In ricordo di un amico: Felice Gimondi.
Gimondi era un amico, lo era per tutti gli appassionati di ciclismo, un corridore italiano, un uomo vero, un cittadino del mondo come me. Ho appreso della sua morte (avvenuta in mare per un malore, quand'era in vacanza) questa mattina (un venerdì diciassette, purtroppo!), leggendo i sottotitoli del notiziario su raisport hd (canale cinquantasette del digitale terrestre): "E'morto Felice Gimondi, simbolo di un'Italia felice!". Ora, non sono in grado di asserire se l'Italia a quel tempo lo fosse realmente [felice, intendo], perché ero poco meno che un bimbo...eravamo, però, ancora sul binario ‐ anzi, ne seguivamo l'onda lunga ‐ del cosiddetto "boom economico" (Gimondi passò al professionismo nel 1965), ma di lì a poco, in tutto il mondo ‐ Italia compresa ‐ si sarebbe abbattutto il ciclone "sessantotto".
Penso che fosse una persona speciale, anzi, lo era per davvero: credo che possa apparire banale e retorico scrivere ciò, come spesso accade quando si rievoca una persona nel giorno della sua morte, ma è proprio così; le mie non sono soltanto parole di circostanza o simili ad un omelia funebre che reciterebbe il parroco in chiesa quando ricorda qualcuno né, giornalisticamente parlando, il solito pezzo (dicasi, in gergo "il coccodrillo") che i quotidiani passano ‐ a volte in edizione straordinaria ‐ in circostanze simili, ossia per rievocare la vita di una personalità politica, artistica o sportiva. Le vicende umane ed agonistiche di questo grande campione sono, del resto, a testimoniarlo in maniera inequivocabile, ovvero a testimoniare della sua grandezza! Mi mancherà molto, Gimondi: mancherà a me come a molti altri e non solo in Italia (anche in Francia era amatissimo!), mancherà a tutto il mondo delle due ruote. Non nascondo di aver pianto alla lettura della notizia ferale, non ho vergogna a scriverlo. Mesi fa (credo fosse intorno a ottobre‐novembre o giù di lì) una persona su twitter, commentando alcuni versi di poesia apparsi su un tweet ebbe a dire: "Noi uomini, man mano che il tempo passa e ci avviciniamo alla vecchiaia, diventiamo sempre più coglioni: ci commuoviamo per ogni cosa!". Sarà così, forse sarà vero, anzi, è proprio così! Mi mancherà davvero molto come mi mancano già da tempo, oramai, tantissime altre persone che non sono più su questa terra. Ma tant'é, questa è la vita (recita spesso il saggio, che forse tanto saggio non lo è proprio, ed ammonisce la chiromante, a volte, leggendo le carte ai creduloni!), sì, la vita ‐ e le vicende umane ‐ altro non è che un contratto a termine, una cambiale a scadenza che ognuno di noi firma venendo al mondo ed il quale, spietatamente, prima o poi ti presenta il conto. Devi solo viverla (o cercare di farlo) senza aspettarti nulla in cambio, senza un compenso ultraterreno di sorta (la mia visione è essenzialmente atea), con semplicità: "così come fa lo scoiatttolo", scrive Nazim Hikmet, poeta turco. Ma io, tuttavia, essendo inquieto per natura, non mi rassegnerò mai dinanzi alla morte né mi piegherò a lei come un misero servo. Lotterò a modo mio, come ho sempre fatto, con i mezzi dell'intelletto e della memoria: sino a che avrò vita e forza o sino a quando essa [la memoria] mi accompagnerà (avendo avuto mia sorella malata di Alzheimer e deceduta a causa di quella malattia, sono un soggetto a forte rischio, direi!). Lo farò ricordando sempre persone (con nostalgia e rimpianto) e cose (con stupore e disincanto) che non ci sono più: forse, chissà, è una cattiva abitudine, lo so, la mia (me la porto dietro sin da piccolo, ahimé!), ma non sono abituato a snaturare le cose che mi riguardano, e poi sono in buona compagnia: lo dice, infatti, lo stesso Primo Levi, ad esempio, in un aforisma che alcune settimane fa ho passato sul blog, che bisogna ricordare e che vivere senza ricordi e come vivere nel terrore; lo praticano, del resto, anche diverse specie animali!
Ma io, del resto, odio tutte le cose che finiscono ed è per questo, infatti, che spesso e volentieri mi è capitato di odiare anche la vita; ma il mio è stato un odio che significa soprattutto amore: si ama la vita, cioé, o qualsiasi altra cosa, a tal punto da arrivare ad odiarla, proprio per il semplice motivo che prima o poi finirà...anche questo, a mio modo di vedere, è un mezzo per lottare: lo stesso che capita, in un certo qual modo, ai poeti maledetti, oppure a Vladimir Majakovskij o allo stesso Giacomo Leopardi.
