorriso vuoto. Solo allora si rese conto che la sua allegria, come quella degli altri abitanti del paese, era artificiale.

Staccandosi a fatica dalla visione, alzò gli occhi verso le aguzze cime che foravano la notte e pregò:

“ Chiunque tu sia, mago o strega, che hai gettato un incantesimo su questo paese: io t’invoco! Rendi a me, e a questa gente, tutti i sentimenti del cuore. Come possiamo apprezzare la gioia senza conoscere le altre emozioni? Solo ora mi rendo conto che la nostra allegria è artificiale”.

Le parole del ragazzo tagliarono come lame affilate l’aria bruna. La seta pesante del cielo, punteggiata di stelle, ebbe un brivido e una voce non umana precipitò dallo spazio:

“Piccolo uomo temerario, come osi interpellare con tanta arroganza il dio del riso e del pianto? Io donai a questo popolo una vita senza sofferenze. Da allora è sempre vissuto felice: perché vuoi insinuare il dubbio nei loro animi gioiosi?”

“ La gioia da sola, senza le altre emozioni dell’animo con cui confrontarsi, è piatta, non ha spessore ”replicò Alessandro “ E’ come uno strumento monocorde in cui vibra in eterno un’unica nota. Non ha nulla d’umano.”

“ Sciocco ragazzo, non sai godere del privilegio che la sorte ti ha donato! ” disse il Dio del riso e del pianto. “ Scioglierò dal sortilegio te solo, ma dovrai abbandonare il mio felice paese e ritornartene in dietro, nel mondo degli uomini comuni. Tu mi hai chiesto di ridarti tutti i sentimenti umani ed io ti accontenterò. Proverai la paura, la solitudine, l’angoscia. ”

Restò per qualche attimo solo l’eco di una risata, che si allontanò scivolando nel vento.

“ Che succede, Alessandro?”

Una voce ben nota fece sobbalzare il ragazzo. Era la sua ragazza Federica.

“Cosa ci fai qui, al buio? Con chi parlavi?” Domandò curiosa.

Per la prima volta, guardandola, Alessandro sentì nel petto il cuore fremere come un uccello.

“ Fede, vieni qua “ le sussurrò con una passione nuova. Tese le braccia per stringerla a sé, ma urtò contro un invisibile ostacolo. Nuovamente l’aria fu percorsa da un brivido e la voce divina calò dallo scuro velluto del cielo.

“Ricorda le mie parole, ragazzo! Non potrai mai più avere contatti con questa gente: ormai tu appartieni ad un altro mondo. Vattene o il mio castigo ti colpirà terribile!”.

I due giovani con le mani poggiate sulla parete invisibile, vicini, ma divisi, ascoltarono in silenzio le dure parole. Federica aveva ancora stampato sul viso il suo sorriso da bambola, ma gli occhi simili a caramelle d’orzo, persero per qualche istante la loro lucentezza come se un velo fosse calato ad oscurarli. Fu un attimo: “lei apparteneva al paese felice e nessun altro sentimento poteva scalfire la sua serenità”.

“Scappiamo insieme!” propose, mentre con le dita sottili seguiva, sulla parete invisibile, i contorni del volto del ragazzo.

“ Com’è possibile?” replicò Alessandro” “ Questo impalpabile ostacolo ti separa da me!”

Volgendo poi lo sguardo verso il cielo stellato, lanciò una richiesta:

“Dacci, Signore del riso e del pianto, almeno una possibilità di riunirci. Ti promettiamo che ci allontaneremo subito dalla terra su cui regni.”

“Quello che mi chiedi è irrealizzabile”, rispose la voce rotolando nel silenzio della notte. “A meno che...”

“A meno che...” ripeté ansiosamente Alessandro.

“ A meno che l’amore della tua ragazza sia così potente da sciogliere col suo calore l’incantesimo che l’avvolge.”

Federica era confusa. Da alcuni anni lei e Alessandro erano fidanzati: “non bastava quel legame per sciogliere l’incantesimo?”

Leggendole nel pensiero, il Dio aggiunse:

“Io ho donato al tuo popolo il riso eterno, ma vi ho reso immuni dalle emozioni profonde che consumano come la fiamma consuma la candela.”

Nubi gonfie di pioggia, trasportate dal vento, avevano ormai nascosto la volta stellata. L’eco delle ultime parole sfumò confondendosi con un rombo lontano.

I due ragazzi rimasero soli, avvolti dal silenzio della notte, finché le prime gocce iniziarono a frusciare leggere nell’oscurità del bosco.

Essere così vicino, sentire il respiro l’uno dell’altra e non potersi neppure sfiorare era un terribile supplizio. La pioggia ora cadeva fitta, un velo vibrante che scivolava sui loro corpi tesi.

“Non potrò più stringerti tra le braccia! Cosa m’importa di stare in un mondo dove tu non ci sarai?” disse Alessandro e la sua voce era già come morta.

Federica stava rigida, immobile, le mani premute sull’invisibile ostacolo, i capelli color miele selvatico gocciolanti. Ascoltava in silenzio le parole del suo ragazzo mentre quel “più” le rimbombava nelle orecchie come un’esplosione.

“Mi ritirerò nel bosco e lascerò che la vita si spenga lentamente in me. Prima voglio però accarezzare un’ultima volta il tuo dolce viso.”

Con tenerezza sfiorò il volto di Federica, dietro la parete d’aria.

Vide le sue labbra tremare.

“Che cosa intendi dire, Alessandro? Non ho capito bene il tuo discorso.”

“Hai capito benissimo! “

“No!” esclamò la ragazza.

Il suono della voce fu come una freccia di fuoco scoccata nell’umidità della notte. Inutilmente tentò di aggrapparsi alle braccia di Alessandro, le sue dita scivolarono sul nulla che li separava.

Aveva smesso di piovere e un chiarore lattiginoso s’andava spandendo nel cielo. Si portò una mano sugl’occhi: “li sentiva bruciare come fuoco”.

“Alessandro, guarda” sussurrò

La notte era ancora scura, ma un leggero chiarore le illuminava il viso e gli occhi lucidi.

“Ma tu, tu... stai piangendo!” esclamò.

Istintivamente Alessandro la circondò con le braccia. Increduli avvertirono il calore l’uno dell’altra: “nessuna barriera più li divideva”. L’incantesimo era infranto!

Fu allora che dentro Federica qualcosa accadde. Sentì il sangue accelerare nelle vene e il cuore impazzire nel petto. Il tempo arrestò il suo corso, gli attimi persero i loro rigidi confini. Un’emozione, intensa e dolce, quale mai aveva provato in tutta la sua vita, la pervase. Non era più la felicità superficiale cui era abituata, ma un sentimento nuovo dove vibrava il sollievo di avere superato una difficile prova. Aveva temuto di perdere per sempre lo sguardo di velluto di Alessandro ed ora la gioia le cantava dentro.

Federica si volse per un attimo a guardare il suo paese senza lacrime, nella luce rosata dell’alba. Dormiva imperturbabile, chiuso dalle alte cime ghiacciate.

Poi, con quel nuovo sentimento in petto, s’addentrarono insieme nel bosco, verso il mondo degli uomini normali.