Il sorriso della dentiera
Nel paese dei miei suoceri, il mare c’era e non c’era; o meglio, era un’assenza che, a volte, miracolava in presenza.
Il borgo era posto sopra un’altura e in certi giorni, dalla balconata che circondava il castello, spingendo lo sguardo oltre gli uliveti che disegnavano tappeti di un verde argentato, i vigneti coperti da immensi teli bianchi come la neve e strisce dissodate di terra rossa, il mare appariva: una tavola dipinta di blu che si staccava da quel tricolore e, all’orizzonte, andava a maritarsi con il cielo di un azzurro evanescente.
I miei suoceri, migranti al nord da quella terra dolce e amara nello stesso tempo, raggiunta l’età della pensione avevano preso l’abitudine di tornarci: dalla primavera inoltrata alla fine dell’estate.
Toccava a noi, figli o generi, accompagnarli e poi tornare a riprenderli alla fine di quel periodo di villeggiatura.
Nonostante la lontananza, il viaggio di andata lo si faceva volentieri, perché dopo averli portati a destinazione, potevamo ritagliarci qualche giorno di mare.
Tutta un’altra storia quando si trattava di riportarli a casa; non era tanto il viaggio ad ammazzarci, piuttosto i preparativi che precedevano la ripartenza.
Si dice che partire è un po’ morire, ma nel nostro caso il ripartire era pure peggio.
Prima del lungo viaggio di ritorno, bisognava passare a salutare parenti e amici, praticamente mezzo paese.
A seguire il giro dei negozi, per le mozzarelle, il pecorino, i dolci di pasta di mandorla; poi al mercato, per le percocche, le olive, l’uva, le cime di rapa, le mandorle da seccare e farci il croccante quando viene Natale.
Infine le fave, che a mio suocero non è che piacessero molto, troppi piatti ne aveva mangiati negli anni della miseria, al punto che se gli chiedevi un parere su qualsiasi altra cosa stesse mangiando, lui rispondeva sempre: “Megghie di fèv!” (Meglio delle fave!)
Poteva poi mancare un giro in pescheria per le cozze tarantine e in macelleria per i torcinelli?
Al tutto andavano aggiunte le decine di boccacci che i miei suoceri, nel periodo lungo della loro permanenza al sud, riempivano di salsa, melanzane, carciofi zucchine, peperoni, lambascioni, questi ultimi amari come il veleno.
La sera che precedeva la ripartenza si caricava tutto in macchina; bisognava sfruttare tutto lo spazio disponibile e non solo quello del bagagliaio, che comunque non bastava, ma anche quello che, all’interno dell’abitacolo, non occupavano i nostri corpi.
Praticamente, conducente a parte, gli altri avevano intorno un airbag esploso fatto di scatole, borsette, sacchetti di plastica pieni di cibarie in quantità industriale, che sarebbero bastate per sfamare i Mille della Spedizione Garibaldina, almeno nel tratto che loro avevano fatto via mare e che in chilometri più o meno corrispondeva al nostro via terra.
Caricare il tutto, sotto la supervisione di mio suocero, era un lavoro infinitamente snervante: un continuo mettere, togliere rimettere, inframmentato da un rosario di sacramenti.
In aggiunta c’era tutto il guardaroba primavera/estate (dovevate proprio vedere mia suocera con due o tre giacche e cappottini addosso per recuperare spazio); poi ancora lo scatolone dei farmaci e infine, per non farci mancare niente, i grast, cioè alcune piante da vaso che quel pollice verde di mia suocera non voleva in alcun modo lasciare lì e che, comunque, erano quelle che soffrivano meno, ed erano ben felici di trascorrere un periodo di villeggiatura al nord.
Terminato il carico, dopo sei o sette ore di lavoro, passata un’altra oretta per chiudere l’acqua di casa, la bombola del gas, staccare la corrente, controllare se avevamo dimenticato qualcosa, assolvere gli ultimi bisogni fisiologici (che durante il viaggio non è che ci si potesse tanto fermare), potevamo comodamente incastrarci nell’abitacolo della macchina e, stanchi morti, finalmente partire.
Ricordo quello che accadde in una delle ultime ripartenze.
Ci eravamo da poco messi in viaggio e stavamo percorrendo la statale che scendeva verso il mare, improvvisamente un terribile dubbio s’insinuò nei pensieri di mia suocera, che di colpo volse lo sguardo verso il marito e parlò, si purtroppo parlò: “Tonì i tini i dint?” (Tonino hai preso le dentiere?)
Sudore freddo e panico generale.
Mio cognato frenò di colpo la vettura ai bordi della strada.
Scendemmo e cominciammo a svuotare la macchina alla ricerca delle dentiere, che alla fine trovammo “sorridenti” all’interno della borsetta degli spazzolini e dentifricio.
Dopo una scarica liberatoria di parole blasfeme e di frasi pronunciate in dialetto barese volgare, di cui io non capivo il significato, ma intuivo non essere frasi d’amore, finalmente ripartimmo.
“Mai più! Mai più un viaggio così!” dissi a mia moglie una volta tornato a casa.
Poi però ci furono altri viaggi; ma il sorriso di quelle dentiere non l’ho mai dimenticato.