In breve
Quando è morto mio fratello, stavo combattendo da sette anni per risalire anch'io la china.
"Depressione reattiva", aveva finalmente individuato il dottor P.V. solo sette mesi prima, a giugno 2017, dopo avermi ascoltato per tre ore, al termine del suo orario di servizio, invece dei canonici cinquanta minuti.
'Depressione reattiva', per situazioni condominiali, familiari e personali.
Per aggressioni condominiali, familiari e alla salute da parte di medici che prendono lucciole per lanterne, potrei precisare.
Ora che ci penso, avevo capito fin dall'inizio che alla base del mio stato c'erano gli attacchi familiari e condominiali.
A cavallo tra il 2010 e il 2011, due eventi che sarebbero importanti nella vita di qualsiasi persona, maternità inaspettata e diagnosi di malattia, erano arrivati a far tracimare un vaso già vicino all'orlo.
Lo avevo capito. Un sabato pomeriggio di giugno 2011 telefonai a mio padre e gli urlai: "Ce l'hanno fatta ad uccidermi!".
Perché a mio padre. Perché i parenti che ce l'avevano fatta (e i loro amici) erano suoi parenti coi quali era stato troppo indulgente e generoso. Solo a fine estate 2008 aveva realizzato a quale infimo livello potesse arrivare il germano che aveva beneficato e gli aveva scritto; "Né tu né nessuno della tua famiglia osasse più presentarsi davanti la porta di casa mia."
Ce l’hanno fatta ad uccidermi. E proprio il sabato precedente una degli amici di mio zio aveva provato fattivamente ad uccidermi. Sempre indirettamente, come sempre. Con l’omissione.
Ero svenuta di fronte a lei per quello che sembrava un attacco di cuore, come realizzai quando rinvenni. Ero seduta ad una sedia appoggiata al muro, quando ero svenuta e così non caddi. Quando rinvenni, con la testa reclinata all’indietro sorretta dal muro, la mano sinistra sul cuore e la bocca aperta per respirare, non vidi più la signora in piedi di fronte a me. Prima che svenissi, la signora era in piedi davanti a me e mi stava arringando.
Girai la testa verso sinistra e la vidi seduta su un divanetto, mentre dava mostra di sfogliare intenta una rivista che aveva preso dal tavolinetto di fronte al divano, mentre, in realtà, lanciava occhiate giulive e speranzose verso di me, monitorando l’evolvere del mio malore. Mi alzai e, senza degnarla di uno sguardo, le passai davanti e uscii dalla stanza.
Eravamo nella sala d’attesa della locale stazione di polizia dei Carabinieri, dove eravamo state convocate, insieme ad un altro vicino, perché ‐ avrei appreso seduta davanti al maresciallo ‐ il germano di mio padre aveva denunciato il precedente amministratore, un amministratore professionista. Evidentemente si tratta di un’abitudine di mio zio. Aveva denunciato anche mio marito, amministratore interno, perché voleva €58 da mio marito.
In seguito, avrebbe denunciato anche il successivo amministratore.
L’unico che non era stato convocato era mio cugino, il cugino “grande”, e nipote anche lui di nostro zio Furio. Nomen omen.
L’amministratore professionista denunciato era stato presentato da mio cugino Poldo: era l’amministratore del condominio dove, fino a dieci anni prima, Poldo viveva col padre; aveva affermato che suo padre e lui lo stimavano ed erano diventati amici. Ora mi chiedo: con quale faccia mio cugino Poldo e la sua famiglia hanno continuato a guardare in faccia l’amico stimato e denunciato e con quale stomaco ha continuato a tenere bordone allo zio Furio?
La faccia e lo stomaco dell'interesse.
Per quanto riguarda il mio malore, ho rassicurato più volte la signora che con tanta solerzia chiamò soccorso: non era infarto, bensì ernia iatale. Lo capii cinque mesi dopo, ascoltando il primario di gastroenterologia dell’ospedale Giuseppe Moscati di Avellino. C’è un episodio simile nel film “La guerra dei Roses”, con Michael Douglas e Kathleen Turner.
Tornando all’incontro col dottore P.V. nel giugno del 2017, lo stesso, diagnosticando ‘depressione reattiva’ dovuta a situazioni condominiali, familiari e personali, osservò anche: “Secondo me, a questo Furio Landri avete dato troppa importanza”.
