Il sole all'improvviso
Anaïs credeva di conoscere tutto degli uomini e del sesso. Aveva vissuto esperienze di ogni tipo. A partire da una timida ma inquieta adolescenza, bombardata da una curiosità ossessiva per tutto ciò che riguardava l’universo maschile. Fino a sbocciare in una giovinezza vivace e prorompente, in cui aveva imparato, con raro talento, ad affinare le proprie arti amatorie. Due le sue passioni. La pelle nera e gli uomini molto più grandi di lei. Immaginava che un corpo scolpito, dalla pelle color d’ebano, potesse procurarle piaceri più intensi, più lunghi e più animaleschi, proprio come lei sentiva di essere, quando si abbandonava alle voluttà dei suoi istinti. Così, aveva accumulato esperienze, qua e là per il mondo, durante i suoi frequenti e non casuali viaggi, spinta dal desiderio di conoscere sempre terre nuove e nuovi modi di vivere. Era una creatura camaleontica e sapeva trasformarsi in una schiava ribelle o in una docile geisha. Si mescolava con disinvoltura alla gente e, inevitabilmente, collezionava ogni volta un’avventura, incoraggiata dal sole, dal mare e dal cielo tropicale, complici perfetti delle sue peripezie di giovane e incosciente cacciatrice di sensazioni. Allo stesso modo, però, era convinta che solo un uomo adulto e maturo potesse gratificarla in maniera totale, con la sapienza e la dedizione inevitabilmente estranee alla frettolosa esuberanza dei giovani maschi. E senza bisogno di scomodare Freud sapeva bene che di questa sua cieca attrazione per gli uomini più grandi non si sarebbe mai liberata.
Anaïs andava fiera del suo temperamento amoroso e compativa quelle donne vittime di “anoressia sessuale”, come lei si divertiva a definire la frequente indifferenza femminile al piacere fisico. Pensava che il sesso fosse un po’ come la ginnastica, che occorresse tenersi in allenamento, per non atrofizzarsi e per evitare di cadere nell’abitudine di non sentirne il desiderio, né tanto meno il piacere. Per questo Anaïs andava in palestra tutti i giorni! Dare piacere era per Anaïs fonte stessa di piacere. Tanto che, spesso, era lei a dedicarsi spasmodicamente al suo compagno di turno. Attenta ai desideri di lui, alle sue sensibilità e alle sue reazioni, era lei a possederlo donandosi, dimenticandosi a volte di occuparsi persino della propria soddisfazione. Inevitabilmente Anaïs si stancava presto dei suoi amanti e addirittura, molto spesso, dopo un incontro amoroso, si ritirava in segreta solitudine, godendo dell’eccitazione che i suoi pensieri e la sua immaginazione le provocavano. Non aveva ancora perso l’entusiasmo di rituffarsi ogni volta in una nuova avventura anche se in cuor suo sentiva che la sua vita sessuale stava diventando sempre più un cumulo di vuoti a rendere, un ammassarsi di cadaveri e di ricordi senza volto e senza nome. Da un po’ di tempo, infatti, si era annidata in lei la sensazione che qualcosa le mancasse, qualcosa di profondo cui non sapeva dare una definizione. Era un sapore amaro, di assenza, che si risvegliava con lei tutte le mattine, ancor prima che aprisse gli occhi e che si trascinava per ore durante la giornata, come i postumi di una sbornia, diluendosi con sempre maggior fatica.
Così Anaïs, seduta sul treno che tutti giorni la portava all’università, cercava di esorcizzare quello strano senso di vuoto, guardando fuori dal finestrino: immaginava di veder scorrere la propria vita, fotogramma dopo fotogramma, fantasticando sulla scena successiva e pregustando ogni volta un colpo di scena travolgente e un finale mozzafiato. Era un viaggio dentro il viaggio, che l’aiutava ad evitare tutti quei volti insipidi con cui, con una sottile presunzione, sentiva di non aver nulla in comune se non quel breve tragitto verso l’università.
