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Venere. Così la chiamavano. Non amava questo appellativo. Riteneva che un nome così imponente avrebbe destato troppe attenzioni. Ma, a onor del vero, non ci sarebbe immagine migliore della dea immortale per esprimere tutta la sua bellezza. Una fredda calcolatrice, la migliore nel suo campo, capace di sedurre qualsiasi uomo e… bellissima. Non aveva amici, nel vero senso della parola, solo colleghi e "committenti". Alla scuola del padre aveva imparato il mestiere e sulla piazza non c'era individuo più efficace ed efficiente di lei. Ma allora Jennifer ‐ in arte la Venere ‐ di cosa si occupava? qual era il suo lavoro? era una ladra, ma non una qualsiasi. In sostanza operava su un mercato globale (ovviamente in nero). Il suo compito era preciso: rubava opere d'arte e in cambio riceveva un "modesto" compenso (come lo definiva lei). Grazie ai molti sistemi telematici, non aveva mai un contatto fisico (anche in senso lato) con i suoi clienti: troppo rischioso. I tanti mecenati che usufruivano dei suoi servizi si limitavano a versare il "compenso" spacchettato su vari c/c tra Singapore, Zurigo ed altri paradisi fiscali. Di tutto il resto si occupava lei. Aveva deciso che, raggiunti i 3 milioni di sterline sarebbe andata in pensione. Era giugno ed ebbe un contatto da Napoli, no… forse da Milano, no forse da Francoforte. Il suo computer non riusciva a intercettare il segnale criptato. Il messaggio espressamente diceva: "O mia Venere, l'eterna Città ti attende". Era la prima volta che un committente le ordinò qualcosa. Jennifer era infuriata e, allo stesso tempo, affascinata. Le regole erano sempre state chiare per tutti, eppure Firelord (il committente) le aveva violate. Jennifer andò e fu la prima volta che commise un'ingenuità. Perché lo fece? Neanche lei lo capì. A Fiumicino Jennifer fu accolta da cinque uomini in nero i quali ‐ con molto garbo ‐ la invitarono a seguirli. La bella californiana non esitò: in ogni momento si sarebbe potuta dileguare senza che nessuno di quegli omoni se ne fosse accorto. In poco meno di un'ora, Jennifer si trovava in una delle più belle ville dei Castelli. Aspettava circospetta, seduta su un divano quando una voce: "Oh, ecco la famosa Jennifer!Ho sentito molto parlare di lei". Jennifer era sconvolta e spaventata. Come faceva a sapere il suo nome? Per tutti i governi del pianeta Jennifer Millian era ufficialmente morta e gli stessi servizi segreti ignoravano la sua esistenza. La domanda di Jennifer fu: "chi è lei? come fa a sapere il mio nome? cosa vuole da me?". La Venere si accorse di aver fatto troppe domande e allora in silenzio aspettò almeno una delle risposte. Roberto ‐ questo pareva fosse il suo nome ‐ non rispose e le porse un Martini. Dopo qualche sorso disse: "La sua stanza è al terzo piano. Si rinfreschi; nell'armadio dovrebbe esserci qualcosa che sia idoneo alla sua bellezza. Stasera si esce!". Roberto si mise al telefono e non la degnò più di uno sguardo. Jennifer non capiva più nulla e, attonita, andò in camera. Sentiva la necessità di rimanere un po' sola, voleva riprendere il controllo. Si sentiva scoperta! Non aveva mai accettato ordini da nessuno, tanto meno da un uomo. Eppure non riusciva a dire no, era stregata da questo Roberto. Ma chi era? Pensò che a cena, usando l'arte della seduzione avrebbe scoperto qualcosa. Aprì l'armadio e scelse un Armani nero. Lo indossò e scese dal padrone di casa. Era bellissima! I capelli le pendevano sulle spalle, i suoi occhi emanavano una luce folgorante: in quel vestito regnava un'immensa sensualità. Roberto la spogliò con gli occhi, ma non apparve volgare. Con voce sommessa le disse: "Dammi un attimo". Qualche minuto e tornò con uno smoking appena cucito. Quell'italiano non era bello, ma pieno di fascino e Jennifer, questo fascino, l'aveva percepito tutto. A cena Jennifer non riuscì a scoprire nulla. Questo non era da lei: si era innamorata! La serata fu molto gradevole: un ristorante molto "in" a Trastevere, una passeggiata al centro storico e… una forte passione. Stettero a letto per tre giorni; nessuno dei due avrebbe voluto tornare alla vita di tutti i giorni. Mah, forse si amavano anche, lei di certo lo amò. Era cambiata, finalmente si sentiva viva, questa volta non aveva calcolato alcun compenso. Dopo qualche giorno di puro relax Roberto disse: "Vorrai sapere perché ti ho fatta venire fin qui?". Jennifer avrebbe voluto piangere. Lui continuò : "Ho bisogno di te… un'opera che nessuno è in grado di portarmi, che solo tu puoi ottenere". E lei: "cCredevo che tra noi ci fosse stato qualcosa di più di un fottuto rapporto professionale" ‐ e Roberto: ‐ "Ed è così! un dipinto così lo voglio condividere solo con te. La sua unicità sarà tua, così come io sarò tuo!". Jennifer, del tutto rincuorata, chiese di cosa si trattava e l'italiano rispose che l'opera era la Maya vestida di Goya, uno dei principali quadri esposti al Prado