Ovviamente, a giugno 2017, come facevo da cinque anni e quattro mesi, mi guardai bene dall'assumere i farmaci suggeriti.
Con un’unica eccezione.
A ottobre 2012, dopo quasi due anni che non dormivo ‐ perché quello era il sintomo più evidente: non riuscivo a dormire ‐ divisi in quattro parti una delle pillole che mi aveva suggerito un altro dottore che, a febbraio 2012, dopo avermi ascoltato per sei secondi, se ne era uscito con una diagnosi fantasiosa, e cominciai a provare a prenderne un quarto prima di dormire. Funzionò: ripresi a dormire.
Il dottore definì la dose che prendevo "la dose pediatrica", ad ogni modo concluse: "Comunque vedo che sta meglio: continui così".
Certo che stavo meglio: dormivo!
Avevo continuato ad andare ogni tanto da quel dottore ‐ il quale mi era stato suggerito da una collega che attestava che era stato l’unico a capire cosa avesse suo marito ‐ fino a giugno 2017, poi andai dal dottore P.V. Lo avevo trovato su Internet, cercando insieme ad un’altra collega.
I miei straordinari, eccezionali colleghi che non mi hanno mai abbandonato.
Anche il mio capo, a marzo 2016, quando gli andai a parlare esprimendo il mio rammarico per la consapevolezza di non essere più efficiente come in passato, replicò, stupito: “Lila, io ti ho sempre conosciuto come elemento estremamente affidabile”. Un mese o un paio di mesi dopo, andai a confessargli che mi capitava di perdere la concentrazione pensando alle conseguenze della prepotenza di mio fratello maggiore. Senza turbarsi, replicò immediatamente: “Lila, fai una cosa: per non perdere la concentrazione, quando fai un lavoro, ogni due ore, racconta ad un collega quello che hai fatto”. Questi sono capi degni del nome di Capo.
Quando riferii al dottor P.V. la diagnosi che cinque anni prima mi aveva fatto il suo collega (dopo avermi ascoltato per sei secondi), commentò: “Quello appioppia questa diagnosi a piene mani”.
Quando morì mio fratello ero ancora dipendente della dose pediatrica di quella pillola per poter dormire.
Ogni tanto provavo a liberarmene, ma tornavo a non dormire.
La sera prima del giorno in cui mio fratello morì, in TV davano "Via col vento". Vidi i primi tre quarti del film con mia figlia piccola.
Guardando l'energia di Rossella O' Hara, pensai: "Io ero così".
Spenta la TV, spenta la luce, prima di addormentarmi, pensai: "Ha ragione mio fratello: se si deve vivere così, meglio morire".
Il giorno dopo, alle 18:30, mio fratello non c'era più.
Quando, il giorno dopo del giorno dopo, verso le 16:30, ricominciai a connettere, la prima cosa che pensai: “Ora bisogna vendere quella casa, prima che uccida qualcun altro.” L’appartamento nella palazzina di famiglia dove ero nata e dove ero stata bambina, nei cui spazi comuni – scale, scantinato, cortile, giardino – avevo giocato con i cugini, che mi ero intestardita a preservare dall’avidità senza limiti del germano di mio padre e dei suoi amici ‘parvenue’.
“È COLPA MIA!”, avevo urlato per telefono alla fidanzata di mio fratello, la notte di due giorni prima, “È TUTTA COLPA MIA!”
È colpa mia.
Perché, quando ‐ realizzando l’avidità degli avvoltoi intorno a mio padre, l’ultimo il mio compagno di università che aveva acquistato l’appartamento di mia zia, e temendo che mio padre vendesse il suo appartamento per £59000000, nel caso io non fossi andata a vivere lì, come minacciava da tre mesi, invece dei 100 o anche 120 per cui avrebbe potuto venderla – avevo convocato i miei fratelli e avevo chiesto se per loro andasse bene. Avevo realizzato che a mio fratello minore la cosa non andasse bene, sebbene non si esprimesse e avrei dovuto dire a mio padre: “Papà, non si può fare: ad Al questa soluzione non sta bene”. All'epoca non sapevo che mio fratello già stesse vivendo un profondo disagio, ma, indipendentemente da ciò, non avrei dovuto causargli una contrarietà.
È colpa mia.
