INQUIETUDINI DI CERA - Il sapore della salsedine tra le dita (estratto)
Dal tuo scritto colgo che anche tu hai negato alcuni aspetti della tua vita. In passato, vedendoti sempre così solare e sorridente nonostante le difficoltà, ho confuso la tua spietata voglia di andare avanti con un modo facile che sapeva di superficialità. La tua filosofia di vita contrastava troppo la mia visione stagnante del risolvere i problemi del passato e poi poter vivere. La cosa ti faceva sempre incazzare, mi ripetevi che io più di te avevo dei genitori che si erano presi cura di me, soldi e quindi la possibilità di realizzare ogni minimo sogno con facilità. Universitari fuori sede con un futuro da costruire, sogni da realizzare con entusiasmo, cosa importavano le sofferenze del passato?
Conoscendo la tua storia, ti chiedo ora scusa.
A quanto pare, se in Italia vuoi vivere serenamente in società, devi rinunciare a te stesso, conformarti alle regole e diventare un bamboccio senza autonomia di pensiero e valutazione.
Se davvero riuscissimo in questo, ad adeguarci all’imposizione dei luoghi comuni e a divenire creature omo‐logate come gli altri ci desiderano, saremmo realmente felici? O vagheremmo storditi, come sulle rive dell’Acheronte, anime senza meta per il resto della nostra esistenza?
Io non voglio fare finta, io voglio essere e sentirmi vivo, è un desiderio cosi semplice! Cos’è la felicità se non il vivere in armonia con se stessi e con il mondo circostante, senza dover essere costretti a rinchiudersi nella propria solitudine o in mondi interiori per sopravvivere? E ai visionari come noi do‐mando ancora: “siamo nati nell’epoca giusta?”, oppure la no‐stra follia, le nostre anime, i sentimenti, il sapere sono così avanti con i tempi che spetta proprio a noi cambiare il destino triste delle persone, e dare loro una speranza in più, essere testimoni della purezza dei nostri amori, del nostro essere?
Far capire che essere diversi, per noi, non vuol dire nulla, non sperimentiamo il senso di colpa. Perché la diversità è uno stato d’animo, non esiste.
Se fosse davvero possibile esserne testimoni, le sofferenze patite avrebbero un senso e in fin dei conti capirei… godendo del presente, che i miei dolori, gli squarci dell’anima non sono stati inutili. Procrastinando l’elusiva attesa del cambiamento ci osserviamo e sosteniamo a vicenda, sopravviviamo dando alle nostre inquiete anime cibo di filosofie, sogni di speranze.
Come Icaro, personaggio della mitologia greca di cui porto il nome, diveniamo l’allegoria personificata di chi, per staccarsi dalla realtà ostile, perde le sue ali di cera e precipita a terra. A ogni tentativo vano, nonostante le ferite, ne costruiamo di nuove per tentare ancora. La fiamma delle candele consumate scandisce il tempo della nostra ostinazione, consapevoli che un giorno riusciremo finalmente a volare.
Orsù dimmi: quale amore negato di libertà, indipendente‐mente da razza, sesso, cultura o epoca non farebbe questi di‐scorsi? Rifletto, mi struggo, non trovo ragione e i miei pensieri si confondono e contraddicono cercando una spiegazione logica a qualcosa che logico non è. Ehi... io sono qui, sono Icaro! Non sono un personaggio mitologico ma una creatura in carne e ossa. Vivo, perché fate finta che non esista?
Tacendo l’ardore del sentimento e l’estro di questo mio pseudo‐carme, metto via lo spartito di questo monologo e scendo dal palco di questo teatro di sordi. A te, mia speranza, porgo una rosa bianca e ti reco ragione mio caro. Amare, do‐nare e ritrovarsi sono sentimenti comuni che tutti inseguono e che qualcuno, alla fine, in qualche modo raggiunge.
Tocca a noi dare un contributo per cambiare il mondo, con‐siderando che i diritti sono prima di tutto una vittoria sociale poi politica. Nessuno può costringerci a cercare una felicità di‐versa dalla certezza del tepore familiare.
