Internazionale con filtro
L’ascensore fila veloce e silenzioso verso il quinto piano del Grand Hotel ***.
Il lift‐boy, un giovane bianco, forse studente universitario, manovra la pulsantiera, esibisce belle maniere, e accenna sorrisi rispettosi.
La mia suite non è del livello a cui sono abituato, non manca nulla, bagno con idromassaggio e doccia, minibar, televisione al plasma, aria condizionata, letto king size, impianto stereo di marca. Ma è tutto eccessivamente decorativo, quasi barocco. Il design non è di mio gusto. Preferisco le cose moderne, lo stile asciutto ed elegante. Se dovessi fare l’architetto o il designer saprei bene come orientare il gusto delle persone. Avrei molto da insegnare.
Ma il mio campo è tutt’altro.
La clientela che ho incrociato, nella hall e nei corridoi, è la solita miscela internazionale: managers in viaggio d’affari, turisti facoltosi, qualche modella, diplomatici, mafiosi, puttane d’alto bordo, faccendieri assortiti.
Sono arrivato da appena due ore e già mi sento depresso. L’atmosfera da grand hotel, fatta di lusso, suoni ovattati, sorrisi servizievoli, non mi incanta più da molto tempo. Essere trattato da vip, significa essere vip. Non interessa a nessuno cosa fai per vivere, come ti guadagni il denaro che spendi. L’importante è che puoi permetterti di pagare 400 euro a notte.
Elisabeth non arriverà a Londra prima di sera, è stata trattenuta all’ultimo momento, per una riunione del consiglio d’amministrazione. Un’emergenza finanziaria. Qualunque cosa significhi.
O forse sta solo rimandando il nostro incontro. Forse è stanca della nostra storia, di me, e prolunga le nostre lontananze ad arte.
Entro nella suite, mi guardo intorno, è tutto perfetto. Il letto perfetto, ogni cosa perfettamente posizionata, come solo nei grandi alberghi. Vado in bagno, tutto perfetto. L’odore tenue e gradevole, di pulizia accurata, ma non invasivo, è la cosa che più mi piace della vita da grand hotel. Forse mi sono adattato soltanto per pigrizia, per non dover badare alle pulizie, alla spesa, all’ordine.
O forse soltanto perchè non ho una casa veramente mia, una città a cui senta di appartenere, nè un paese.
Essere un intellettuale, per quanto brillante, un famoso letterato, è appagante sotto molti punti di vista. Ma non rende più partecipi del mondo e della vita. Il rispetto ossequioso della gente, la loro ammirazione, non migliora la comunicazione, tutt’altro.
Sono un uomo di cultura. Ma la cultura è una faccenda assai evanescente. Molto relativa.
Ognuno ha un suo concetto di cultura, di sapienza, di conoscenza. La bella donna che ho incrociato in corridoio ad esempio, elegante, raffinata, sicuramente acculturata, probabilmente estimatrice d’arte, chissà quale. Mi ha elargito un signorile e complice sorrisino. Ovvio, sono elegante, abbastanza piacente, e se ho la chiave della suite vuol dire che sono al suo livello. Non ha pensato nemmeno per un attimo che potrei essere un killer, o un trafficante di droga, o peggio.
È questo il filtro internazionale del denaro. La consapevolezza che se si frequentano gli stessi luoghi di lusso, in qualche modo si è simili, alla pari. Anche se molti lamentano l’abbassamento del livello, deprecano l’accesso al loro mondo da parte di parvenue di dubbia origine e ancor più dubbio gusto.
Ma è come una grande famiglia, dove ci sono i patriarchi e le matrone, ci sono i parenti collaterali, magari meno fortunati o meno dotati, e le pecore nere. Però tutti partecipi della stessa condizione elitaria.
L’educazione è d’obbligo, il gossip è l’immancabile farcitura, la riservatezza è tutto.
Penso sempre a quali e quante pratiche illegali, immorali, e perfino criminali si consumano nelle camere e nelle sale private dei grandi alberghi internazionali. Nell’atmosfera lussuosamente compassata, dove la privacy è garantita, ognuno fa quello che gli pare, basta che non rechi disturbo o imbarazzo. Scaltrezza di classe.
Suona il telefono, sul comodino di mogano intarsiato eccessivamente, un trillo pacato.
Rispondo. C’è una telefonata per me da New York. È Elisabeth. Ha perso il volo, arriverà domani in giornata.
Mi rassegno a vivere altre 24 ore di questo limbo confortevole e distaccato dal mondo.
Accendo una sigaretta e mi stendo sul letto. Gli alberghi sono gli ultimi luoghi chiusi rimasti, dove puoi fumare, almeno in alcune delle stanze. Prodigi del denaro. Un servizio per ricchi deve assecondare anche i vizi, nei limiti del possibile.
Fuori dalla vetrata si vede il panorama della city. Potrebbe essere una qualunque metropoli del mondo. Soprattutto vista da un grand hotel, il luogo più standardizzato che esista, standardizza anche i pensieri e le sensazioni.
Scendo al bar, anche se so già come sarà, deserto, con il barman che si ammazza di noia, ma non lo dà a vedere, disposto perfino a chiacchierare, se il cliente ne ha voglia.
Straordinario privilegio quello degli ambienti per ricchi, poter vivere come se nessuno possa toccarli, isolati e solitari, come avvolti da un velo impalpabile ma invalicabile. Un bar così deserto fallirebbe in una settimana, ma qui è un servizio dovuto.
Ordino un martini, che fa sempre chic. C’è solo un altro avventore, un uomo sulla sessantina, grasso, sicuramente un uomo d’affari. Li riconosci perchè sono quelli che più esibiscono maniere discutibili, come se dicessero “io lavoro come una bestia e guadagno montagne di soldi, mica come voialtri, ereditieri o peggio, parassiti che ciondolate per il mondo”. Infatti se ne sta sbracato, con la giacca aperta, la cravatta allentata. Ci manca che si tolga le scarpe.
Ecco, mi accorgo da solo, che penso e, se non fossi da solo, parlerei come tutti gli altri in questo empireo di marmi e tessuti pregiati. Gioco a fare lo snob. Ridicolo.
Esco a fare quattro passi. Londra è sempre una città interessante, magari mi spingo fino ad Hyde Park e mi sdraio un po’ sull’erba, se il tempo rimane soleggiato. Ho bisogno di sentire il cicaleccio della gente normale.