Reso di nuovo abitabile quell’appartamento abbandonato da vent’anni, mi era rimasto qualcosa di soldi e dissi a mio marito: “Voglio comprare un bilocale per mio fratello”. “È stupido fare un mutuo per una casa dove non devi andare ad abitare: io non ti aiuto.” Perché non risposi: “Non ci vado ad abitare io, ma ci va ad abitare mio fratello”? Perché, sebbene non lo avessi ancora capito, quel tizio era riuscito a riportarmi dove mi avevano condotto mio padre e le sue cognate psicopatiche: che io ero scema, non capivo niente e dovevo seguire il giudizio degli altri.
Aiuto? Mica volevo soldi. Mi aspettavo che mi aiutasse a cercare e se la vedesse lui per i documenti e i controlli nella compravendita. In questo era bravo. Stando fuori casa dalle nove alle undici ore da lunedì a venerdì, non è che avessi modo di cercare.
Avrei potuto telefonare direttamente negli uffici di un costruttore, il cui numero era esposto in grande su uno dei suoi palazzi e si vedeva dalla variante alla Statale 18. L’obiezione a questa soluzione era: “Con tutti i soldi che quello deve a mio padre, vado io a portargli soldi?” Non sia mai. D’altronde, per lo stesso motivo, non avevo visionato, quattro anni prima, appartamenti per me in un altro dei suoi palazzi vicino al fiume, dove vivevano già dei miei amici con i quali sarei stata molto bene.
Perché volevo comprare un bilocale per mio fratello?
- Perché ritenevo che, affidandomi la casa di famiglia, mio padre avesse designato me, supportata da mio marito che rappresentava il figlio ingegnere che mio padre non aveva avuto, quale suo erede morale nel prendersi cura della famiglia;
- perché comunque, andando nella casa di famiglia, pur avendo dovuto spendere quanto avevo preventivato come base per un mutuo per l’acquisto di un quadrilocale (ma mio marito non avrebbe cacciato soldi? a questo non pensavo?), mi ero risparmiata il mutuo e mi sembrava giusto ‘riparare’ ‐ nell’ottica del punto 1 ‐ comprando un bilocale da dare in comodato d’uso a mio fratello;
- perché vedevamo da un po’ di tempo che mio fratello stesse vivendo un disagio, sebbene non ne avessi capito la natura, e pensavo che un giovane come lui non dovesse vivere con dei genitori anziani oppressivi.
È colpa mia.
Quello che avvertivamo come un disagio di mio fratello era stata diagnosticata come ‘schizofrenia’. Pur non credendo a quella diagnosi (avevo sempre pensato che ‘schizofrenia’ fosse un termine utilizzato dagli psichiatri quando non ci capivano niente), mi ero accorta quattro mesi prima che il disagio di mio fratello richiedesse l’intervento di uno specialista. Dopo due anni da quella diagnosi, la fortuna (o Dio) mi fa imbattere in una specialista che curava riportando ordine nei pensieri con la logica delle parole ed esigendo risposte chiare, dirette, invece che evasive e fumose. Cercavo uno specialista così da due anni. Ma non impedii a mio marito di andare a spifferare tutto al fratello maggiore, il quale fece saltare tutto.
È colpa mia.
Quando oramai era troppo tardi, dopo avere appreso la natura egoista e malvagia del tizio che mi si era attaccato addosso e non mi aveva mollato, riflettei che il suo arrivo, quando mio fratello aveva solo 14 anni, poteva essere stato il catalizzatore di una situazione già delicata, data l’intelligenza e la sensibilità di mio fratello e la perfidia, l’ipocrisia, la prepotenza che vigeva nel resto della famiglia.
“Tu non mi sei mai piaciuto”, disse mio fratello a mio marito, il pomeriggio del 3 giugno 2021. E aveva ragione, quella sera stessa, senza che me ne rendessi conto, mio marito lo tradì e indusse me ad essere complice del tradimento.
Tu non mi sei mai piaciuto. “Mi sa che mio fratello aveva ragione”, mi trovai a pensare meno di due mesi prima che mio fratello morisse.
La schizofrenia è la malattia dei buoni. Il narcisismo no; è dei perfidi e degli egoisti.
La schizofrenia insorge quando la mente iperefficiente di una persona sensibile registra contraddizioni nel comportamento delle persone che dovrebbero volergli bene e avere cura di lui.
È colpa mia.