Quella mattina, stranamente, il treno non era molto affollato e si sentì fortunata a trovare uno scompartimento tutto per sé. Ebbe appena il tempo di sedersi e di scivolare nell’effervescenza delle sue fantasie, quando qualcuno all’improvviso la richiamò alla realtà, interferendo piacevolmente con il film che stava girando nella sua testa.
“Mi spiace disturbare i suoi pensieri, signorina, posso sedermi qui?” domandò gentilmente un uomo, indicando il sedile libero di fronte a lei.
“Prego, è libero” rispose senza alzare lo sguardo dal libro che teneva sulle cosce. In verità Anaïs provava una curiosità insolita di scoprire che aspetto avesse il titolare di quella voce così calda e maliziosamente cortese ma con un’ostentata indifferenza si scostò appena, incoraggiando comunque lo sconosciuto a sedersi di fronte.
Le erano bastate quelle poche parole per intuire che qualcosa di inatteso stava capitando e un’improvvisa sensazione d’imbarazzo si impossessò di lei. Per la prima volta Anaïs sentiva di essere preda e non cacciatrice e scommetteva che da lì a breve l’uomo avrebbe sferrato il suo attacco, rovinando presumibilmente tutto con una banale battuta sulla sua lettura di psicologia. Niente di più scontato. Ciò l’avrebbe liberata da quell’inaspettata ebbrezza, catapultandola indietro nel film della sua mente e restituendola ai suoi consueti sogni ad occhi aperti.
“C’è qualcosa di nuovo nel sole oggi, non trova? – esclamò invece lui, spiazzandola nuovamente.
D’istinto Anaïs guardò fuori dal finestrino. Era una timida mattina di marzo ma il sole, già alto, tingeva l’aria di primavera inoltrata. Ne era certa, l’uomo non si riferiva né al tempo meteorologico né al panorama.
“Bèh, ogni giorno c’è qualcosa di nuovo e di diverso, anche quando piove. Basta saperlo vedere!” azzardò lei di scatto, meravigliandosi che qualcuno, come lei, sapesse cogliere la bellezza nascosta delle cose. Anaïs non aveva ancora imparato a riflettere prima di parlare. C’era come una molla dentro la sua testa che la spingeva sempre a reagire d’istinto. Avrebbe voluto un traduttore simultaneo per i suoi pensieri, perché le parole li rallentavano, anestetizzandoli e stemperando la loro irruenza. Eppure questa volta aveva la sensazione di trovarsi di fronte a qualcuno che riusciva a leggerle dentro e a vedere oltre i suoi occhi.
“Ha ragione – ribatté lui sicuro ‐ c’è sempre qualche cosa di nuovo in ciò che vediamo. La vita è una continua sorpresa, eppure non tutti sono in grado di coglierne la bellezza. I più sono ciechi e non sanno che il mondo è meraviglioso non solo per quello che ci fa vedere ma ancor di più per quello che ci nasconde”.
“E secondo lei cos’è che ci nasconde?” lo sfidò lei scettica di fronte a quel sorprendente filosofeggiare.
“Per esempio cosa potrà succedere tra dieci minuti, questa notte o domani” replicò lui serio, catturando irrimediabilmente la curiosità e lo sguardo di Anaïs.
Era come ipnotizzata dalle sue parole, sostenute da quegli occhi scuri che parevano trapassarla da parte a parte. Nessun accenno da parte dell’uomo al suo aspetto provocante, una tacita promessa con cui lei era solita giostrare le sue comparse maschili e che ora invece sembrava un futile optional. Pareva che lui vedesse direttamente la sua anima e con quella stesse parlando.
“Cosa intende? E’ ovvio che ci sia precluso conoscere il nostro futuro!” domandò cercando di riemergere da quell’incomprensibile ipnosi dei sensi.
“Vede, la bellezza sta nel fatto che tante volte il futuro è già presente nelle cose che ci succedono. Siamo noi a non saperlo vedere.” ribatté lui con un sorriso disarmante.
“Perché lei sa forse cosa il futuro le riserverà tra dieci minuti, questa notte … domani?” riprese sperando di riportare la conversazione, e soprattutto se stessa, sulla Terra.