Anch’io desidero esser partecipe della Dolce Vita italiana, viverla di latina passione passeggiando mano nella mano con il mio ragazzo per le strette vie acciottolate e illuminate da antichi lampioni; godere di un bacio al Colosseo; aspettare abbracciati il tiepido tramonto su una panchina lungo il Tevere, mentre la nostra canzone viene suonata da lontano. Affittare una macchina e passare le domeniche viaggiando tra i verdi paesini dell'Umbria, o andare ad assaggiare i vini della soleggiata Toscana. Il giorno di San Valentino poi, recarsi a Mantova e scimmiottare la nostra storia d’amore quasi impossibile: Romeo e Giulietta del ventunesimo secolo.
Noi giovani Montecchi e Capuleti, generazione d’ipotetici falliti sognatori che non hanno vissuto la cultura del delitto d’onore e la vittoria del femminismo. Noi, chiamati all’amore, vittime di stati vitali dove dignità e rispetto familiare era‐no/sono alla base della società. Noi educati da figli di una cultura che non ci appartiene.
È assurdo, rivoltante pensare che alle soglie del duemila due giovani ragazzi come noi debbano nascondersi per potersi amare e sostenere discorsi sul mancato riconoscimento della società. Mio dio Toshi, mi sembrano parole dure fuoriuscite dalle bocche di personaggi storici della Rivoluzione Francese o della Carboneria, di briganti moderni alla ricerca di riscatto sociale.
Nelle lettere che Oscar Wilde scriveva dal carcere al suo amato, il grazioso ragazzo dal cuore degno di un Cristo, sugge‐riva di partire alla volta dell’Italia per continuare a scrivere quelle poesie che sapeva comporre con grazia così strana. A distanza di un secolo, la speranza ha abbandonato il Tevere fluendo sul Tamigi. Sono sicuro che anche noi un giorno, ri‐leggendo queste lettere, rideremo e ci faremo beffa di quest’epoca che rinchiude le nostre anime in campi di concen‐tramento dell’esistenza relegandoci all’isolamento sociale. Una Shoah fredda, moderna e noi repulsi testimoni, deportati sopravvissuti a questo inspiegabile e antiquato massacro di libertà d’espressione.
Dovremmo smettere di vivere nascosti, di aver paura di essere noi stessi e di amare. È la vergogna di quel che si è che esaspera gli insensati pregiudizi, il nostro scopo d’ora in poi sarà quello di decidere che dobbiamo educare la gente al suo concetto di diversità. Spiegando che la declinazione più pura di normalità è essere se stessi, con le proprie virtù e anomalie. D’altronde…
“io desidero quello che possiedo; il mio cuore, come il mare, non ha limiti e il mio amore è profondo quanto il mare: più a te ne concedo più ne possiedo, perché l'uno e l'altro sono infiniti .”
In tutto questo caos di miei bizzarri richiami a pure storie d’amore vissute una cosa è certa, non siamo stati noi a scegliere le nostre famiglie. Anche se nutriamo rancore, siamo figli di altri figli, vittime di altre storie e sbagli commessi prima delle nostre nascite. Sappiamo questo, è ovvio, eppure non ne comprendiamo ragione.
Come tu non sapevi della mia adozione, io non sapevo che fossi figlio della Quarta Mafia. Non sapevo che rinunciando a seguire le orme del tuo clan, hai subito violenze e sofferenze gratuite da parte di chi ti ha cresciuto, perché non era capace di comprenderti. Rifiutavano di informarsi su un mondo che non li riguardava. Picchiato, scacciato, privato del basilare affetto per colpa di quello che saresti diventato un giorno. Un bambino, cosa sa del sesso?
La tua felicità, in confronto alla perdita di virilità e autorità del proprio cognome, non valeva nulla. Il tuo handicap era un peso insopportabile per la famiglia Martini preoccupata dell’andamento dei propri affari illeciti.
Crescere e portare allo stato cosciente quello che sei, ti ha fatto sentire per molto tempo inadatto. Incompreso e discri‐minato dalla società perché figlio di mafiosi, dalla Chiesa per‐ché omosessuale, dalla tua famiglia perché non divenuto un essere omologato. Il tutto contestualizzato in una città dell’Italia meridionale che fa a cazzotti tra stagnanti e arcaiche tradizioni locali, vivendo il riflesso delle glorie dei propri avi, e la giovane voglia di rinnovamento e sogni delle nuove generazioni. Uno spaccato sociale antropologicamente interessante, in cui tutti combattevano contro di noi. Figli di una stirpe di disillusi, cresciuti essendo derisi e insultati da gente fallita, che a sua volta vedeva il riflesso della sua frustrazione. Additati come generazione senza valori e sogni, mentre noi vivi camminavamo tra i morti viventi.
