Incubo

L’anta della finestra si chiude con un colpo secco cui fa eco, come una schioppettata nel silenzio della notte, la porta che avevi lasciato semiaperta per sentire i suoi passi, quando fosse rientrato.
Guardi istintivamente la radiosveglia: le quattro e quaranta. Tuo marito dorme, russando ritmicamente, come sempre. Ormai non ci fai più caso; riesci a prendere sonno, anche se lui russa. L’importante è non svegliarsi nel pieno della notte: allora è davvero difficile riaddormentarsi. Quel suono ritmico, cavernoso, sempre uguale, irritante scandisce i minuti e tu guardi il quadrante dell’orologio fissando il puntino lampeggiante dei secondi, e ne conti sessanta, uno dopo l’altro, e poi ancora sessanta e sessanta ancora, finché la spossatezza vince l’irritazione.
Ti alzi senza far rumore, cercando di non far cigolare il letto. E’ la solita ronda notturna, quella di controllo. Come un automa ti avvii alla porta, la apri (l’aveva richiusa il vento), guardi alla camera dei ragazzi: la televisione è ancora accesa; Daniele  non è tornato.
Entri in punta di piedi e la spegni, ma il pulsante scatta sotto le tue dita e Luca si sveglia.
Con la voce impastata dal sonno ti rimprovera :
– Mamma! Perché l’ hai spenta? Riaccendi! – Tu lo rassicuri, gli dai un bacio, bisbigliandogli che è quasi giorno, i programmi sono terminati, esci dalla stanza già con lo stomaco stretto dall’ansia.
Dov’è il cellulare? Ti ricordi di averlo messo a ricaricare. Con gli occhi semichiusi vai a prenderlo. E’ un bel cellulare: dopo tanto hai deciso di cambiarlo, finalmente anche tu ne hai uno piccolo, ultimo modello,  con la fotocamera, già hai riempito il tuo album con decine di foto dei tuoi figli . Che saresti senza di loro?
In cucina tutto è in ordine e c’è silenzio. Col cellulare stretto in mano ti siedi sul divano vicino al camino. Ti guardi intorno per trovare la calma necessaria, prima di chiamare. Il criceto gira  veloce sulla sua ruota. Le zampette perdono qualche colpo, di tanto in tanto, ma lui continua la sua corsa, instancabile, come se dovesse raggiungere una meta nel più breve tempo possibile. Sarà poi giusto tenerlo lì, chiuso nella gabbia? Paco continua a correre e tu pensi che è ora di formulare il numero: 333…, squilla. Guardi l’orologio: le quattro e cinquantadue.
Non cambierà mai. Aveva promesso di rientrare presto, subito dopo il concerto. Aveva persino chiamato per rassicurarti, dopo mezzanotte.
‐Tutto a posto, ma’. E’ appena finito e stiamo ripartendo. Si è fatto tardi perché ha suonato anche un altro gruppo, poi ti racconto. Sì, non ti preoccupare per la macchina: velocità da crociera. Quando arrivo, però, non la riporto subito in garage; resto un po’ con Sara e poi torno: stai tranquilla.
Tranquillità: che parola è questa? Che significa?
Adesso dal cellulare viene il segnale di occupato. Quante volte ha squillato, mentre tu ripensavi alle sue parole rassicuranti?
Richiami e lasci squillare fino alla fine. Chiami ancora: nessuna risposta.
Le cinque. Ti alzi dal divano, mentre già non ti senti più tranquilla e cominci a pensare e non vorresti. Ecco la ridda delle ipotesi, come uno sciame impazzito di api, che cercano di guadagnare l’arnia del tuo cervello. Non c’è da preoccuparsi: è semplicemente un piccolo delinquente incosciente, che finge di non sentire gli squilli insistenti del cellulare, per rimanere un po’ di più al pub, dopo il concerto, con la ragazza, con gli amici.
Non vorresti, ma accendi la prima sigaretta e la consumi in fretta, ingoiando il fumo, un tiro dopo l’altro, mentre lo stomaco si stringe e si svuota come una sacca .
Ti batte il cuore, ma digiti nuovamente il suo numero, mentre cammini a piedi nudi intorno al tavolo, ti siedi sul divano, ti rialzi. Adesso le gambe sono diventate più pesanti, è come se si stessero riempiendo d’acqua.
Ti ricordi di altre notti, di altre telefonate senza risposta: ‐Il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile; la preghiamo di riprovare più tardi. ‐  Adesso hai bisogno di stenderti un po’ sul divano. Chiudi gli occhi, ma subito li riapri terrorizzata: non ce la faresti a sopportare di nuovo tutto. Accendi un’altra sigaretta. Tuo marito non ti vede e non ti parlerà del cancro ai polmoni, del tuo egoismo di fronte al rischio di morte, con un marito e due figli.
