Il rantolo
Il suo essere taciturno e riservato gli impediva di ficcarsi nei guai. Raramente aveva avuto delle beghe, e le poche volte che gli era capitato era riuscito tranquillamente a eludere qualsiasi provocazione uscendone da “gran signore”. Il carattere calmo e riflessivo si specchiava di “pari passo” al suo modo di camminare; lento e deciso. Non credeva a dicerie e non amava le chiacchiere, difendeva il suo privato con ironia e mai con violenza; neppure verbale. Alla sua nascita gli misero nome “Vincenzo.” Non potette farci nulla. Quel piccolo essere non era nemmeno cosciente di essere venuto al mondo. Acquisito in età adulta il lume della ragione ritenne quel nome non soddisfacente. Decise di toglierci il vinc lasciando il diminutivo Enzo. Aveva iniziato a lavorare molto giovane. Da apprendista aveva imparato poi un mestiere. Ora alla soglia dei suoi trent’anni lavorava in proprio; riparava apparecchiature per condizionamento aria.
La giornata era cominciata bene. Al bar quella mattina aveva vinto cento euro con un gratta e vinci. Sorseggiando il morbido e schiumoso cappuccino, cominciava a organizzarsi nella testa le chiamate di lavoro. A volte in quella spuma cremosa trovava una piccola gratifica; lo metteva di buon umore.
Ogni mattina si ripeteva questo rito, cinque minuti di meditazione prima di imbottigliarsi nel vergognoso traffico cittadino. Quel bar veniva colmato da impiegati e insegnanti per via degli uffici distribuiti nella zona e della scuola media prospiciente la struttura commerciale.
A Enzo dava parecchio fastidio entrare in quel bar il giovedì e il martedì: poiché in quei due giorni a settimana la “cappuccineria” trasbordava di signore e signorine attempate odorose di caramella mou, che facendo capannello avanti il bancone chiacchieravano rumorosamente.
Quelle braccia che si agitavano, gli impedivano di “allungarsi” verso la tazza postagli dal barista. Odiava scansare le persone con le mani, e non gli andava nemmeno di dire “mi scusi,” per lui era un fattore acquisito che qualcuno non gli si dovesse parare dinanzi quando stava facendo colazione.
Una signora di dubbia educazione e di robusta stazza arrivava a poggiare un ingombrante seno al bordo del bancone, e agitando le braccia per chiedere il “dietor” si poneva a sovrastare il di lui fumante cappuccino. “A signò, che dovremo da fa! Si t’aggrada visto che ce stai, fatte puro ‘n tuffo dentro.”
Era sì, taciturno e riservato, ma l’esuberanza di determinati modi di fare lo faceva stranire. Quella mattina, il bar era poco frequentato. ‐essendo di Lunedì ‐ Vi erano solo un ragazzotto che sfogliando il corriere commentava i risultati delle partite di calcio e un signore distinto che sorseggiava un Campari con gin. Finito di fare colazione uscì dirigendosi verso il furgoncino. Aprendo la portiera si sedette comodamente, mise in moto e accese la radio. Prediligeva le emittenti che trasmettono musica rock, di tanto in tanto cambiava stazione per ascoltare i notiziari del giornale radio per poi tornare al rock.
Girò per buona parte della città quel giorno.
Le chiamate organizzate le aveva soddisfatte tutte, tranne una ultima, la meno impegnativa, che aveva riservato per le ore sei del pomeriggio. Era sua intenzione chiudere così il Lunedì, che come tutti sanno è una re‐iniziazione al trantran settimanale dopo il rilassamento sciatto della Domenica.
Arrivato sul posto parcheggiò tranquillo, chiuse la portiera del furgone, afferrò la valigetta degli attrezzi, allucchettò il portellone e si diresse verso il citofono del fabbricato.
Pigiò il tasto dove era impresso un cognome scolorito e illeggibile. Sicuramente quel campanello corrispondeva all’appartamento del cliente. Poiché tutti gl’altri pulsanti recavano cognomi a lui sconosciuti, procedendo per logica, suonò. Non rispose nessuno. Attese pochi secondi e pigiò di nuovo. Una voce flebile rispose ”chi è,“ indubbiamente doveva essere una persona anziana. Enzo si presentò rispondendo. La voce ribatté “terzo piano.” Un sordo tloc! Fece aprire la serratura dell’ingresso, spinse il cancello con il palmo della mano, entrò nell’ androne e chiuse l’uscio cigolante.