“Sì! E glielo dimostrerò se me ne darà la possibilità” rispose lui baldanzoso, dando così ad Anaïs l’ultima definitiva spinta verso quel misterioso precipizio su cui si stava maldestramente tenendo in equilibrio.
Quell’uomo la stava sfidando, era evidente. Era un bluff, uno scherzo? Un tentativo di abbordaggio certamente originale e ben studiato? Oppure quel tipo era un filosofo megalomane, allucinato dai suoi stessi mirabolanti sofismi? O le sue teorie avevano invece un senso, un significato che lui stava cercando in qualche modo di comunicarle? Ma perché proprio a lei?
Anaïs cercò di scuotersi da tutti quegli interrogativi nella sua testa, sforzandosi di mettere a fuoco quel viso, alla ricerca di qualche dettaglio che magari le facesse capire qualcosa in più. Ma si morse le labbra e restò muta, sconfitta dal fascino che trapelava da quei lineamenti maturi e dalla sfumatura argentea dei capelli, tutti ingredienti golosi per lei, intriganti come la sua voce. L’apparente sicurezza di lui non lo rendeva arrogante, anzi, si mescolava a un’espressione ironica, un po’ canzonatoria di chi sa ridere di sé, che lo rendeva particolarmente stuzzicante. Quel filosofo, o dongiovanni che fosse, le ispirava fiducia. Anaïs scivolò giù con lo sguardo fino alle sue mani intrecciate sopra il ginocchio, mani sapienti, capaci di profondere piaceri e carezze ma in grado anche di togliere il respiro all’occorrenza, ne era certa. Le piacevano, avrebbe voluto toccarle. E farsi toccare.
In quel silenzio di sguardi le venne in mente un epigramma letto da qualche parte non molto tempo prima: “Non c’è niente da fare, quando penso a te ho il cervello in continua erezione”. Era, infatti, la prima volta che Anaïs percepiva l’eccitazione come un’energia proveniente dalla testa, una scossa che lentamente si trasmetteva a tutto il corpo, cellula dopo cellula, millimetro dopo millimetro, come un calibrato e inesorabile gioco di domino. Doveva frenarsi, assolutamente.
“Temo che non ci sia tempo per dimostrarmi le sue virtù di chiaroveggente. Siamo quasi arrivati e l’unica cosa che può sapere con certezza è cos’ha da fare lei ora.” tagliò corto, sottolineando quel ‘lei’ con un tono più grave, come a voler mettere uno scudo tra sé e l’eventuale radar indovino di lui.
“Di tutte le cose che invece non so – le rispose offrendole un sorriso come un fiore inatteso che mandò in pezzi all’istante lo scudo traballante di Anaïs ‐ ce n’è una che vorrei assolutamente conoscere prima di incamminarmi per la mia strada, qualcosa che solo lei può dirmi.”
“Io? E cosa? E’ lei il mago, a suo dire, io tutt’al più posso essere una fata per compiacerla” scherzò lei, strappando una risata sincera che attirò gli sguardi dei pochi viaggiatori ancora seduti nello scompartimento.
“Oh, saremmo davvero una coppia “da favola” ne sono sicuro! Ma quello che vorrei sapere è semplicemente il suo nome. Come si chiama?”
Il nome! Possibile che avevano parlato per tutto quel tempo senza nemmeno essersi presentati? Davvero c’era qualcosa di strano nell’aria quel giorno.
“Mi chiamo Anaïs, e anche se mi piace scrivere purtroppo ho solo il nome in comune con la mia scrittrice prediletta”.
“Io mi chiamo Henry e visto che non credo alle coincidenze penso che questo viaggio non si fermerà insieme a questo treno. E’ un piacere conoscerla, Anaïs!”
