Il tornado e il ventaglio
Sedersi sulla panchina di Piazza Sanità è un lusso da medico in pensione. La vita da seduti è ben diversa. Ti accorgi del sole, del suo calore, di chi ti circonda. Dalla cantina cingalese arriva l'odore intenso del cumino a evidenziare i nuovi abitanti della Sanità. Salvatore Oliva prepara la pasta per le prime pizze del mezzogiorno. Lo vedo attraverso la vetrata. Il traffico è intenso, vario. Marianella si è venuta a sedere accanto a me. Ha posato la borsa della spesa.
‐ Marì, è da tempo che non ti vedevo.‐
– Sono stata da mia sorella, a Miami. ‐
– In questi giorni? Ti sei presa l'uragano‐
– Eccome, dottò! .‐
Il sole di mezzogiorno si fa sentire. Marianella ha preso dalla borsa un ventaglio e ha iniziato un lento ritmo della mano.
– Quanto è durato, Marì?‐
– Tre giorni, tre giorni d'inferno. Io sono claustrofobica e ho pensato di morire. Tutto chiuso. Finestre oscurate da tavole inchiodate all'esterno. Mancava la luce. Buio nero, buio. Quindi niente frigorifero, aria condizionata, telefono, tv, radio e possibilità di ricaricare il telefonino. Una vera tomba ‐
– Che vedevi? Che sentivi?
– Attraverso piccole fessure, vedevo dei rami sbattuti dal vento. Nient'altro. Un boato incessante. Una pressione esterna sulle strutture di cemento. Una vibrazione continua, che si trasmetteva a tutto, anche ai nostri corpi.
– Ma la sensazione più forte, qual'è stata?‐
– Il caldo. La mancanza di condizionatori e non poter aprire le finestre. Sarebbe esploso tutto. Chiusi in una bolla di calore, che aumentava via via. Il non poter avere informazioni dall'esterno è un'esperienza tremenda. Quando sarebbe finito? ‐
– Che cosa ti ha aiutato? Quale pensiero?‐
– Vedete questo ventaglio? E' stato lui a salvarmi dal soffocare. Mi ha aiutato, per tutti e tre giorni. Mi ha salvato la vita.