‐ Avevo lasciato che mio zio, il mio primo anno in cui ero tornata a vivere nella palazzina di famiglia, mi derubasse di €600.
‐ Avevo sentito una morsa allo stomaco, quando mio marito rientrò dalla riunione condominiale e mi disse che mio cugino, facente funzione di amministratore, lo aveva insultato e cacciato fuori di casa perché gli aveva chiesto: “Quanto c’è in cassa?”, ma non misi verbo quando scese a scusarsi, indotto dall'altro vicino coetaneo, mio ex‐compagno di università.
A proposito, la convocazione riportava tra i punti all’ordine del giorno: “Approvazione bilancio consuntivo”.
‐ Ero rimasta seduta, con le mani raccolte in grembo, quando la vicina, amica di mio zio, accomodatasi su una sedia accanto al tavolo del mio soggiorno, aveva esordito: “No, perché se le cose continuano così, qualsiasi cosa ci sta su questo tavolo lo prendo e lo butto per terra!” Pensai subito che avesse notato che avevo cambiato centrotavola e l’invidia l’aveva resa folle di furore.
Fino a questo momento, mi ero comportata bene, ignorandoli.
O mi ero comportata male, non bloccandoli subito e fissando i paletti.
Oggi, 19 maggio 2024, è domenica di Pentecoste e la seconda lettura recita:
“Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”.
Cominciai a perdere il dominio di me, quando mio marito mi raccontò che la stessa signora lo aveva aggredito (verbalmente) in giardino.
E trattai par loro i miei vicini, nell’ultima assemblea condominiale in cui mio marito svolgeva il ruolo di amministratore.
E fui poco prudente ad andare a chiedere alla suddetta signora, svolgente ora nominalmente la funzione di amministratore, l’attestato della data di ricezione del verbale dell’assemblea alla quale ero mancata, attestato che mio marito era solito fornire, quando svolgeva le funzioni di amministratore interno. Non mi dominai, quando la suddetta signora se ne uscì: “Telefono a Suo padre”. Mio padre, nonostante seriamente malato, era già stato disturbato ampiamente dal germano per le sue stupidaggini e aveva fatto sapere che non dovevano più disturbarlo e che si rivolgessero a me. Mi rivolsi a lei come si era rivolta a me in casa mia. Risultato: mi torse il braccio e mi spinse verso le scale per farmi ruzzolare giù.
Non mi comportai con loro nello Spirito dell’“amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”.
Con loro che fin dall’inizio mi avevano mostrato di essere tra coloro dediti alle “opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio”.
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E così, tornando all'oggetto dell'inizio del racconto, a fine 2010 sono andata in depressione reattiva, ma non lo sapevo.
Da ottobre 2012, i miei stupendi, eccezionali colleghi mi sentivano esprimere desideri assurdi: vorrei tornare al 27 maggio 2005 e, se non è possibile, ad ottobre 2010.
Un giovane collega rideva e commentava: “Io vorrei tornare a 18 anni”. Ed io pensavo: “In realtà anch’io: così non mi iscriverei ad ingegneria e non incontrerei quel tizio che si è messo appresso e non mi ha mollato”. Quindi avevo già intuito che la radice di tutto era in quel tizio che mi induceva ad agire in maniera non corrispondente al mio modo di sentire.
Cosa era accaduto il 27 maggio 2005? Il fratello maggiore mi aveva, ancora una volta, annientato l’anima. Pensavo che tornando indietro, avrei troncato quella telefonata e non glielo avrei permesso. E così sono andata avanti fino al 30 dicembre 2017. La sera mi addormentavo e pensavo: “Tutto questo è un incubo. Domani mi sveglio ed è il 27 maggio 2005”.
In realtà, negli ultimi anni c’era stata una variante: “Non è necessario tornare al 27 maggio 2005. È sufficiente tornare al 3 giugno 2005 alle ore 09:00, non farmi sopraffare da quello che aveva fatto e detto il fratello grande e impedire con la forza a mio marito di andare a spifferargli gli accordi che abbiamo preso con la dottoressa riguardo ad Al”.
