Il ragazzo dell'ultima fila
La mia classe era suddivisa in 4 file con 2 posti ciascuno e ognuno –prima di ogni inizio dell’anno‐ era contento di potersi sedere accanto alla persona che desiderava, o forse non proprio tutti: non tutti erano fortunati a prendere gli ultimi banchi o a trovare il compagno di banco perfetto per ogni evenienza; purtroppo non si può avere tutto dalla vita e non tutti riescono a conquistare il proprio territorio o a trovare il miglior alleato per combattere; però chi è capace di ciò, giuro che mi inchinerei a tale potenza. Tutte le file erano complete, tranne l’ultima a destra: lì sedeva un ragazzo, solitario e molto inquieto, ignorato da tutti o –spesso‐ preso in giro per i suoi dettagli diversi dal gruppo; metà del suo volto era coperto dai suoi lunghi e castani capelli ricci e dal suo cappuccio largo nero della felpa, si intravedevano solo le sue labbra sottili e un po’ screpolate, che non davano segno nemmeno di un mezzo sorriso o risata. Gli piaceva molto disegnare, riempiva album, quaderni, diari, banchi, perfino i muri di schizzi, tutti in bianco e nero. Amava molto l’arte, quella libera –e piaceva anche molto a me, soprattutto la sua‐, ma ai miei compagni di classe non piaceva lui. Le sue diversità non erano apprezzate: il fatto che ascoltasse musica o che si vestisse diversamente, agli occhi degli altri risultava solo uno sfigato in cerca di attenzioni, un’ottima vittima da poter insultare e da poter giudicare a loro piacimento; ma nonostante ciò, lui non reagiva mai, rimaneva lì, fermo, con la testa china sul banco, a subire quel totale inferno e io invece –da vigliacca che sono‐ rimanevo inerme ad osservare la scena. Mi sono sempre limitata a guardarlo, dal terzo banco a sinistra, ma non perché ne fossi innamorata –non pensate male, era un bel ragazzo per me, ma a malapena lo guardavo‐ ma perché qualcosa mi attraeva come una calamita, come se avessimo qualcosa in comune. “Che grande cavolata” –pensai‐ “Sarà perché abbiamo la stessa passione per il disegno”. Avrei voluto tanto potergli rivolgere la parola, ma ogni volta che ci provavo sfuggiva appena in tempo dal mio sguardo: “Che pure coincidenza no? Proprio quando prendevo il coraggio di rivolgergli la parola”. Al termine di ogni lezione tutti si organizzavano per uscire o per studiare insieme, io invece ero sola ‐proprio come il ragazzo dell’ultima fila, ero sempre esclusa da chiunque, ma non mi importava, in fondo come potevano frequentare una come me, una trascurata – all’apparenza‐ senza sentimenti, piena di vuoti incolmabili di cui a nessuno importava. Ogni volta all’uscita della scuola, speravo almeno di incrociare un suo sguardo, mi illudevo sempre di poter aver una possibilità di parlargli, ma tra tutto quell’ammasso di studenti, spariva nel nulla, proprio come un fantasma.
Alla fine tornavo a casa un po’ delusa, ma cercavo sempre di essere positiva sperando che un giorno, sarei riuscita a conoscerlo e chissà, magari a diventarci amica o qualcosa di più. Casa mia era sempre vuota, perché mia madre svolgeva molti lavori per mantenerci, perciò ero sempre sola, con me stessa. Ogni sera mi affacciavo al balcone, prendevo il mio pacchetto di winston blu e le mie bottiglie di liquori, mi accendevo una sigaretta e osservavo il cielo, perché solo così –o almeno in parte‐ riuscivo a riempire uno dei piccoli vuoti che mi ritrovavo. Sapete, nonostante non mi rivolgesse nemmeno una parola, il mio compagno di classe era il mio unico punto di riferimento, come la stella polare su cui i marinai contano per orientarsi in piena notte; forse era una delle poche motivazioni che mi davano la forza per svegliarmi la mattina, per continuare gli studi, o addirittura probabilmente per vivere. All’inizio mi bastava solo osservarlo, tener d’occhio ogni suo movimento, ogni suo dettaglio, ma poi iniziai a provare il bisogno di parlargli e pian piano, questo mio desiderio divenne un ossessione; tentai più volte di avere un contatto umano con lui, ma ogni volta i miei tentativi risultavano vani e ci rimanevo male. “Probabilmente scappava da me, proprio come facevano tutti” pensai. Come ho potuto pensare che potesse essere diverso per una volta. Dopo l’ennesimo tentativo, scoppiai a piangere; corsi a casa, presi tutti gli alcolici possibili che avevo in casa e iniziai a bere una bottiglia dopo l’altra, goccia dopo goccia: il sapore amaro in bocca e il bruciore in gola mi calmava, curava il mio dolore straziante, riempiva il mio vuoto; i miei pensieri più diventavano assillanti nella mia testa, più svuotavo bottiglie, le mie migliori amiche, che ci son sempre state. Alzai le maniche delle mie braccia, piena di lievi cicatrici di un angelo sulla terra –o almeno così le definivano‐ e ricordai a tutte quelle volte che mi ha fatto del male il mondo: “gli angeli non possono vivere sulla terra, loro vivono in cielo” pensai. Barcollando e con la vista annebbiata, mi diressi nei cassetti della cucina e presi il coltellino svizzero, vecchio caro amico: lo osservai apatica, mentre ci sfioravo un dito per vedere quanto fosse affilato; mi sedetti a terra, appoggiando la testa ai mobili, feci un respiro profondo e scoppiai a piangere e ad arrabbiarmi con me stessa; iniziai a lasciarmi segni profondi sulle braccia, uno dietro l’altro senza mai fermarmi. Questa era la mia punizione, per non essere mai stata la ragazza che volevo essere davvero: carismatica, magnifica, con emozioni, ma soprattutto normale e io, per la società, non lo ero; forse anche per questo lui fuggiva, perché era come me . Il sangue iniziò a scorrere lungo le mie braccia, percepivo la testa più pesante e i miei occhi pian piano perdevano lucidità.