“Henry? … è un piacere anche per me …”
Nemmeno lei credeva alle coincidenze ma questo le sembrava davvero troppo: Henry! Come Henry Miller! D’un tratto le vennero in mente tutte le volte che si era abbandonata al piacere solitario stimolato dalle letture eiaculatorie di quello scrittore. Ma il treno frenò bruscamente e si accorse che la gente cominciava ad accodarsi per scendere. Era come se si stesse risvegliando in quell’istante da un bellissimo sogno. Le pareva di essere scesa da una giostra e sentiva ancora le vertigini, “… un giro ancora per favore!”. A malincuore si alzò e fu con piacevole sorpresa che, muovendosi con soppesata lentezza, si scoprì sciolta, calda e pulsante proprio nell’ultima parte di sé a cui aveva pensato durante tutta la conversazione. “Ecco dov’era finito l’ultimo tassello del domino!” disse a se stessa e le scappò una risatina, pensando a quanto fosse incorreggibile: riusciva ad eccitarsi senza nemmeno rendersene conto. Di certo non sarebbe mai diventata un’anoressica sessuale, lei! Anche Henry si alzò, lasciandola uscire per prima, e Anaïs sbirciò un mal celato movimento della sua mano nella tasca dei pantaloni. Un’”aggiustatina” a lei ben nota, che non poté fare a meno di sottolineare con lo sguardo, senza per altro il benché minimo imbarazzo di lui. Di solito trovava quel gesto rozzo e di cattivo gusto, invece tutt’a un tratto fatto da lui diventava assolutamente naturale. Gli lanciò un sorrisetto complice, grata di quella manifestazione di desiderio che, evidentemente, anche Henry aveva avvertito e che, a quel punto, si sentiva autorizzato a lasciar crescere. Anche questo le sapeva di familiare, anzi di più, di intimo. Quell’uomo la faceva sentire una bambina maliziosa da corrompere e da condurre per mano alla scoperta del piacere e contemporaneamente una donna affabile, all’altezza delle più fini arti di seduzione. Lei, che era sempre stata una minaccia per gli uomini, si sentiva ora golosamente in pericolo.
Anaïs sperava con tutte le sue forze che Henry le chiedesse il numero di telefono, l’indirizzo, un appuntamento! Qualcosa insomma!
“Mi farebbe piacere chiacchierare ancora con lei, sento che abbiamo molte cose da dirci. E poi devo sempre dimostrarle qualcosa, no? Posso lasciarle il mio biglietto da visita, Anaïs? ”
Possibile che le avesse letto nel pensiero?
“Ne sarei felice … sia di avere il suo biglietto sia di scoprire cosa vuole dimostrarmi e … mostrarmi”.
In uno slancio si scambiarono molto più dei biglietti da visita. Si confessarono l’inspiegabile fame di conoscersi. Quasi senza accorgersene si ritrovarono giù dal treno, mano nella mano. Anaïs sentiva crescere una febbre sconosciuta che le scorreva su per tutto il corpo, a partire da quel contatto di mani che segretamente parlavano tra loro e si promettevano piaceri inconfessabili. E guardando Henry le parve di veder montare dentro di lui un desiderio indecente che quasi la stordì.
“Ciao Anaïs, grazie!”
“Grazie a te Henry … Ciao!“
La mano di Anaïs sgusciò fuori a fatica dalla sua i due e si allontanarono ognuno per la propria strada, con la segreta certezza che presto si sarebbero rivisti. Rubando la propria immagine allo specchio di una vetrina Anaïs sorrise alla bambina che vedeva dentro a quel corpo di donna e si sentì grondante di sole. Annusando le dita che sapevano di lui, strinse con l’altra mano il biglietto da visita infilato in tasca e volò via, incurante dei passanti che, stralunati, si domandavano cos’avesse di strano il sole quel giorno.
Era una timida mattina di marzo di tre anni fa. Il sole non era quello di sempre, tingeva l’aria di primavera inoltrata e prometteva scintille senza fine. Da allora Anaïs e Henry vivono insieme. Lui le ha dimostrato che l’Amore vero esiste e le ha insegnato a coltivarlo con lentezza, gustandone ogni sfumatura. Lei lo ha contaminato con la sua selvatica passionalità, accendendo in lui fuochi sconosciuti. Insieme oggi scrivono libri e queste sono state le prime pagine del loro romanzo più importante, quello che racconta la loro storia d’amore e di passione. Non sorprendetevi, dunque, se all’ultima pagina non ci sarà la parola FINE, perché questa è una favola e loro… VIVRANNO PER SEMPRE FELICI E CONTENTI!