C’era una cosa che non sapevo: che mio marito non lo aveva fatto per dabbenaggine. Anzi, lo aveva fatto coscientemente perché non voleva essere coinvolto in una cura continua di mio fratello. Ma questo venni a saperlo, perché gli sfuggì, solo pochi giorni dopo la morte di mio fratello. Davanti a me il vuoto per la consapevolezza di avere protetto e aiutato chi aveva impedito che mio fratello ricevesse le cure più adeguate. D’altro canto, compresi da cosa era dovuta quella melassa in cui mi sentivo avvolta e che mi aveva impedito, in tutti quegli anni, di riprendere il controllo della situazione: dal tizio che tenevo accanto e le cui parole mi trapanavano il cervello ogni giorno.
Finito il periodo di lavoro, ad agosto 2018 mi isolai e mi ricordai chi ero, di tutte le situazioni difficili sul lavoro che avevo gestito, di come le cose erano andate bene quando lasciata a decidere senza interferenza. E guarii. Quel mese non ebbi bisogno di pillole per dormire e non le ho più prese. Solo due anni dopo, passai un’altra notte insonne perché i malvagi amici dei miei malvagi parenti si erano rifatti vivi. Il giorno dopo corsi di nuovo dal dottor P.V. che riuscì di nuovo a ricondurmi sui binari con le sue parole. Disse anche: “Ma Lei è una Signora! Come ha fatto a mischiarsi con certa gente!?”. Ancora due anni dopo, un’altra notte insonne per lo stesso motivo. Non potevo correre dal dottore P.V. quella volta, per divergenze di opinione sulla pandemia e i mezzi per contrastarla. Risolvetti la cosa da sola.
Da fine 2010, complice la mia depressione reattiva, iniziò il periodo dei medici che prendevano lucciole per lanterne o, al contrario, non vedevano le lanterne.
Il 29 dicembre 2012 una mia collega, con la quale ero sola nel grande open‐space dal giorno prima, mi chiese: “Lila, ma cosa c’è?” Le dissi quello che avevano detto e fatto i medici tra gennaio e marzo 2011 e quello che altri medici avevano detto a febbraio 2012. Replicò: “Lila, quello che hai passato tu avrebbe ammazzato un elefante! Comunque, puoi stare tranquilla che non dico niente a nessuno”.
Dopo che ero guarita dalla depressione reattiva, portai mia figlia a Parigi ad ascoltare un concerto del suo gruppo musicale preferito. Un mio amico trentennale che aveva visto le foto che mia figlia aveva pubblicato su Instagram commentò meravigliato: “Siete state a Parigi!? Io mi meraviglio che ti reggi ancora in piedi”.
Una psicologa del centro neurologico pediatrico mi dette l’impressione che più che parlare della pratica burocratica oramai conclusa, intendesse capire come facessi ad essere ancora viva.
Andai a trovare una vicina dei miei genitori alla casa al mare che aveva perso il marito. Ci raccontammo a vicenda cosa fosse successo da quando ci eravamo perse di vista, da sette anni. Quando arrivai alla frase della mia collega (quello che hai passato tu avrebbe ammazzato un elefante), disse: “Veramente avevo pensato la stessa cosa, ma non osavo dirtelo”.
E, invece, il fratello maggiore e gli altri parenti, e i loro amici, continuano con le loro aggressioni, verbali e non. E giubilano se vivo un disagio. O peggio.
Da due anni, a volte quando sbuco dalla galleria di Salerno sull’autostrada e mi trovo davanti lo stupendo golfo di Salerno ‐ come da trent’anni ‐ mi chiedo se abbia ancora il diritto di essere felice, dopo avere abbondonato mio fratello quel 3 giugno 2005.
Invece, il fratello maggiore, il tizio che mi si è attaccato addosso e non mi ha mollato, i parenti che hanno instillato il germe della scarsa autostima in me e in mio fratello e, dopo, hanno continuato ad infierire, insieme ai loro amici, non hanno scrupoli di sorta.
Quando, prima del 27 maggio 2005, il fratello maggiore mi aveva annientato l’anima?
A maggio 2004. Dopo che nostro padre era uscito dall’ospedale, mi aggredì con veemenza perché credeva che io stessi sbagliando. Riflettei: “Mio fratello non mi vuole bene: se mi volesse bene, se anche io stessi sbagliando una cosa come questa, non mi aggredirebbe in questo modo”. Oltretutto, stava sbagliando lui.
Ora che ci penso, l’anno precedente aveva aggredito anche nostro fratello ‐ che pochi mesi prima aveva ricevuto la diagnosi di schizofrenia – perché aveva portato dalla pizzeria una pizza diversa da quella che la sua compagna aveva ordinato.
