Incubus

"Sei un'ossessione!" disse, il suo viso già illuminato da un calore purpureo. "Ti odio. Ti detesto..." quasi urlando...

"Sì, sì, tesoro, ti amo anch'io..." Risi, facendo un passo indietro

"No, tu no!" fissandomi negli occhi, affrontandomi. Poi, abbassando lo sguardo, abbassando la voce, "Sicuramente, non mi ami... Sono io la stupida che non riesce a toglierti dalla testa..."

Melanie, quante volte ero uscita con lei... quattro? Cinque? In? Un anno? Sei mesi? Non riuscivo nemmeno a ricordare... Mi aveva assediato di messaggi per giorni: sms, e‐mail, chat, qualsiasi cosa... Ma nessuna chiamata persa sul mio cellulare, nessun messaggio vocale sulla mia segreteria telefonica. Non messaggi diversi. Solo uno. Sempre lo stesso. "Vieni appena puoi". Nient'altro. Non una parola su cosa o sul perché.

All'inizio, non ci avevo fatto caso.

Ero stato impegnato con la revisione del mio ultimo articolo, un pezzo sugli effetti collaterali di una nuova generazione di farmaci neurolettici, da quando il mio caporedattore, il poco onorevole signor Richard, mi aveva chiamato un lunedì mattina con un tono anche meno amichevole del solito

"Ehi mister, lavori ancora per me? Il tuo ultimo pezzo è una merda! Eri ubriaco mentre lo scrivevi? So che il tuo contratto è da freelance ma abbiamo un accordo e se vuoi vedere qualcosa di nuovo sul suo conto in banca, muova le dita e lavoraci su! La tua scadenza è passata e non posso pubblicare simili sciocchezze!"

Avevo preso il telefono con gli occhi ancora chiusi e non avevo fatto nulla per nasconderlo, la bocca ancora secca e appiccicosa, la voce che proveniva dal sottosuolo

"Salve, Richard, cosa posso fare per te...?"

"Quello che ti ho appena detto! Hai 48 ore poi sei fuori da questo numero"

E il clic finale della chiusura della comunicazione.

Non ero esattamente ubriaco mentre scrivevo il pezzo. C’era qualcuno era seduto sulla mia scrivania, proprio di fronte a me, esattamente tra me e la mia tastiera e monitor, qualcuno di mentalità così aperta che... Non avevo prestato troppa attenzione e avevo inviato il mio pezzo senza una revisione. Ma avevo risolto il problema e Richard era tornato al suo solito amichevole tono ostile e ringhioso.

Nel frattempo, Melanie aveva portato avanti il suo assedio, che diventava il mio incubo ogni volta che guardavo il cellulare, aprivo il portatile e rispondevo alle e‐mail di lavoro.

Avevo anche provato a chiamarla, ma non aveva risposto al telefono. Rispondevo anche ai suoi messaggi, senza alcun cambiamento. Continuava ad arrivare solo lo stesso messaggio, "Vieni appena puoi". A un certo punto, pensai fosse una specie di risposta automatica e avrei dubitato fosse per me se non l’avessi ricevuto ad intervalli regolari.

"Che diavolo..." pensai, "Se avesse bisogno di aiuto, dovrebbe chiamare il 999, non me..."

Alla fine, decisi di andare, non tanto per il mio interesse nel rispondere a tali convocazioni, ma perché avevo perso la pazienza.

Arrivato a casa sua, un tardo pomeriggio, non ero nemmeno sicuro di trovarla lì perché i miei tentativi di contattarla erano tutti falliti.

Quando varcai la soglia, che avevo trovato guarda caso socchiusa, e mi trovai nel salotto d’ingresso, subito mi resi conto della tensione nell'aria, come elettricità statica depositata ovunque intorno. Sui mobili, sui tappeti, in ogni angolo della stanza. Attiva e inerte allo stesso tempo come un gatto rannicchiato su un divano che pur restando accoccolato non ti toglie gli occhi di dosso, senza muovere un muscolo ma pronto a saltare.

Melanie arrivò dal corridoio davanti a me indossando un lungo abito in stile indiano sulle cui spalline cadevano morbidi dalla sua fronte i suoi lunghi riccioli rossi, che le nascondevano in parte il viso. Anche la sua andatura sembrava morbida ma sicura e determinata, quindi non fui in grado di leggere le sue intenzioni.

Rimase ferma davanti a me per un paio di secondi, poi disse solo

‐ Fuori! ‐

Rimasi perplesso per un momento

‐ Scusami? ‐ risposi

‐ Ho detto fuori. Non voglio più vederti ‐

Rimasi colpito dalle sue mani, una celata in una specie di risvolto del vestito e l'altra, con le unghie perfettamente smaltate di rosso, puntata verso di me. No, mi sbagliavo, non verso di me, verso la porta dietro di me.

"Questa è davvero bella", pensai tra me

‐ Mi hai chiesto insistentemente di venire per dirmi questo? ‐ Sentivo di essere al limite della pazienza, “avresti potuto farlo per telefono, se solo lo avessi alzato! ‐ sbottai

E mi volsi verso la porta, sentendo già i fumi salire.

‐ No. Aspetta! ‐ quasi gridando

Non volli più trattenermi e mi volsi verso di lei

‐ Esci, aspetta... ‐ La fissai negli occhi ‐ Che diavolo vuoi? Ora. Subito ‐

‐ Io... ‐ esitando ‐ ho bisogno di parlarti ‐ disse, abbassando gli occhi

‐ Ti ascolto. Ora ‐ risposi, pensando già a quante altre cose avrei potuto fare in quel momento.

Chiedermi di venire per dirmi di stare lontano era un messaggio doppiamente contraddittorio, qual' era la verità? Cosa c'era sotto?