Educati al pudore di Dio, indotti al rogo esistenziale a causa del nostro destino ribelle, abbiamo dovuto cercare la verità dentro di noi. Amarsi e accettare la propria unicità sono stati passaggi dolorosi per noi, che da bambini portavamo orgogliosi il Sangue di Cristo all’altare.
Incompresi, mostri o esseri umani? So cosa siamo, semplici anime vittime di un malsano sistema culturale.
Come sai, nessuno può trattenere per sempre quello che è realmente e, stanchi di sopravvivere, alcuni fuggono lontano smettendo di essere figli. Divenendo instancabili nomadi alla ricerca d’affetto, questi gli stati d’animo che ci hanno fatto in‐contrare nella città umbra tra Roma e Firenze. Questo senso di libertà, di gioiosa speranza in un futuro migliore ma anche di non appartenenza e di rigetto sociale ci ha uniti. Ci ha reso consapevoli di essere fantastiche persone alla ricerca di un posto nel mondo, impavidi ribelli fiduciosi delle proprie ostinazioni positive. Turbolenza solo per urlare gioiosi al cielo che esisteva davvero quel qualcosa in più oltre il naso dei nostri educatori! Quel qualcosa che ci aveva reso spiriti inquieti.
Trepidazione, furia, impazienza, lacrime che si trasforma‐vano in un futuro di speranza, la tanta agognata e sospirata innocente fuga da casa. Andare a studiare in una città lontana. Esiste un termine che possa mai comprendere le passate emozioni vivendo l’attesa dei diciotto anni per rendersi liberi?
Tanta enfasi e gloria in questi pensieri, riflessioni e conti‐nua retorica che richiama le mie ali di cera al sole, tanto da permettere che un sorriso di rassegnazione ne spenga l’entusiasmo. Che confusione che c’è in me, o forse è la società che è confusa? I miei pensieri a volte sono vicini al corto cir‐cuito e sfiorano la follia. Troppi demoni albergano il mio ani‐mo e trattengono la mia libertà di essere. Paure che sbagliando ancora una volta la gente possa entrare nel mio mondo interiore per distruggerlo. Chi non ne sarebbe terrorizzato?
Quasi contraddicendomi mi ripeto in quest’oceano di parole, a me non importa quello che la società pensa, ma ne sono automaticamente sottomesso perché voglio farne parte. Toshi, stiamo crescendo! Non voglio più fare passi falsi. L’unica cosa che posso fare in questo momento, è mettere la giacca sopra al pigiama e recarmi al West Pier, il molo abbandonato in mezzo al mare. Sedermi sulla sabbia a osservarlo, accendermi una sigaretta, prendere un teschio in mano e lasciarmi andare a un retorico dramma.
“Essere o non essere, questo è il problema: se sia più nobile d'animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell'iniqua fortuna, o prender l'armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli. Morire, dormire, nulla di più, e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne, è so‐luzione da accogliere a mani giunte.
Morire, dormire, sognare forse: ma qui è l'ostacolo, quali sogni possano assalirci in quel sonno di morte quando siamo già sdipanati dal groviglio mortale, ci trat‐tiene: è la remora questa che di tanto prolunga la vita ai nostri tormenti.
Chi vorrebbe, se no, sopportar le frustate e gli insulti del tempo, le angherie del tiranno, il disprezzo dell'uomo borioso, le angosce del respinto amore, gli indugi della legge, la tracotanza dei grandi, i calci in faccia che il me‐rito paziente riceve dai mediocri, quando di mano pro‐pria potrebbe saldare il suo conto con due dita di pugna‐le? Chi vorrebbe caricarsi di grossi fardelli imprecando e sudando sotto il peso di tutta una vita stracca, se non fosse il timore di qualche cosa, dopo la morte, la terra inesplorata donde mai non tornò alcun viaggiatore, a sgomentare la nostra volontà e a persuaderci di sopportare i nostri mali piuttosto che correre in cerca d'altri che non conosciamo? Così ci fa vigliacchi la coscienza; così l'incarnato naturale della determinazione si scolora al cospetto del pallido pensiero. E così imprese di grande importanza e rilievo sono distratte dal loro naturale corso: e dell'azione perdono anche il nome... ”
In questo scenario di buffa e voluta atmosfera di solitudine, sono sicuro che Shakespeare sarebbe fiero di avermi come assistente drammaturgo.