E a luglio 2004. Dopo che per tre giorni mi aveva lasciato sola ‐ per fortuna ‐ ad andare avanti indietro tra due ospedali per capire cosa stesse succedendo e cosa fosse meglio fare per nostro padre, arriva e fa: “Se papà muore, è colpa tua”. Una mazzata. Il giorno dopo mi aggredì anche fisicamente. Quell’estate ebbi un assaggio, ma non lo sapevo, di quella che sarebbe stata, di lì a sei anni, la mia depressione reattiva.
A maggio 2014, mi risolsi ad andare da uno psicologo per vedere se riuscivo a capire perché non riuscissi a dormire e a liberarmi di quelle pillole. Prima seduta, niente di nota. Seconda seduta, termino con l’episodio: “Se papà muore, è colpa tua”. Terza seduta, termino con l’episodio: “Se papà muore, è colpa tua”. Quarta seduta, termino con l’episodio: “Se papà muore, è colpa tua”. Guardo la dottoressa e faccio: “Mi sa che dovevo andare dallo psicologo dieci anni fa”. La psicologa fa un cenno di assenso di ovvietà e a, a sua volta, fa: “Mi sa proprio di sì”.
"L'85% delle persone che vanno dallo psicologo sono persone normali che cercano di sopravvivere ai danni causati loro dalle persone disturbate".
Ho ancora il diritto di essere felice? Ad un anno dalla morte di mio fratello, altre aggressioni verbali del fratello grande, mi hanno fatto riflettere che avevo una sola giustificazione, a parte non avere capito che chi avevo accanto non era con me: se avessimo seguito la strada indicata da me e comunque mio fratello avrebbe deciso di essere stanco (ma non credo, a parte i danni che hanno continuato a causare i parenti e i loro amici e gli ostacoli posti dal tizio che tenevo accanto), il fratello grande mi avrebbe aggredito: “È colpa tua!”. Invece, hanno seguito la strada che ha imposto lui e la conclusione è stata: “Abbiamo fatto tutto il possibile”. (Sì, per ammazzarlo – è la mia replica).
Preciso, come precisavano tanti medici o giornalisti all’inizio delle dirette web, dopo la morte del dottore Giuseppe De Donno: “Guardate che non abbiamo nessuna intenzione di suicidarci”. Mio fratello mi ha fatto capire di nuovo la bellezza e il valore della vita.
È solo il mio corpo che dà segnali che possono far impensierire.
Mi chiedo se siano dovuti agli ultimi colpi che mi ha inferto il tizio che mi si è attaccato addosso e non mi molla:
‐ i miei soldi devono essere suoi. Devono servire per i suoi hobby e i suoi obiettivi: ecco perché non potevo comprare un bilocale a mio fratello;
‐ ha ‘smarrito’ la nostra meticcia maremmana sull’autostrada. Tranquilli, dopo due giorni di angoscia, ho saputo che era al sicuro: l’avevano segnalata e recuperata. Ma è stato un brutto colpo. Anche perché, per ritrovarla, ho avuto quella forza che non ebbi nel 2005 per mio fratello. All’epoca, non sapevo che ero così forte. O meglio, non sapevo che accanto a me non avevo un alleato.
Se voglio ancora vivere, occorre mettere da parte il senso di colpa. Se sono ancora in tempo.
E mettere da parte il nervosismo che genera una madre narcisista. Avreste mai pensato che una madre che si è sempre sacrificata, che vi ha curato quando eravate in condizioni disperate, ecc. potesse essere una madre narcisista? Nemmeno io. Qui certamente ci vuole il perdono perché non ha agito in mala fede. E' solo influenzata dalla mentalità borghese che tanti danni causa da oltre un secolo, come testimoniano Italo Svevo e altri.
E il nervosismo che genera un marito narcisista che già non dovrebbe essere più legalmente un marito.
E un fratello imbonito dalla moglie, suocera e cognata.
E parenti e parvenue che vogliono solo i tuoi soldi, il tuo appartamento e/o, semplicemente, il tuo male.
Oggi ho letto un commento sull’opera di Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il'ič , che ho letto a suo tempo. Vivere bene per morire bene.
Mio fratello ha vissuto bene: ha dato solo amore. Senza riceverne abbastanza in cambio.
Riflessioni di Lila nella Domenica di Pentecoste.