Il vino di Scilla
Il vino di Scilla
(Parlarsi)
Calabria, Costa viola,1930.
Sulla Piana, l’ultima stella mattutina dava barlume di sé in mezzo al cielo in cui troneggiava, ormai pallida, una luna tonda d’allegria dopo una notte di scialo.
Cenzo Prestileo, oste dell’antica cantina del Cirello, era già per tempo sulla strada del Ponte vecchio, verso Palmi. Lo attendeva una lunga giornata di caldo ed afa. Lo attendeva l’impervia strada di Bagnara che l’avrebbe portato a Scilla dove stavano i migliori vigneti della zona con vitigni che producevano vini dei quali la sua cantina andava famosa e fiera in tutta la Piana, fino a Nicotera ed oltre. Il giovane puledro, che aveva attaccato al calesse, rispondeva bene all’impervia salita di Sant’Elia, permettendosi perfino un leggerlo trotto che Cenzo allentava per paura che l’animale si potesse stancare troppo.
Il mare, viola scurissimo, si stendeva alla sua destra. Dall’alto di Sant’Elia, dovendo discendere verso Bagnara, la punta estrema della Sicilia si presentava fatata, distesa in quell’azzurro saturo della notte appena rivolta all’alba.
Attorno alla strada, voluta dai Borbone e mai ultimata, stavano lussureggianti boschi e terreni seminati e maggesi e viti a perdita d’occhio. Già prima di Bagnara, i vigneti contornavano tutta la montagna, degradando dalle cime più impervie fino a lambire gli scogli a contatto col mare.
Il primo appuntamento di Cenzo era a Favazzina, presso la vigna di Tano Abbagnale.
Era, questa, una delle più impervie vigne mai costruite dall’uomo, con armacere da fare spavento e scale di pietra per salirvi che rasentavano la pazzia costruttiva piuttosto che la ragione dell’utile. Ma l’uva era esposta bene e i tralci ben curati e staccati. Esposta in maniera tale da prendere il sole dall’alba al tramonto. Molto zuccherina, quindi. Malvasia e zibibbo. Cenzo aveva già le botti adatte alla bisogna. Si mise d’accordo sul prezzo. Lo stesso di sempre, da anni. Le stesse modalità di raccolta. Lo stesso criterio di trasporto. I giorni della vendemmia da stabilire.
«Permettete un bicchiere di vino?».
«No, grazie non bevo a stomaco vuoto».
«Per questo non vi dovete dare pena. Tara!», si mi a sbraitare il contadino «caccia ‘na pezza di formaggio e un poco di luppini».
Ora, offrire del vino a un oste, era come parlare del pescespada all’equipaggio del luntro che lo cacciava. Aggiungervi dei lupini, come fanno gli osti per far consumare più vino, rappresentava una totale mancanza di tatto da parte del contadino. Ma Cenzo lo conosceva a stava al gioco. Quando Tara prese forma in una vecchia stralunata e sciancata d’una gamba che portava, avvolte nel grembiule, le richieste di Tano, Cenzo tagliò un poco di formaggio, prese un poco di pane e bevve quel tossico che Tano gli amministrò per vino.
«Com’è?», chiese Tano con orgoglio.
«Forte», soffocò Cenzo in una smorfia di disgusto appena raffrenata per non offendere l’ospitalità di Tano.
«Forte, eh? Certo con tutto ‘sto sole!».
Cenzo salì sul calesse e salutò sempre più convinto che se avesse ammannito quella bomba alcolica disgustosa ai suoi clienti, nessuno avrebbe più consumato nulla dopo il primo sorso e nessuno sarebbe più tornato nella sua cantina. Tano era un ottimo contadino e produceva dell’ottima uva «ma fare il vino è un’altra cosa».
Ripreso il cammino raggiunse le prime case di Scilla col sole ormai brillante, che picchiava sulla sua schiena con i denti acuminati. Arrivò accanto alla chiesa dell’Immacolata e subito prese la curva che conduceva verso la Marina, col macigno dell’antico castello alla sua destra. Oltrepassò la Marina. In spiaggia, lunghissime pezze di tela venivano governate da giovani fanciulle e più attempate donne che si richiamavano ora da Monacina ora da Sutt’o chianu. Passò oltre e si diresse veloce verso Pacì, alla vigna di ‘Ntoni Bellantoni. In questo costone montuoso, posto a precipizio sul mare, si produceva l’uva più pregiata e Cenzo l’aveva acquistata tutta. L’affare, contrastato dalla moglie per via dell’investimento troppo rischioso, fu appoggiato dai figli, i quali stravedevano per quell’uva, ma soprattutto per quella vendemmia e ancora di più per l’ottimo pesce che fungeva da protagonista nelle lunghe cene dopo il lavoro giornaliero e soprattutto nella cena di fine vendemmia, dove i migliori manicaretti di Scilla venivano offerti a chianoti acquirenti di tutta l’uva.
E sembrava fossero solo le abilità culinarie di donna Teresa, la moglie di ‘Ntoni, che avevano portato tutt’e quattro i figli di Cenzo a fare voti per la vendemmia di Pacì mentre fuggivano come la peste sia la vendemmia di Favazzina sia, peggio ancora, quella di Jeracari.