di Madrid. La reazione di Jennifer fu istantanea: "Impossibile! E' uno dei quadri più sorvegliati del pianeta. Non si muoverà da là". E lui: "Pensavo che nulla ti fosse impossibile. Sei o non sei la Venere?". Jennifer rimase pensierosa per qualche attimo e poi esclamò: "Dammi una settimana!". In fretta e furia la Venere salutò il suo amante e partì. Dopo qualche ora, incuriosita da qualcosa chiamò Roberto e gli disse: "Non mi sembri certo un moralista. Perché proprio la Maya vestida e non la Maya desnuda? Ho letto che la desnuda è il simbolo della passione, della trasgressione, di tutto ciò che avresti sempre voluto fare e non hai mai fatto". Roberto rispose: "Io ho sempre fatto ciò che volevo e ricorda, non pensare a un'immagine come se nulla celasse: nulla è come sembra". Sul momento Jennifer non capì quelle parole e, in ogni caso, non ci diede peso. Lei era sempre più innamorata. Per la prima volta nella sua vita era riuscita a volare, credeva che il rapporto tra lei e Roberto fosse stato come quello di una coppia di nibbi reali. Per la prima volta aveva osato. Sua madre le diceva sempre: "Se non hai osato, non hai vissuto". E mai come adesso considerava sacrosante le sue parole. Arrivò a Madrid nel pomeriggio e si stabilì in un alberghetto poco lontano dalla Plaza de Cibeles, a pochi passi dal Prado. In qualche giorno studiò ogni minimo particolare, ogni sistema di allarme, ogni guardia (e di loro ogni abitudine, pregio, difetto). Inutile dirlo, sul suo lavoro era una perfezionista. Era il 15 di agosto e tutti i madrileni erano nelle vicinanze della Plaza de Toros, nella speranza di accaparrarsi un biglietto per la corrida. Le strade intorno al museo erano deserte. Il piano che aveva architettato la Venere era semplice e perfetto. Alle 15, il comando dei vigili del fuoco ricevette una telefonata "anonima" che li avvertiva di un incendio nel museo. La Venere, nella notte precedente aveva opportunamente sistemato dei sofisticati dispositivi nel magazzino dell'impresa di pulizie del museo, locale sprovvisto di allarme. Tali dispositivi, attivati in un secondo momento con un radiocomando avrebbero riempito il museo di fumo. E così fu. Alle 14,55 del 15 agosto il Prado "sembrava" in fiamme. Erano scattati tutti gli allarmi e in una folla di bomberos la Venere ‐ rapidissima ‐ si intrufolò nell'edificio e in pochi attimi era già di fronte ai ritratti più famosi di Spagna. Con la mano di un chirurgo tagliò la tela a la infilò in una pompa, proprio come quella dei pompieri. In pochi minuti era già lontana dal museo. Ora il problema era un altro, fuggire. Un aereo, un treno non sarebbero stati sicuri, allora decise per l'autostop. Con 11 ore di viaggio raggiunse Valencia a bordo di un container. Al porto di Valencia, in poche ore adescò un marinaio, il quale la imbarcò clandestinamente su una nave merci. Con la sua innata capacità di manipolare gli uomini durante tutto il viaggio tenne sotto scacco Juan (il marinaio) e i suoi compagni, senza concedersi mai. Arrivati a Napoli, Juan non fece a tempo a rivolgerle la parola che Jennifer era già sparita. In una villa nei pressi di Sorrento la aspettava Roberto e appena si videro l'uno si avvinghiò all'altra, incuranti di occhi indiscreti. Il quadro era lì, ancora in quel tubo, abbandonato su di una scrivania. Jennifer, allora, disse: "Che fai, non lo vuoi vedere il nostro quadro?". Allora Roberto estrasse la tela e la distese su un tavolo. Da un cassetto tirò fuori un acido e, imbevuto un tampone, lo posò sul dipinto. Jennifer, incredula, gli diede uno schiaffo e pretese spiegazioni. Tutta quella fatica per nulla? Ma non ebbe il tempo di terminare la sua invettiva quando, sotto il tampone intravide qualcosa. Roberto continuò il suo lavoro e, dopo qualche minuto, sotto quella Maya, ve ne era un'altra, non vestida ma desnuda, questa molto più bella di quella che ancora era al Prado. Jennifer non credeva ai suoi occhi. Entrambi la guardarono esterrefatti. Roberto abbracciò Jennifer e dopo che le sue labbra dolcemente si staccarono dalle sue le disse: "Ricorda, nulla è come sembra!". A tal punto un rumore sordo, che fu appena percepito dai gorilla che attendevano in giardino. Jennifer cadde al suolo agonizzante. Il suo amante, il fascinoso Roberto che tanto l'aveva illusa si stava liberando di lei, da assassino qual era. La ferita era vicina al cuore e la Venere sapeva benissimo che pochi attimi la separavano dalla morte. Il dolore era insopportabile, ma a provocarlo non era la ferita, ma il tradimento, la falsità di quell'essere che, pochi attimi prima, avrebbe definito il suo unico, vero amante . Per la prima volta credeva di aver avuto la felicità, di aver amato e di essere stata amata. Tutto era crollato. Con la voce spezzata e un attimo prima di morire: "Maledetto il giorno che ci ha unito, perché da quel giorno ho creduto di amarti… non mi dispiace morire… e… forse non sto morendo… perché non ho mai vissuto".