In limine labyrinti, l'eternità è un gatto bianco
Misurare lo stupore, chimera della commensura, claustrale economia del piacere e di notte un gatto bianco si dissolve al di là di una ringhiera. “Il Labirinto” è incomprensibile e Bataille di certo avrà pensato, come nota a margine della sua prosa, alle leggere e consolatorie catene dell’eternità del prigioniero Blanqui:
“Ogni astro, qualunque astro esiste un numero infinito di volte nel tempo e nello spazio, non in una soltanto delle sue forme, ma così com’è in ognuno dei momenti della sua esistenza, dalla nascita alla morte. E tutti gli esseri sparsi sulla sua superficie, grandi e piccoli, vivi o inanimati, condividono il privilegio di questa perennità. La terra è uno degli astri. Ogni essere umano è dunque eterno, in ognuno dei momenti della sua esistenza. Quello che io ho scritto in questo momento nella mia cella, l’ho scritto e lo scriverò per l’eternità, sullo stesso tavolo, con la stessa penna, vestito degli stessi abiti, in circostanze uguali. Tutte queste terre sprofondano, una dopo l’ altra, nelle fiamme che le rinnovano, per rinascere e sprofondare ancora, scorrimento monotono di una clessidra che si gira e si svuota eternamente da sola.”
In “Limine Labyrinti”, sul filo roccioso e sottile dell’esistere, è un “privilegio” persino lo “scorrimento monotono” della sabbia di una clessidra, anche il frantumarsi e il precipitare nel vuoto dell’imbrecciato dei nostri passi. Auguste risolve ogni labirinto riproponendolo all’infinito ma, allo stesso tempo, lasciandolo tale: preferisce ripercorrerne in modo indefinito ognuno , “sprofondare” e annientarsi nell’eternità di ogni suo gesto vissuto, veder fallire ogni sua azione e pensiero in una cella… e così diverrà monotona e infinita la scoperta di ogni “nuova terra”, tradita dalla noia eterna ogni originalità, intuita ab aeternum ogni intuizione, drammatica ogni gioia, insensata ogni logica, logico ogni incubo, creazione ogni distruzione e distruttiva ogni creazione. Nell’eternità degli astri il labirinto è di specchi ‐ dilatato da un tempo ciclico ‐ e ci disorienta ad ogni riflesso ripetuto come nell’irrisolvibile vertigine di coscienze delle coscienze di Dunne. Ma anche la tragica intuizione di un cosmo che si ripete e si riproporrà all’infinito resta solo una parvenza, un’illusione di conoscenza: perché nella sua prigione Blanqui avrà sempre la stessa intuizione: ciò che ha pensato lo penserà di nuovo‐ come lo avrà già pensato indefinite volte‐, ciò che ha scritto avendo addosso gli stessi abiti lo scriverà e riscriverà ancora con la stessa penna, sullo stesso foglio. Anche il suo elevarsi al sopra di ogni pensiero sarà un “già accaduto che accade e sempre accadrà”, nessun “privilegio” nell’eterno sentirsi privilegiati da questa “perennità”, nessuna consolazione nell’aver preso dimora in questa eternità. In nome della libertà Blanqui ha finito per recludere il tempo nello spazio e lo spazio nel tempo: nei suoi trentatré anni complessivi di carcere l'Enfermé si è consolato condannando senza appello l’universo ad un ritorno eterno, e non ad un “eterno ritorno”. Nessuna eresia salvifica come poteva essere quella di Origene, né – tantomeno ‐ una Stoica consapevolezza imbarazzata dalla morte. Il ritorno eterno di Auguste Banqui non permette inganni, elusioni o sotterfugi, perché nella ripetizione eterna dell’identico anche questi si saranno già realizzati, si realizzano e si realizzeranno ancora, così come per Bataille è il percorrere l’incommensurabile e inquietante labirinto dell’esistenza: perché ogni inganno, ogni elusione o sotterfugio diverrebbero parti integranti del labirinto, nuovi luoghi da percorrere, nuovi e inaspettati percorsi da affrontare. E intanto il gatto bianco è rispuntato fuori dall’inferriata, nessuno saprà mai cosa ha fatto o scoperto in questo morso “inutile” di tempo.