C’era un’altra ragione che aveva portato Cenzo fin lì. Roberto, il minore dei suoi figli, gli aveva rivelato che a Jacopo, il primogenito, piaceva «assai, assai» Eleonora, la figlia di Bellantoni. Era lei che, durante la grande cena di fine vendemmia, serviva ai tavoli. Era lei che gestiva accortamente il taglio dei grappoli alla vigna grande di Pacì. Jacopo gliene aveva accennato fuggevolmente, come a cavarsi un dente, quando uno dei fratelli aveva sghignazzato non so che cosa durante l’inverno. A Jacopo non sembrava vero che arrivasse l’estate e sul finire di questa, come a sollevare l’ambascia della sua anima sempre in pena, la vendemmia a Pacì. Per farsi porgere il cesto da Eleonora e poi farsi riempire il bicchiere di vino e farsi portare il boccale dell’acqua e la pezza di formaggio e…
Cenzo era lì soprattutto per vedere Eleonora. L’uva, la vendemmia, Pacì erano cose sicure, sapute, ovvie. Ma senza dare nell’occhio avrebbe voluto vedere questa quint’essenza di bellezza e garbo che aveva stregato quel taciturno misantropo di suo figlio.
I
Mentre Cenzo attraversava il Ponte vecchio con suo calesse, a Scilla, in casa di ‘Ntoni Bellantoni sobbolliva la cuccuma del caffè. Eleonora, sveglia fin dalle prima luci dell’alba ravvivava la fiamma del fornello. Sua madre, comare Jangiula, stava seduta davanti all’uscio di casa.
«Oggi viene compare Cenzo, il cantiniere del Cirello», disse il padre alle due donne «per scegliersi l’uva».
«Speriamo se la prenda tutta come gli anni passati», sospirò Jangiula, passando una tazza col caffè‐latte a suo marito «così non dobbiamo faticare a spartire di qua e di là. Se la prende lui e buonanotte».
Eleonora fece finta di niente. In teoria, non ricordava nemmeno chi fosse questo Cenzo oste del Cirello: ne transitavano tanti a Scilla, per l’uva delle loro vigne! Figurarsi se li poteva tenere tutti a mente. Nella pratica e nella sostanza, quel nome la riportava direttamente a Jacopo, quel bel ragazzone timido, che le aveva marchiato il cuore ormai da due anni e che non riusciva a guardarla negli occhi nemmeno per sbaglio e di straforo.
Da due anni lei non aspettava che quei quattro‐cinque giorni di vendemmia, per vederselo lì accanto, per saperlo nella sua vigna, per guardarlo tutte le volte che ne aveva voglia, per sentirlo vicino al suo cuore, per sognarlo mano nella mano, per tentarlo con un bacio appassionato.
A questo pensiero le guance di Eleonora divennero rosse come le braci del fornello e la madre, che sospettava da tempo il sentimento della figlia, la squadrò attenta e sorniona.
Puntualmente, le parole «cantiniere del Cirello» si tradussero in un guizzo di luce negli occhi della ragazza e in una forza motrice sproporzionata tale che Eleonora arrivò per prima alla vigna, distanziando i suoi di buoni tre quarti d’ora. La ragazza salì nel punto più alto, dove si dominava tutta Scilla e lì attese, nel silenzio interrotto dalla brezza del mare, l’arrivo del calesse.
Quando i genitori arrivarono alla vigna, rimasero a livello della strada, per attendere compare Cenzo e non farlo aspettare.
«Quella se n’è salita lassù», disse il padre con disappunto, «poi bisognerà chiamarla per farla scendere», chiuse ‘Ntoni iniziando a capire l’antifona.
«Scenderà, scenderà», disse la madre, mentre guardava Eleonora staccarsi il collo, lassù all’ultima armacera, in cima al cielo, per vedere se le riusciva di scorgere il calesse di Cenzo Prestileo.
La speranza remota, che faceva ribollire Eleonora, stava nella lusinga della presenza di Jacopo accanto al padre, sul calesse. Ma la sagoma del carrozzino, con il puledro al trotto, che si delineò subito dopo Monacina, ritagliava inequivocabilmente una singola figura.
Che nel calesse ci fosse solo l’oste lo capì anche Jangiula, quando vide scendere mestamente la figlia dall’ultima armacera e giungere al cancello, nello stesso momento in cui il nitrito del puledro risuonò in quel tratto di costa calabra.
II
Jacopo aveva atteso il padre con un malcelato cruccio.
Al ritorno, verso sera, dopo aver sistemato il cavallo nella stalla e accomodata l’uva regalata da ‘Ntoni (e i pesci e i pomodori, e ogni grazia di Dio che si produceva in quella vigna) Jacopo riuscì a sedersi a tavola mentre sua madre amministrava la cena.
