Il professore
L’aula pian piano cominciò a svuotarsi, e l’ultimo suono che si era protratto uscì dalla bocca di Laura,la studentessa moretta dell’ultimo banco; “A domani professore.”
Da lì in poi più nessuna voce, sibilo o fruscio.
Il professore rimase accerchiato dai fantasmi del silenzio.
Sì, il silenzio lo angosciava. Era qualcosa che non riusciva bene a spiegarsi. Lui così fedele alle parole, alla convinzione che esse potessero spiegare ogni evento, sciogliere qualsiasi contraddizione.
Poi conobbe il silenzio, scoprì che quello con le parole non si poteva raccontare.
Aveva il volto torvo, vistosamente pallido e con qualche venatura di sudore che scorreva qua e là sulla fronte.
Decise di rompere la litania del suo sguardo, fin lì devoto a quei banchi ora deserti.
Inclinò il capo, tolse gli occhiali. Li ripose con moderata lentezza nella custodia.
Strizzò leggermente le pagine del libro di filosofia moderna, riponendolo poi con la solita accuratezza in uno dei vani della sua ventiquattrore.
Era teso, spazientito, con una gran voglia di spersonalizzarsi, di ritrovare la sua pelle di uomo.
Percorse il corridoio della scuola con fare distaccato.
Raggiunse la sua Audi blu metallizzata, che più che una macchina nella sua testa aveva preso da tempo le sembianze di una donna stanca di aspettarlo.
Non a caso di li a poco, il suo cellulare cominciò a vibrare smodatamente.
“Pronto, dimmi.”
“Sono andata a ritirare gli esami io stessa. Sei tu quello sterile.”
“Ah. Sei sicura?”
“Certo che sono sicura!”
“Ho capito.”
Mise in moto e si mischiò al carosello di macchine che in quell’ora di punta paralizzava le arterie della città.
Si fermò a un semaforo che pareva non volerne sapere di ritornare verde.
Indugiò un attimo, poi si accorse alla sua sinistra della presenza di un Alfa Romeo grigia, guidata da un signore facoltoso in giacca e cravatta con accanto la sua ipotetica signora.
Il professore abbassò il finestrino e si rivolse con tono sferzante alla coppia:
“Sono sterile. E voi?”
I due lo guardarono basiti, specialmente la donna parve quasi inorridita:
“Eugenio parti, è verde.”
Dopo circa mezzora ,l’Audi del professore si ritrovò parcheggiata di fronte a un grande palazzo rosa austero, lungo un corso fiancheggiato da bar e tavole calde.
Lui rimase con le mani bloccate sul volante, con una espressione imperscrutabile.
Il cellulare cominciò a illuminarsi nuovamente, ma questa volta sembrava che la cosa non gli importasse.
Scese dalla macchina, salutò a stento un suo conoscente, e scomparve dentro a una delle tavole calde “Mordi e Fuggi”.
“Potrei avere una schiacciata?”
“Certo. Funghi e melanzane o mozzarella e prosciutto?”
“Non fa differenza.”
“Signore mi dica quella che preferisce.”
“Non so... sono sterile.”
Alla signora della tavola calda fu subito chiaro che aveva a che fare con qualcuno poco sano di mente, e con il resto della clientela addensata dinanzi al bancone, non era proprio il caso di portare avanti la discussione:
“Ecco a lei, mozzarella e prosciutto. Fanno due euro, alla cassa per favore.”
Trascorse il restante pomeriggio ovattato nella sua auto, con il cellulare che lontano dai suoi occhi, vibrò ripetutamente per una buona manciata di minuti.
S‐T‐E‐R‐I‐L‐E‐, scriveva e riscriveva la parola sui fogli bianchi di un bloc notes circondandola alle volte da altre parole come “Maschio” “Uomo” “Moglie” “Famiglia” “Amore?”.
Erano quasi le sette di sera, quando abbassò lo specchietto frontale, prese un pettinino dalla borsa, e allineò la propria capigliatura con una riga in mezzo.
In ascensore salì accompagnato da una madre radiosa che teneva in braccio un piccolo neonato di non più di qualche mese.
“Scusi, lo studio del dottor Di Vita?”
“Terzo piano, signora.”
Era rimasto da solo mentre il display dell’ascensore inesorabile scandiva l’avvicinamento al nono e ultimo piano del palazzo. Di fronte alla porta di ingresso, appoggiata al pomello centrale, lo accolse una lettera. La prese senza neanche leggerla e la ripose in una delle tasche anteriori del cappotto.
Prese a girare per casa con aria spenta, biascicando talvolta un sogghigno che nessuno gli conosceva.
Entrò nella camera da letto, rimasta visibilmente spoglia di molti oggetti:un quadro, due o tre portafotografie, un abat jour,due portagioielli.
Ah, dagli scaffali mancavano anche i volumi della raccolta “Genitori del duemila.”
La luna nel frattempo era calata intensamente, e i suoi occhi la incrociarono per qualche vivido istante, sottoponendola a una sorta di veglia interiore.
Fu allora che il professore prese la cornetta e digitò un numero che ricordava a memoria:
“Pronto, sono Vittorio un compagno di scuola di Laura.”
“Amore sono io, sei pazzo a chiamarmi a casa!”
“Se ne è andata.”
“Ma per quanto?”
“Ha lasciato la solita lettera.”
“Vuoi vedermi adesso?”
“Non lo so... meglio domani.”
"Come vuoi tu,amore."
Vittorio rimase accerchiato dai fantasmi del silenzio.
Sì, il silenzio lo angosciava. Era qualcosa che non riusciva bene a spiegarsi. Lui cosi fedele alle parole, alla convinzione che esse potessero spiegare ogni evento, sciogliere qualsiasi contraddizione.
Poi conobbe il silenzio, scoprì che quello con le parole non si poteva raccontare.