Il tempo dei ricordi
Nel mio ampio tempo di vita, ho preso per la coda l’ottocento, nei suoi costumi, nel modo di vivere. La considerazione dell’oggetto comune in se, non è stata, nella mia prima infanzia, quella dei nostri tempi attuali. La sporificazione degli oggetti, il suo moltiplicarsi in maniera esponenziale, è iniziata, lentamente, nel dopoguerra, con l’introduzione di nuovi materiali industriali. La plastica ha proliferato l’oggetto singolo, tanto da far rispondere, pochi anni fa, ad un antropologo, alla domanda: ‐” Come identificherebbe questa nostra civiltà?” ‐ con una definizione quanto mai pertinente: ‐ “La civiltà degli oggetti” ‐. Ma è indubbio che la quantità abbia inflazionato il valore del singolo oggetto, che si da all’acquirente, in una vasta ed ampia gamma di modelli e di prezzi. Perché vi parlavo di ottocento, perché ho visto, nella mia infanzia, oggetti singoli, attesi nelle famiglie, ereditati, conservati con estrema e devota cura. Non dico che si attendesse la morte di un famigliare per catturarne il suo orologio, ma alla morte, quell’orologio diveniva terreno di dispute feroci. Le forbici da sarto di nonno Angelo, che fra l’altro era avvocato, non ho mai saputo da chi arrivassero. Furono oggetto di culto. Conservate da lui, al piano superiore di villa Adela, scendevano sul tavolo di marmo della cucina per l’annunciata operazione di “taglio” della stoffa, da parte di nonna Amina. Aperto l’astuccio di pelle nera, in un abbaglio di velluto azzurro, le forbici comparivano, a me bambino, nella loro sfavillante magnificenza. Più grandi delle normali forbici, avevano una forma allungata, quasi a somigliare a due lame di spada congiunte. Ma ciò che mi affascinava era quel suono, una nota sottile, quasi di violino, quando, nonna iniziava a tagliare la stoffa. Quel procedere scivolando delle lame, senza intoppi, per la magia del taglio netto, emettendo come un soffio, un ansimo di piacere. Il momento lo vedo nei suoi particolari. E’ una piccola sequenza indelebile, dopo decine di anni di vita. Nonna esce dal quadro, forse dalla camera. Non ne avverto la presenza. E’ il momento atteso, l’opportunità di trasgressione offerta. Prendo le grandi forbici con due mani, le passo sul lembo della stoffa e l’addento tra le due lame. Ora volo, zigzagando per il tavolo. Riecco quel suono, quel soffio di cui, ora regolo le modalità. Un piacere immenso, indelebile, tanto che le botte, che sopraggiunsero, non le ho memorizzate, che con un’assenza, un buio nella memoria. Ma so che arrivarono, senza cancellare il piacere di quell’attimo.