Incubus

"Sei un'ossessione...!" mi stava dicendo, col volto già acceso di un calore purpureo, "ti odio, ti detesto..." e, in calando, come arrendendosi, "...e non riesco a fare a meno di te..."
Mi aveva telefonato nel primo pomeriggio del giorno prima, chiedendomi di vederci, se possibile, perché aveva un urgente bisogno di parlarmi, aveva detto. Avevamo fissato per la mattina dopo, lei fuori turno ed io, per una volta, libero da impegni mattutini. A casa sua.
Quando varcai la soglia, che lei aveva lasciato socchiusa, mi resi subito conto di quanta elettricità ci fosse nell'aria: energia statica depositata ovunque in giro, sui mobili, sui tappeti, negli angoli... Attiva ed inerte al tempo stesso, come un gatto rannicchiato su un divano che mentre rimane accoccolato non ti stacca gli occhi attenti di dosso... Senza muovere un muscolo, ma pronto a scattare.
Lei indossava una lunga camicia color panna, come una tonaca di fattura araba, un caftano forse, sicuramente molto comoda per stare in casa in quelle prime calde giornate estive. Venne verso di me salutandomi ma guardandomi appena negli occhi, con un tono che non seppi decifrare, tra l'ansioso e l'accusatorio, ma il suo musetto imbronciato mi fece tenerezza e mi ben dispose alla discussione che, presentivo, avrebbe avuto toni plumbei...
Mi fece accomodare nel soggiorno, illuminato da un'ampia finestra, coperta appena da sottili tendine bianche, trasparenti per me, che da dentro sbirciavo fuori senza scostarle, ma impenetrabili, l'avevo notato arrivando, per qualsiasi curioso indiscreto dall'esterno.
Sedetti in poltrona ed aspettai.
Sentii una porta chiudersi in fondo al corridoio ed i suoi passi scivolare frettolosi sul parquet. Ella si accoccolò, più che sedersi, sul divano, piegando una gamba verso l'interno e lasciando l'altra penzolare a metà, oltre il bordo dei cuscini.
"Ti devo parlare!" esordì, mentre sembrava cercare da un lato di rilassarsi e dall'altro di prepararsi a qualcosa... Ma cosa, mi chiesi in un angolino della mente. Aspettai.
"Non siamo qui per questo?" risposi con calma. "Dimmi pure..."
"Non voglio più vederti!" disse ancora. Stesso tono perentorio di prima, pensai. Ma perché..? Avevo l'impressione cercasse di far stare in piedi qualcosa che in piedi da solo non voleva, o non poteva, stare...
"Perché? Come mai, intendo", chiesi cercando veramente di ascoltare e capire le sue motivazioni, per quanto mi sembrassero piovute dal cielo in quel momento.
"Non voglio più vederti e basta!", ancora quel tono perentorio, quasi volesse inchiodare ogni singola parola nell'aria perché potessi leggerla chiaramente. Ma non mi convinceva. "E mi avresti fatto venire fin qui per dirmi questo?" chiesi, più per prendere tempo e capire, che per la domanda in sé. "Potevi farlo per telefono e ci saremmo risparmiati entrambi l'imbarazzo di questo momento...".
In realtà non mi sentivo affatto imbarazzato, ma mi andava bene farle pensare che lo fossi. In realtà ero solo molto incuriosito. Farmi avvicinare per dirmi di allontanarmi era un controsenso, un doppio messaggio contraddittorio.
Qual'era dei due quello vero, mi chiedevo.
Mi parve allora si guardasse un attimo velocemente in giro, come per cercare qualcosa che forse non trovò, qualcosa da dire forse. Poi ebbe un'espressione come si rassegnasse, fece un sospiro profondo e con tono cupo, come se nella sua mente si gonfiassero, ribollenti, le nubi di un temporale, riprese "sei diventato la mia ossessione, non faccio altro che pensare a te. Non riesco a stare a letto, a fare una doccia, a concedermi un attimo di relax senza che tu mi torni maledettamente in mente! Io lo so, lo so che tu sei un errore, lo so che dovrei starti lontana, lo so perché ogni volta che mi sei vicino sento che potresti farmi di tutto, chiedermi di tutto... E non ti direi di no..." fece una pausa, come riascoltasse mentalmente ciò che aveva appena detto "...e questo non lo sopporto!", sbottò infine, riprendendo il tono definitivo di prima.
