Il rumore
Hai un sonno tremendo, di quelli che spiazzano la volontà. Gli occhi non stanno aperti nemmeno se attacchi le palpebre alle sopracciglia, con una molla di legno. Seduto sul letto, l’idea di svestirti la scacci dall'orizzonte limitato dalla abatjour nelle pupille. Ti dormono le gambe, i piedi incatenati al parquet, le braccia arrese alla forza del cotone che le stringe, le spalle curve. Solo le mani con un briciolo di affanno sbadigliano sugli oggetti da togliere di mezzo, per aprirsi un varco dentro il letto. Raggiunto il buio, solo, supino, nonostante il gorgoglio del water del vicino oltre il muro, alfine sprofondi nell’ultima stirata di gambe. Esattamente tre ore di assenza totale. Poi, la solita riemersione, prematura, dopo un innocuo battito del bite tra le arcate. Prendi coscienza che il gorgoglio continua, e la minaccia di doverne subire a lungo la possanza è un pugnale nelle budella. Fosse solo il gorgoglio, avrebbe almeno un effetto ritmico cullante, come acqua che lava ogni pensiero e se lo porta via dalla coscienza. Ma è un concerto stridulo, dissonante. Un fischio che penetra. Superbo. Autoreferenziale. Paziente, come quel bambino che voleva svuotare il mare mettendolo in una buca scavata nella sabbia. Incessante. Logorroico, come l’amica di tua moglie, quando l’incontri in fila alle casse del supermercato. Almeno lì intravedi una fine. Che tipo di messaggio ti si vuol dare? Il gorgoglio è imperterrito: ora fischia, continuo e senza iati. Forse durerà finché non avrai capito il senso? Dev’essersi rotto il galleggiante della cassetta di scarico. Che palle. Avrebbero potuto almeno chiudere l’acqua prima di andar via. Navighi basso. Che fare adesso? Tutta la notte questo strazio? Devi anche alzarti presto. Già senti il trillo della sveglia che ti coglie appena arreso finalmente al sonno, dopo l’interminabile furibonda notte. E gracchia il gorgoglio, fischia che ti vibra l’inguine. Chiaramente non hai i tappi. T’infili i due mignoli. E finalmente trovi pace. Ma non riesci a stare a lungo con le dita dentro i timpani. A tenerne uno solo potresti anche farcela, ma non è sufficiente. Allora arrotoli un angolo del lenzuolo, lo inserisci in caverna, lo pressi e il fischio cessa. L’altro orecchio poggia con tutto il peso della testa sul mignolo teso. Poi il lenzuolo si srotola e il fischio riprende, il gorgoglio, il gracchio, assordante, senza tregua. Ti alzi e prendi dal cassetto un paio di calzini. Macché! Troppo morbidi, si sbrogliano. Se li bagni? Avranno forse più aderenza? E se l’acqua penetra? No, che sciocchezza. Ti rotoli nel letto. Imprechi. E il rumore pare aumentare. Si gonfia. Pulsa. Il letto ti aderisce come fango freddo e duro, a un passo dal cigolio di un carrarmato. Devi pensare ad altro. Ci provi, ma nulla che si fissi per più di un secondo. Tutto fugge via dalla mente, come se scottasse. E scotta, scotta, genuflessa al gorgoglio che è divenuto rantolo incessante, fracasso, trapestìo, frastuono, rombo. Non ce la fai più. La notte è lunga. Ti alzi. Apri la finestra. Al quinto piano entra un’aria fresca, piacevole. Ma quel rumore maledetto la rende insopportabile. Ora hai tanti spilli che pungono le guance e ogni sospiro della brezza ti trafigge. Non è scomparso tutto, è che tutto non dura. Te ne torni a letto sconfortato, con l’idea di perforati i timpani. Userai la matita appuntita con cui riempi le pagine di sottolineature. Prima uno e poi l’altro. Farà male? Ci sarà sangue? Sarà conquista del silenzio. Afferri l’arma dal comodino. La trovi subito, anche al buio. Te la ficchi in un orecchio. Pungi piano. Poi più forte. Dolore. Cambi obbiettivo. Pungi l’altro, più forte. Il rumore s’interrompe. Cazzo hai traforato! Ma no, l’altro è ancora integro! E’ il rumore che è cessato. E sei rimasto intatto. E a che ti serve? Il rumore riprende. Basta! Basta! Basta! Non hai più scampo. Ma sì che ce l’hai! La finestra. Dal quinto piano è sicuro che sarà fatale. L’hai letto in un libro. E’ questo il senso.