Invaders

“Cosa c’entra ‘sto calendario?”
Con la velocità di un fulmine, e con lo stesso effetto stordente del tuono, la sua mente rievocò le parole pronunciate quasi quarant’anni prima da don Mario, il caro vecchio prete che per lui era stato quasi un padre, quando stupito e scioccato lo fissò, sommerso dalla vergogna, sprofondato in un buco tenebroso, mentre sfogliava quello da sempre definito ‘oggetto del peccato’.  “Buttatelo via. Mettete questo. Caro artigiano, cosa c’entra in tutto questo contesto?” Le parole erano le stesse, cambiava solo l’immagine e la situazione: al posto delle gambe della Edvige Fennech, si trovava la dettagliata foto di un pulcino che si strusciava con un coniglietto. Solo un pervertito avrebbe potuto reputare ‘oggetto del peccato’ una simile immagine.  Fatto sta che il calendario fu buttato nel cestino: un’altra sua cosa gli veniva strappata e buttata via per lasciare spazio ad altre, più vistose e degne di nota. Era da due giorni che il suo laboratorio veniva messo a ferro e fuoco dagli invasori, molesti emissari di un fato cattivo e contrario. “Metti questo, dà l’idea dell’antico.” Un’orrenda pergamena gialla fu messa sul muro. Qualche giorno prima quel muro era illuminato da un’unica fonte di luce costituita dalla porta a forma di P ribaltata (‘segno dell’influenza veneziana sul luogo, come aveva cercato di spiegare invano agli invasori per destare in loro interesse e pietà per il suo sacro laboratorio) e dal calore emanato dalla fornace; un chiarore calmo si stendeva sugli attrezzi antichi, sull’incudine ormai bicentenaria e sui suoi cari e amati martelli, dono di famiglia, tramandato amorevolmente di padre in figlio per secoli e secoli. “Cioè,  mi fate sostituire il mio calendario con uno dei primi del ‘900 mentre prima avete messo al posto dei miei vecchi martelli, 'sti attrezzi tanto moderni quanto inutili?Non sono neanche di ferro… è plastica” “Ci sponsorizza Ikea… mi dispiace, ma dobbiamo farlo. Quindi tienili sempre ben in vista.” A partire dallo svedese profumo nuovo di zecca che proveniva dai suoi arnesi, tutta la stanza era ricoperta di fili su fili, telecamere dappertutto, lampadine su lampadari. Il limite massimo consentito dalla sua calma ascetica stava raggiungendo l’ultima portata permessa, quando lo obbligarono a indossare gli occhialetti da lavoro: parevano mascherine da piscina con influenze gotiche ‐ contemporanee, un vero e proprio risultato dell’ingegneria moderna, alquanto penoso. “Ora serve la tuta da lavoro.” La scelta peggiore che aveva fatto in trent'anni di carriera era stata quella di firmare il contratto con ARTIGIANO TV: 500€ per documentare la sua giornata lavorativa di ogni giorno, nel modo più realistico possibile. Peccato che fosse stato lui a essere sotto i loro ordini e non il contrario. L’unica clausola scritta a caratteri millimetrici e messa al contrario sul contratto era quella di permettere alla redazione di fare tutto quello avrebbero voluto fare con la stanza, con gli attrezzi e con lui stesso. La tuta da lavoro sembrava una normale tuta da lavoro blu da operaio della fiat anni '50 o da idraulico, normale, senza eccessivi difetti. La poteva indossare senza troppi problemi. “Tieni bene in vista quella targhetta. E’ di Roberto Cavalli, un nostro sponsor. E ogni tanto fai riferimento all’ippica… un po’ di pubblicità subliminale non guasta mai…” Ora aveva voglia di darsi fuoco. Un bonaccione come lui, abituato da sempre ad una vita del genere, sarebbe impazzito in mezzo a quell’accozzaglia di gente che rappresentava le peggiori nefandezze del popolo italiano: superiorità e altezzosità da milanese, simpatia ipocrita toscana, disponibilità