Continuavo a sentire un doppio fondo nelle sue parole: mi stava praticamente aprendo l'anima, ma non voleva più vedermi. Pensavo quel discorso non avesse molto senso e mi sentivo perplesso, ma non sarei rimasto lì ad aspettare, immobile, una chiarezza che evidentemente in quel momento non poteva esserci, né a fare un processo ad intenzioni che non volevano, era palese, essere svelate.
"Allora sarà meglio che io me ne vada…" dissi alzandomi in piedi.
Chinò semplicemente il viso verso i propri piedi scalzi, mentre una cascata dei suoi capelli ricciobiondi, come li chiamavo io, le copriva il viso alla mia vista.
Non ricevendo risposta feci per dirigermi verso il corridoio...
"Non voglio..!" quasi gridò. Mi volsi… "Non voglio che tu te ne vada ora..." mormorò, mentre sembrava parlasse più a se stessa che a me, continuando a fissarsi i piedi, "non riuscirei più a dire ciò che voglio dire... E a fare ciò che voglio fare..."
Sempre più perplesso, rimasi in piedi, sulla soglia del salotto. Attesi.
"Io lo so che tu sei un errore, so che mi farai del male, so che mi farai soffrire... Lo so... La mia mente lo sa... Ma il mio corpo non vuole saperlo... La notte non riesco a dormire e mi accarezzo pensando a te... Ma non mi basta mai, come non mi basteresti mai tu... E lo faccio ancora e ancora e di nuovo fino a sfinirmi... Finché non crollo... Finché il cuscino non è umido di sudore ed io lo abbraccio perché vorrei fosse umido di te..."
La mano che teneva in grembo, come immota e stanca, a palmo in su, scivolò come ipnotizzata sotto la stoffa del caftano ed iniziò a muoversi piano...
"Ecco... Vedi... Anche adesso... Sono bagnata... Eccitata... Ma non mi importa che tu mi veda in questo stato... Anzi. Voglio che tu mi veda... Voglio arrivare al fondo di questo pozzo di umiliazione... E poi finalmente risalire. Perché lo so, lo so che ora te ne andrai..."
Non dissi nulla. Ero senza parole. Rimasi inebetito a guardare... Proprio non mi aspettavo tutto questo...
"E allora guarda..." disse lei, prendendo forse il mio silenzio come un tacito assenso al suo timore "guardami mentre mi tocco per te..." sollevando il caftano ed abbassandone le spalline "guarda il mio seno... I miei capezzoli sono turgidi per te... Per colpa tua... Ed io ci gioco pensando a te, a come vorrei facessi tu..."
La mano tra le sue gambe aveva aumentato paurosamente il ritmo, sembrava volesse cavarsi fuori l'anima... Non era piacere quello, o almeno non lo sembrava, ma una tortura di orgasmi indotti, come se ogni sensazione fosse in realtà uno schiaffo, un insulto, un colpo di frusta che ella stessa s'infliggeva...E si stava umiliando in quel modo... Per me..!
Avrei potuto andarmene… O fermarla… Ma rimanere fermo a guardarla no... Non potevo... Non c'era più sensualità in lei... Era un gioco alla distruzione... All'autodistruzione...
"Guardami..." continuava intanto lei, imperterrita, lungo il suo precipitarsi agli inferi di se stessa, "guardami… anche lui pulsa per te... Ti vuole... Ti voglio dappertutto..." due dita erano già entrate dietro e ne scivolavano dentro e fuori, mentre l'altra mano faceva uno scempio feroce tra labbra e clitoride...
Mi avvicinai a lei di scatto, la sollevai tra le braccia in un abbraccio che prima di tutto la fermasse, la immobilizzasse...
"Ssshhh... Ssshhh..." cominciai a sussurrare. La prima cosa che mi fosse venuta in mente di dire, mentre le scostavo i capelli dal viso, cercando i suoi occhi ora increduli...
La sollevai di peso e la portai in camera da letto, la stesi sotto le lenzuola fresche di bucato... Mi spogliai e mi stesi accanto a lei... La guardai negli occhi... Non dissi né pensai più nulla...
La feci mia. E la feci sentire mia. Ancora… Ancora… E ancora... Finché la furia di entrambi non si placò e potemmo rimanere, immobili e sazi, l'una tra le braccia dell'altro.