Una luce bianca e limpida riscaldò il mio viso, e per il troppo calore, riaprì gli occhi leggermente e da lontano intravedi una porta; mi alzai e la osservai diffidente ‐ ma allo stesso tempo curiosa‐ di quello che stesse succedendo. Mi avvicinai, aprii la porta leggermente sbirciai cosa ci fosse oltre ad essa: un enorme anfiteatro all’aperto abbandonato con un palco, dove c’era un telo enorme di color bianco sporco. Entrai in quel posto e, chiudendo la porta, essa sparì nel nulla; esplorando quel posto, trovai molti pennelli, secchi di acrilico e alcolici sparsi ovunque; mi dava l’aria di una sensazione che mi era molto familiare, quella del nulla più totale. D’improvviso, udii dei passi rumorosi avvicinarsi al palco; intravidi un ragazzo incappucciato vestito di nero molto familiare; quando capii chi fosse, un brivido mi percorse lungo le braccia e la schiena: era proprio lui, il ragazzo dell’ultima fila. Salii sul palco e rimase impalato davanti a quel grande telo per un po’, mentre io, intimorita da quel ragazzo, rimasi immobile a guardarlo, proprio come in classe. Ad un tratto, afferrò il pennello, lo immerse nel colore nero e con grande furia ma allo stesso tempo malinconia, iniziò a comunicare con l’arte. L'arte lo sussurrava: qualunque cosa dipingesse o disegnasse prendeva forma, assumeva una sostanza, trasmetteva un ricordo, un suono, un qualcosa; gli consumava tutte le energie, tutte le forze che aveva, lo trasportava via in quei momenti dal mondo circostante orrendo che lo criticava. Ogni singolo movimento della mano partiva leggero, semplice, delicato, ma mano a mano la rabbia, la frustrazione, il rancore prendevano il sopravvento, facendogli perdere il controllo della situazione e le sue dita afferravano strettamente il pennello che mantenevano, così forte da fargli venire i calli. Ogni tratto e punto provenivano dalla sua anima, la sua povera anima calpestata e ridotta come pasto in poltiglia per i grandi sovrani della società; non sopportava più di non essere compreso, di non essere considerato, di sentirsi inutile perfino davanti gli occhi di sua madre, dolce e forte donna che l'aveva cresciuto con duri sacrifici; era stanco di essere giudicato per quello che era, ma allo stesso tempo era sfinito dal fingere di essere qualcun altro che non gli apparteneva; non voleva più vivere, preferiva porre fine ai suoi interi loop giornalieri che aspettare la sua ora. Però era ancora qui, a combattere contro tutti, proprio come un eroe che cerca di salvare il mondo, con la differenza che però, lui cercava di salvare se stesso, da quella voragine dentro il petto che si era creata.
Osservavo quell'arte e percepivo le sue stesse sensazioni, il suo dolore trattenuto da sempre, che non ha mai voluto mostrare a nessuno; i brividi continuavano a salire dalla testa fino ai piedi, le mie mani tremavano e i miei occhi rimasero impalati a guardare ciò che combinava. C'era sempre stato qualcosa tra di noi che ci collegava, dall’inizio mi son sempre sentita così simile e legata a quel ragazzo anche se non lo conoscevo, proprio come se quei suoi sentimenti fossero anche i miei; così per la prima volta –dopo tanti tentativi‐, mi sentii capita finalmente da qualcuno, che non mi aveva nemmeno rivolto la parola per farmi sentire bene, mi era bastato solo osservarlo mentre dipingeva. Continuò a lungo, sempre con lo stesso colore nero e sempre con i suoi stessi tratti, fino a quando ad un certo punto cadde in ginocchio a terra davanti l'opera piangendo, facendo cascare il pennello; mi spaventai e corsi verso lui, ma d’improvviso la strada per raggiungerlo diventava irraggiungibile, facendosi sempre più lunga, impetuosa e piena di ostacoli; non potevo perderlo questa volta, non potevo perdere di nuovo l’occasione di parlargli. Ad un tratto il vento si fece più forte, facendo volare via la sabbia e i sassolini; il terreno divenne sabbie mobili, e dovetti iniziare a saltare lungo i grandi blocchi di cemento. Arrivata quasi al palco, rivolse uno sguardo profondo e comprensivo verso di me, mi porse un leggero sorriso, mentre un soffio di vento lo fece volare via sotto forma di granelli di sabbia, facendolo sparire nel nulla. Improvvisamente, mi risvegliai confusa e stanca in una stanza d’ospedale. Alzai lo sguardo verso mia madre, seduta accanto a me e gli chiesi cosa fosse successo. “Non ti preoccupare amore, è tutto ok” disse accarezzandomi la guancia destra. Dopo aver passato un breve periodo in ospedale, ritornai a scuola: tutti mi guardavano, ma non mi interessava; mi sentivo una persona nuova, avevo voglia di ricominciare da zero e nessuno mi avrebbe fermata. Entrai nella mia classe e le file erano incomplete: l’ultimo banco a destra era vuoto, non c’era nessun disegno e nemmeno il mio compagno di classe; e in quel momento capii che il ragazzo dell’ultima fila non era mai esistito, ma era una parte di me che non ero mai riuscita ad accettare.