Per un attimo sembrò persa, come se cercasse qualcosa che non riusciva a trovare. Qualcosa da dire, forse. Poi la sua espressione mutò, sospirò profondamente e si lasciò andare, piuttosto che sedersi, sul divano, una gamba ripiegata sotto l'altra. Non mi mossi dalla mia posizione, tenendo le braccia incrociate e gli occhi puntati su di lei.

‐ Sei diventata la mia ossessione ‐ iniziò, infine ‐ Non faccio altro che pensare a te. Non riesco a stare a letto, a fare una doccia, a concedermi un momento di relax senza che tu mi torni maledettamente in mente! Lo so. Io lo so che sei un errore, lo so che dovrei stare lontana da te. Lo so perché ogni volta che mi sei vicino ho la sensazione che potresti chiedermi qualsiasi cosa, farmi qualsiasi cosa... E non direi di no... ‐ fece una pausa, muovendo gli occhi come se riascoltasse le sue parole, come realizzando ciò che aveva appena detto ‐...e non lo sopporto! ‐ con lo stesso tono acceso di prima.

Ero ancora esattamente lì, in piedi, ancora scettico riguardo ciò che stava dicendo: continuavo a sentire un doppio fondo nelle sue parole.

‐ Allora sarà meglio che me ne vada... ‐ e mi voltai di nuovo verso la porta, sciogliendo le braccia.

Lei chinò il viso, in silenzio, come se guardasse i propri piedi nudi, mentre una cascata di capelli rossi le copriva l'espressione.

Non ricevendo risposta mi avviai verso la porta

‐ Non voglio... ‐ mormorò

‐ Cosa? ‐ Non riuscivo a sentire le sue parole

‐ Non voglio che tu te ne vada adesso ‐ disse, a voce più alta ma atona come se parlasse più a sé stessa che a me, mentre continuava a guardarsi i piedi

‐ se te ne andassi adesso non potrei dire tutto quello che devo dire... né fare tutto quello che devo fare ‐

Sempre più scettico, rimasi in piedi vicino alla porta, in attesa. Le mie mani incrociate all’altezza della cintura.

‐ So che non mi fai stare bene, che mi farai star male, che mi farai soffrire. Lo so. La mia mente lo sa, ma il mio corpo non vuole capirlo. Di notte non riesco a dormire e mi masturbo in ogni modo possibile pensando a te che mi guardi, mi tocchi, mi parli. Ma non è mai abbastanza e lo faccio ancora e ancora finché non si esauriscono le forze, finché non crollo grondante sudore e vorrei essere bagnata di te invece ‐

Una mano che teneva immobile sul grembo, mentre parlava, scivolò sotto il vestito iniziando a muoversi lentamente sotto il tessuto.

‐ Ecco qui... Vedi? Sono fradicia... Ma non mi importa se mi vedi così... Anzi, è quello che voglio. Voglio raggiungere il fondo di questo pozzo di umiliazione... Cosi poi finalmente potrò tornare su... Perché so che te ne andrai... ‐

Non dissi nulla. Sentivo ancora che c'era qualcosa di sbagliato, qualcosa di diverso da qualsiasi altra situazione del genere. Mi chiedevo se quello che mi stava dando fosse rabbia... odio... o cosa...

‐ Guarda ‐

disse, forse leggendo il mio silenzio come una conferma delle sue supposizioni

‐ guardami mentre mi tocco per te... ‐

Svolse una fascia in vita e il vestito si aprì sul suo petto scivolando dalle sue spalle e rivelandole il seno

‐ guarda! ‐ disse ancora ‐ I miei capezzoli sono così duri per colpa tua... E ci gioco come vorrei facessi tu... ‐ mentre li pizzicava, li torceva e li tirava.

Il movimento tra le sue gambe era diventato convulso ma non riuscivo a percepirlo come un piacere. Non lo sembrava. Sembrava, invece, che ogni sensazione che lei si provocava fosse un insulto, un'offesa, una frustata che si infliggeva... Umiliandosi in quel modo... Per me...

Potevo andarmene, o fermarla, ma non restare a guardare. Non c'era più sensualità nei suoi movimenti, era come un gioco autodistruttivo.

‐ Guardami... ‐

continuava a dire mentre si metteva carponi per precipitarsi di nuovo nel suo mondo sotterraneo

‐ guarda la mia fica fradicia e gocciolante e il mio culo che pulsa per te... ‐ due dita erano già dentro il suo culo che spingevano e cercavano di fare spazio alle altre mentre la mano sul suo sesso correva ossessivamente sul clitoride, saliva verso la sua bocca scivolandole tra le labbra e sulla lingua, poi calava afferrandole i seni, torturando ancora i capezzoli e poi di nuovo giù tra le gambe a scavarle il piacere sempre più a fondo.

Vedevo il suo sesso colare gocce dense e lattiginose, il suo culo spalancato colare fluidi... la sua bocca si muoveva come se stesse leccando qualcosa con la lingua che si muoveva come impazzita in ogni direzione possibile, gocciolando saliva che poi si leccava via dalla pelle... I suoi occhi annebbiati per i molti orgasmi che si stava procurando...

Quella non era fame di piacere, ma fame di distruzione, come se si stesse precipitando verso l’annientamento...

Per me...?

La presi tra le braccia, lei non ebbe nemmeno il tempo di realizzare cosa stava accadendo, corsi attraverso il corridoio, calciai la porta due volte, una per aprirla, una per richiudermela alle spalle, la adagiai sul letto e mi saziai della sua fame. Ancora e ancora, urlando e ringhiando, mordendo e graffiando, leccando, afferrando, succhiando, affondando...

Finché entrambi non fummo sazi e non avemmo più forze.