Ti alzi e in punta di piedi vai a controllare se dorme. Lo senti russare leggermente; va bene così: deve dormire ancora un po’, il tempo che lui torni e si metta a letto. Non potresti sopportare i suoi sermoni moralistici: che ti direbbe? Che la causa di tutto sei tu, che se fosse dipeso da lui tanta confidenza non gliel’ avrebbe data a tuo figlio, e la macchina, i soldi, il permesso di fare il suo porco comodo ecc. ecc. Almeno studiasse! Che bel modo di prepararsi ai test di ammissione per l’università…
Ti porti istintivamente le mani alle orecchie, per non sentire le sue parole e ti accorgi che invece lui non sta parlando, lui dorme, e lo invidi.
Chiami ancora una volta, due, tre volte. Richiudi il cellulare e guardi l’orologio. Le cinque e un quarto. Ora l’ansia comincia  a trasformarsi in paura: l’ ipotesi che lui non voglia rispondere di proposito ti appare assurda. Perché non rispondere, se sente il tuo squillo insistente e ripetuto? Forse dorme da Sara e non sente il cellulare, forse l’ ha  lasciato in macchina: no, è una soluzione troppo bella per essere vera, troppo comoda, troppo rassicurante alle cinque e venti del mattino.
Mentre i pensieri si accavallano nella tua mente e si mescolano e si dissolvono, per riformarsi più potenti e gonfi, come onde in un mare che si agita sotto un vento sordo che nasce da chissà dove, richiami e aspetti, sperando di sentire la sua voce, che ti rassicura. Così potresti gridargli che ti sta uccidendo, che ti ha fatto invecchiare prima del tempo e quelle occhiaie che ti stancano il viso sono là per colpa sua e per il troppo amore che gli porti.
Il segnale di occupato al termine della lunga serie di squilli ti riporta alla realtà.
Devi farti una camomilla, adesso. Ma servirà? Le gambe non rispondono più. Le trascini fino all’angolo cucina, inciampi nel tappeto. ‐ Maledetto straccio vecchio! Devo gettarti via, prima o poi.
Mentre l’acqua si scalda, prendi la tazza, la bustina di camomilla, lo zucchero e guardi fuori dal balcone. E’ quasi l’alba.
C’è tanto silenzio e tu vorresti urlare, ma non ce la fai neppure a respirare con regolarità. Adesso senti un peso , come una morsa che ti stringe il petto, all’altezza del cuore e hai paura, una paura così grande che perdi forza nelle mani e la tazza quasi ti scivola via. Devi bere, a piccoli sorsi, il tepore ti farà bene, allenterà la morsa, ti lascerà respirare e potrai pensare con calma al da farsi.
Provi a chiamare di nuovo. Adesso la paura si sta trasformando in terrore. Ti torna in mente una notte lunghissima e bianca come questa, che però non riguarda te, ma un’altra madre, chissà quante altre madri. Le ore passavano l’una dopo l’altra e il cellulare era spento. E alle sei quella madre si mise in macchina, con suo marito, e vide l’utilitaria  del figlio davanti alla caserma dei carabinieri. Ma quella era una storia di marijuana e non ti riguarda.
Per te è diverso; il cellulare di tuo figlio è acceso e lui non risponde. Devi pensare ad altro, ma non vuoi.
Bisogna che tu vada in bagno a lavarti il viso, a truccarti, per tenerti pronta. Pronta a cosa? Forse dovresti svegliare tuo marito e consigliarti con lui.
Le gambe tremano, adesso, e la testa si sta svuotando. Non puoi certo sentirti male, devi tenerti pronta a tutto.
Fai il caffè e lo bevi con un po’ di nausea; bisogna bere qualcosa di caldo, dentro senti un gelo che ti ghiaccia il sudore sulla pelle.
‐Dio! Dio! DIO!‐ ripeti a bassa voce, con rabbia questa parola e pensi che in fondo non ha senso. Dov’è Dio? Esiste Dio? E allora perché tuo figlio non è nel suo letto e tu nel tuo? Perché non stai dormendo come tante altre madri fortunate, che hanno il figlio nel letto, mentre tu non sai nemmeno più se ce l’ hai, un figlio.
D’improvviso ti si fa chiara agli occhi della fantasia allucinata tutta la verità: lui stava tornando, non correva, l’aveva promesso. Poi è successo qualcosa, una distrazione, una macchina impazzita che gli è piombata addosso senza che lui potesse fare nulla per evitarla. Ti pare di individuare con precisione il tratto di strada dove si è verificato l’incidente.