Era un vecchio stabile alquanto mal messo. Gli intonaci sfarinati lasciavano in mostra una polvere bianca adagiata agli angoli e lungo il battiscopa dei corridoi. Un odore di stantio e muffa avvolgeva le lampadine fioche che penzolando da logori fili elettrici distribuivano sui pianerottoli più penombra che luce. Non vi era ascensore e Enzo di malavoglia si convinse di doversi sorbire sei rampe di scale per giungere al terzo piano. Sali appigliandosi alla ringhiera, infine giunse davanti alla porta, suonò il campanello, attese circa un minuto. Uno stropiccio di piedi gli fece intendere che qualcuno stava avvicinandosi per aprire l’uscio. La porta si schiuse rivelando la presenza di un vecchio con i capelli scarmigliati e una lunga vestaglia. Enzo salutò: entrando. “Dov’ è il condizionatore? “ . L’anziano l’accompagnò sul balconcino verandato, e lo lasciò lavorare. In quella casa erano ammucchiati sul pavimento giornali vecchi e riviste spiegazzate, passando per la cucina notò una pila di pentole e padelle che sovrastava il lavello. Qualche residuo di cibo dell’ora di pranzo rosseggiava in due piatti ancora poggiati su un tavolo di plastica. L’anziano tornò a farsi vedere, nel mentre Enzo aveva cominciato a trafficare con la macchina. Il vecchio, passandosi una mano tra i capelli , disse con rassegnazione “ i vecchi puzzano.“ Enzo non capì, e non sapendo cosa rispondere eluse il suo udito.
Quella frase secca pronunciata con perento non dava scampo. Non era una constatazione ma una realtà tagliente, senza possibilità di appello. L’anziano gli confessò che: da anni non poteva uscire di casa. Era molto laconico, e non avrebbe di certo risposto a domande, Enzo del resto non si sarebbe mai permesso di chiedere: perché. Non era nel suo carattere, si faceva gli affari suoi e gliene avanzava, ma dentro di se, rifletteva. Perché non poteva, chi glie lo impediva, camminava, aveva sì l’aria sciatta ma non sembrava stesse male in salute. E da mangiare, chi gli portava da mangiare. Il vecchio fece un passo indietro, lento e incerto, girandosi uscì dalla veranda portandosi appresso lo strascichio delle pantofole.
Enzo non dette più peso alla cosa ma continuando a lavorare fu colto da apprensione, e di tanto in tanto sbirciava attraverso il silenzio di quelli stipiti, coperti solo da una tenda sfilacciata alla base. Gli pareva di udire un lamento, proveniente da chissà quale camera. In quella casa ci doveva essere un malato sicuramente allettato; forse la moglie dell’anziano.
Non si trovava a suo agio in quella casa, si affrettò a terminare la riparazione, quando chiudendo la valigetta chinandosi, volgendo lo sguardo alla parete vide il frigorifero avanzare verso di lui. Fu preso da stupore, e un senso di inquietudine lo pervase. La curiosità lo portò a scoprire da che derivasse quello strano fenomeno. Il frigo, infatti, in fase di compressione, quando “riattacca” trotterellava scivolando sul pavimento unto per poi tornare al suo posto ragionevolmente riportatoci dalla forza di gravità, dato che le piastrelle avevano una pendenza verso la parete.
L’anziano tornò di nuovo, si strinse la fusciacca della vestaglia dicendo: “ ha camminato di nuovo, vero!” Ezio annuì facendo per uscire dal balcone verandato. Un leggero vento scostò la tenda della camera dove aveva cercato di sbirciare. Alle sue orecchie arrivò un cigolio. Ebbe la percezione che qualcosa lo stesse guardando con insistenza. Ne avvertiva il sentore, pungente, fastidioso, inopportuno, accompagnato da quel lamento sentito prima. La tenda fluttuò avvolgendosi ai suoi ganci. L’anziano stese un braccio, come a volere impedire la visione di qualcosa da tenere nascosto e non mostrare. Qualcosa che induceva vergogna, una segreta angoscia nascosta; da non potere essere condivisa. Apparve, ciondolava sulla carrozzella ed inquietava una normalità apparente, la percezione che aveva avvertita si manifestò sfacciata e brutale. Quell’essere aveva due teste e lo fissava.
Enzo non riuscì a connettere, l’anziano si prese la testa fra le mani e girandosi ricacciò quella creatura disgraziata nel suo limbo, si frugò addosso traendo il portafoglio e pagando il costo della riparazione. Il ragazzo fingendo una situazione normale si avviò verso la porta di uscita guadagnando le scale; le scese reggendosi alla ringhiera senza guardarsi indietro.