A testa bassa e sogguardando ora a destra ora sinistra, Jacopo stava ad ascoltare le vicende della giornata paterna. Sorrise alla qualità del vino del contadino di Favazzina. Si adombrò sulla possibile vendemmia a Jeracari, ammutolì definitivamente quando Cenzo si mise a descrivere l’accoglienza di donna Jangiula e ‘Ntoni Bellantoni, la visita che, come tutti gli anni, facevano fare all’acquirente delle uve. Comunicò alla famiglia di averle acquistate tutte lui e che la vendemmia si sarebbe protratta, quell’anno, per almeno una settimana.
Mentre il padre parlava, gli altri fratelli intervenivano chiedendo della qualità dei vitigni, della funzionalità delle piazzuole dei vigneti (per l’agio dei vendemmiatori), della bontà delle scale delle armacere, confortati nella conferma d’una realtà che conoscevano bene.
Solo Jacopo stava zitto, certo conoscendo bene anch’egli tutti i luoghi descritti e tutte le caratteristiche orografiche del terreno. Poi, il discorso cadde su Eleonora.
«Vedessi che ragazza a modo che è la figlia maggiore di ‘Ntoni», disse il padre, quasi sovra pensiero, mescendo del vino a tutti.
«Davvero?», rispose la moglie, sogguardando sottecchi Jacopo.
«Davvero!», continuò il padre intessendo lodi e lodi alla bontà dei modi, alla delicatezza degli atteggiamenti, alla modestia del portamento, alla bellezza schietta della ragazza.
Jacopo diventava di tutti i colori dell’arcobaleno e sia la madre, sia i fratelli decisero di non suscitare altro imbarazzo in quell’orso impunito che era.
Il padre fingeva di essere centomila miglia lontano dal problema, continuando per tutta la serata a tessere lodi della ragazza, della giornata, di Scilla, del mare, della bontà dei vitigni, della forza del giovane puledro e tutta una serie di facezie. Ogni tanto, con la coda dell’occhio, sogguardava il figlio maggiore per constatare l’effetto di tutte quelle sue esternazioni. Solo il nome della ragazza lo scuoteva sensibilmente, come una canna di fiumara al vento d’inverno, il resto lo lasciava indifferente.
Padre e madre, gettata l’esca in quella serata, attesero pazientemente che il tempo lavorasse come lievito da pane e che i due giovani potessero intendersi come era nello stato naturale delle cose. Agevolando l’intesa e non volendo forzare la mano più di tanto.
III
«Pesce spada o Alalonga?», chiese ‘Ntoni alla moglie dovendo badare per tempo alla cena di fine vendemmia visto che il tempo correva veloce e settembre era già arrivato, ché ancora pensava di essere in agosto quando venne Cenzo, dal Cirello.
«Alalonga, ché il pesce spada adesso non è più buono. Se no, che figura ci facciamo?».
Anche a Jangiula non pareva vero che iniziasse quella settimana di vendemmia. Non volevano, per carità, forzare la mano al destino ma soltanto metterlo sul sentiero di quella figlia ormai di 25 anni e ancora senza idea di un marito ma persa dietro la figura di Jacopo che vedeva una volta l’anno come fosse il Bambino Gesù. E Jacopo propriamente bambino non era. Aveva due spalle larghe come il cancello d’entrata della vigna e le mani grandi come pale da mulino.
Ma di due non ne facevano uno. Mai nessuno dei due aveva ancora detto niente al padre o alla madre della loro, come dire? «Simpatia». Rimanevano fermi. Muti. Immobili nella loro timidezza ed indeterminazione con la paura di un rifiuto o di sapere che il cuore dell’una o dell’altro fosse occupato.
Per contro, finalmente avrebbero visto Eleonora sorridere, correre felice, svegliarsi presto al mattino e volare alla vigna per fare un poco di caffè ai lavoranti che avevano dormito nella casetta di legno. E portare l’acqua fresca nella brocca. E raccogliere due grappoli ciascuno per la merenda. E mescere un po’ di vino a fine giornata. E servire la cena sotto il pergolato. E bearsi che tra i vendemmiatori c’erano pure i figli di Cenzo. Jacopo, soprattutto.
(Parlarsi)
Quell’alba spuntava appena. Jacopo, montato in sella al puledro, correva furente come il maestrale. La fresca bruma del mattino sembrava sollecitare lo scatto giovanile del cavallo e del cavaliere. L’uno e l’altro all’unisono verso un luogo magico, dominato da un grande castello e soggiogato da una bella castellana. Aveva atteso troppo a lungo. Adesso, risoluto, abbracciato il coraggio come si abbraccia la morte, avrebbe parlato con Eleonora. Le avrebbe rivelato quante volte era corso alla fiumara del Petrace e da quella foce e dalle alture vicine avesse guardato verso Scilla con la sensazione di vederla là, sulla spiaggia, con la lunga gonna al vento mentre pure lei, Eleonora, pretendeva di parlare al mare e sognava le sue parole d’amore sulla spuma dell’onda quale rugiada mattutina sul cammino di Jacopo. Il vento stesso, tra le alture di Sant’Elia, parlava d’un sentimento poderoso che gridava forte e correva veloce. Quella stessa folata di vento che soccorse l’angoscia di Eleonora, già vigile sulla punta più alta dell’erta, dandole novella d’una lieta, gioiosa esultanza.