Ma torniamo a Gimondi. Si diceva della grandezza sua come uomo ed atleta. La sua vita e la sua carriera sono state esemplari in tutto e per tutto. Ha corso per tredici anni sulle strade di tutto il mondo: egli ha combattuto con ogni forza (morale e fisica) e impavidamente, sino al limite estremo delle umane possibilità contro quel "mostro a nove teste" (attenzione, però, questo epiteto non lo scrivo con cattiveria, tutt'altro: lo faccio per esaltare ancor più la vicenda del nostro!) che rispondeva al nome di Eddy Merckx; ed il belga, credetemi, era un atleta super, un atleta "monstre", appunto. Per chi non segue le cose ed i fatti del ciclismo o non è addentrato nelle vicende di questo sport in maniera specifica (come me che lo faccio da appassionato da più di quattro decadi, come gli addetti ai lavori, siano essi tecnici o giornalisti, come i ciclisti stessi ed i tifosi), è ben difficile comprendere il valore di questo atleta [Gimondi] e di quell'altro, il suo rivale‐nemico [Merckx]. Il belga, non a caso viene unanimamente riconosciuto dagli storici del ciclismo il più grande di tutti i tempi, insieme a Fausto Coppi. La lotta dell'italiano è paragonabile a quella dei lillipuziani contro Gulliver o a quella biblica di Davide contro Golia! Ho conosciuto Gimondi, cioè mi sono interessato alle sue vicende agonistiche, sin da bambino prendendo le mosse da mio padre: egli amò, nella sua vita, oltre al suddetto, Coppi, Francesco Moser, Gianni Bugno e "il pirata" Marco Pantani. Ma Gimondi non fu soltanto un grande campione sulle strade, ma soprattutto un grande uomo nella vita: mai una parola fuori posto o una polemica inutile, mai sopra le righe; il classico uomo con la scorza dura, figlio della generazione post‐bellica: insomma, "gambe in spalla e pedalare"! Era nato a Sedrina, un piccolo centro del bergamasco di poco più di duemila anime, nella Valle Brembana, distante quindici chilometri dal capoluogo. Era figlio del profondo nord e mi viene da scrivere, alla luce degli avvenimenti che si stanno susseguendo in Italia in questa strana e afosa estate, ed al contrario di un ministro‐manichino del governo‐fantoccio in carica da oltre un anno, quanto segue: "Un padano di poche parole e molti fatti!"...ma questa è tutta un'altra storia. La vittoria più importante la ottenne al Tour de France del 1965: aveva solo ventitré anni e a quella corsa, però, non avrebbe dovuto esserci perché doveva correre al suo posto un gregario, Battista Babini (vanta una sola vittoria in carriera, con la maglia Salvarani: la Sassari‐Cagliari del '63), il quale restò a casa per malattia. Da allora diventò per i francesi "Gimondì" (lo chiamavano così, accentando come loro solito, l'ultima vocale del cognome); e da allora diventò anche un po' francese, come accade a tutti gli stranieri che trionfano nella "grand boucle" (così è chiamato il Tour in Francia, per via del percorso che ricorda, spesso, la forma di un riccio, appunto!) e come è accaduto per Faustò Coppi e Marco Pantani, "il pirata". La sua vittoria più bella, però, e direi quasi sentimentale‐romantica, fu quella al mondiale del 1973 (rivedo davanti a me le immagini di quella corsa, come se fosse ieri!), lungo le strade del circuito del Montjuich, sulle colline che sovrastano Barcelona, in Spagna: colà compì un capolavoro assoluto di sagacia tecnico‐tattica (batté in volata il duo belga Maertens‐Merckx e l'idolo di casa Luis Ocana!) ma, soprattutto, vinse col cuore. Al termine di questo mio breve (e spero non prolisso) articolo‐racconto, devo dire che forse a volte ho divagato (anzi, "ho scantonato", come recita un vecchio intercalare che si ascolta nelle strade di Mogadiscio e dintorni!): ma questo è l'inconveniente che accade quando si scrive di getto, dando ascolto al cuore, senza un canovaccio ben preciso; od un copione prestabilito (allo stesso modo in cui scrivevano...pardon recitavano gli attori prima della riforma del teatro goldoniano e della commedia dell'arte). Chiedo venia per tutto ciò, anzi, mi rifaccio chiudendo a questo modo: "Ovunque ora tu sia, Gimondi, continua a pedalare, continua a farlo per tutti noi!".
Taranto, 19 agosto 2019.