Ti passi una mano sulla fronte , ti copri gli occhi per non vedere la scena. E’ ancora buio, nessuno si è accorto di nulla, le macchine passano veloci sulla strada e non si accorgono dell’auto capovolta sotto il cavalcavia. Nessuno può aiutare tuo figlio perché nessuno sa che è là a morire, forse è già morto e neanche tu lo sai.
Scuoti forte la testa per scacciare quelle immagini, ma non riesci a pensare ad altro. E’ successo certamente qualcosa di terribile, altrimenti non potresti sentire quest’angoscia così profonda, questo dolore insopportabile.
Forse ha perso il controllo per telefonare a te, per tranquillizzarti (perché gli chiedi sempre di avvisarti? Perché non ti fidi, così lui non deve pensare a tranquillizzarti e può guidare tranquillo?)
Dov’è adesso? Forse sente lo squillo del cellulare, ma è incastrato tra le lamiere della macchina, sotto una scarpata, un cavalcavia, dove nessuno vede la macchina capottata, e  lui cerca di raggiungerlo con la mano, ma non ce la fa.
– Non posso rispondere, mamma, non riesco a muovermi . E’ inutile che continui a chiamarmi, non vedi che non riesco a muovermi, non ci vedo e sento tanto dolore: perché non mi aiuti, mamma e non smetti di telefonare? ‐
Vorresti piangere, ma i singhiozzi sono asciutti e restano in gola: non bisogna far rumore. Non hai gridato nemmeno quando l’ hai partorito eppure il dolore pareva ucciderti, eri certa di non riuscire a sopravvivere tanto era forte il dolore, eppure ce l’hai fatta e lui è nato, bello, sano, l’hai generato proprio tu, tuo figlio.
Digiti il numero meccanicamente, senza guardare la tastiera. ‐Ti prego, rispondi, ti prego, ti prego, ti prego.
Guardi l’orologio: le cinque e quarantacinque. Ormai fuori è giorno. Una luce spettrale rischiara un mondo che non ti appartiene. Che farai se gli è successo quello che continui ad immaginare? Non bisogna nemmeno pensarla quella cosa terribile, hai paura persino di pensarla, perché sai che potresti morire anche solo pensandoci sul serio. E invece ci pensi, pensi persino a quello che dovresti dire a tua madre e a tuo padre e li vedi morire mentre parli.
E tu, riusciresti a sopravvivere? Dovresti farlo, anche se sarebbe molto meglio morire, insieme a lui. Ma non c’è solo lui, anche se pare ingoiare ogni attimo della tua vita, come una sanguisuga che si nutre del tuo sangue e del tuo amore.
Hai un altro figlio, cerca di ricordarlo, è ancora così piccolo, pensa a lui, che dorme tranquillo e non sa la tua angoscia. Anche a questo dovresti stare accanto, per aiutarlo a crescere, a non sbagliare, per fargli capire il bene e il male e tenerlo lontano dalle cattive compagnie, per non doverlo aspettare fuori dalla caserma e percorrere con lui la strada tortuosa che riporta a casa.
Le cinque e cinquantacinque.
Ormai ti aggiri come folle da una stanza all’altra, passi da una finestra all’altra, e continui ad invocare quel Dio in cui non credi più e che però è l’unico a cui puoi parlare e che deve ascoltarti, perché è colpa sua se adesso tu stai impazzendo di dolore. Vorresti maledirlo, ma hai paura: bisogna pregare, invece, e allora lo preghi. Gli chiedi di riportarlo a casa, solo questo importa, nient’altro conta, tutto il resto non significa più nulla.
Richiami ancora, poi metti via il cellulare e decidi di non farlo squillare più: se si scarica il suo, non sarà più possibile intercettarne la posizione, se necessario.
Ma cosa vai pensando? Allora sei davvero impazzita? Lo stomaco si contrae e senti una fitta così dolorosa che devi stringere forte i denti per non urlare.
Le sei. Qualcuno nel palazzo accanto apre una tapparella: sta cominciando un nuovo giorno e tu hai paura della vita.
Accendi la terza sigaretta, bevi dell’altro caffè, non sai più che pensare e intanto ti scoppia la testa e quella paura orribile ti invade le viscere, diventa così simile ad una certezza che devi spalancare il balcone e respirare l’aria fredda dell’alba per non soffocare. Le sei e dieci.
– Oh Dio, Dio, Dio. Aiutami Signore, aiutami, ti prego, aiutami…
Lo squillo del cellulare ti trafigge il cervello come una scarica elettrica. Lo afferri e non guardi nemmeno il numero , pensi solo a gridare ‐Pronto!?‐
‐ Ma’, sono io. Scusami, ci siamo addormentati e avevo lasciato il cellulare in macchina. Tutto a posto. Sto tornando a casa.
Poggi il tuo cellulare sul tavolo, ti inginocchi per non cadere e finalmente piangi.