genovese, dolcezza nei modi di fare da napoletano e alla fine… dialetto romano… e quel piccolo coso, che gli gironzolava intorno fin da quando erano arrivati, una piccola tappa, una cosa dai capelli sciolti sulle spalle e sguardo da tipetta ‘brava e furbetta’, raccoglieva in sé tutte le qualità sopracitate. Si chiamava Rita, da come aveva intuito prima, e aveva iniziato ad urlare con una vocina squillante e pesante allo stesso modo. “Iniziamo subito”. Dopo venti minuti di discussioni su luci, audio, qualità video e appartenenza delle birre dimenticate sul tavolo, le riprese iniziarono. “Allora” falso sorriso della presentatrice, una focosa e attraente bionda dalla voce squillante che prima aveva tentato di evitarlo a più riprese “buon giorno signor…” “Michele d’Ascenzo.” “Mio dio” risposero tutti all’unisono. Tutte le targhette che riportassero scritte il ridicolo nome‐tabù, furono eliminate e sostituite con la scritta ‘Censino’. Un soprannome sempre a portata di mano, dettato dai rigidi canoni di Artigianato Tv, contestato dallo stesso Michele: il suo vero soprannome era Bomba. Ciò fece impallidire tutti. “Lascia stare… ora torniamo a noi. Appena finisco, tu dici ‘molto bene, grazie a tutti è per me un grande piacere essere intervistato da una giornalista del tuo calibro in una tv come Artigianato Tv, la mia preferita ormai da quasi sempre.’ Dai, torniamo con le riprese.” Silenzio… “Allora signor Censino…”lo si notava dall’espressione che non gli piacesse molto come stava recitando, ma non per questo interruppe la registrazione. “Come si sente adesso?” “Molto bene, grazie a tutti, è per me un grande piacere essere intervistato da una giornalista del tuo calibro in una tv come Artigianato Tv, la mia preferita ormai da quasi sempre.” Nonostante sembrasse una recita scolastica, tutta la compagnia applaudì svogliatamente. Lo notò, ma continuò con il discorso che gli era stato preparato fin dall’inizio. Dopo una buona mezz’oretta il supplizio ebbe fine. Per fare delle veloci riprese del locale, gli fu intimato di rimanere fermo e non muoversi da dove si trovava per qualche minuto: dopo due ore i muscoli si erano atrofizzati e la fronte, imperlata di sudore, era scivolosa tanto quanto una tavola da surf. Il caldo che proveniva dalla fornace accesa, a pochi passi da lui, era insopportabile. Dopo un’altra mezz’ora di riprese, gli fu concesso di raccontare la breve, ma ‘appassionante e sconvolgente’ (così fu presentata dalla tappa con l’aria da dura), storia del laboratorio. “Il laboratorio ha una storia molto lunga…” Il cameraman si passò il dito attorno alla gola fissandolo agguerrito “… ma interessante… e veloce… all’inizio questo era un laboratorio fondato da artigiani veneziani lavoratori dell’oro, venuti qui nel ‘400, che portarono nella nostra zona l’arte della lavorazione dell’oro e del ferro… lo si nota dalle porte a forma di "P" all’incontrario e dalle… ” tutta la compagnia Tv mostrava le sciabole e gli spadoni che lui aveva perso e che non ritrovava da tempi immemori, come ultimo segno di avvertimento. “Fatto sta che nel 1857, il mio bisnonno riuscì a prendere possesso del locale e a farne un laboratorio di lavorazione del ferro, per elementi decorativi per le case, soprattutto.” “Aspetta un attimo? 1857? Così vicino a noi?” Al primo cenno di assenso, scoppiarono i mormorii di protesta, sedati non appena tutti gli 8 vennero trasformati in 6, i 5 in 3 e i 7 in 1. 1631 era una data migliore, più antica, più folkloristica, più tipica del 1857, secondo la presentatrice. Inoltre, alla storia venne aggiunta la leggenda del corsaro spagnolo che, arrivato in zona, fece amicizia con il fabbro, sostenendo che egli aveva la faccia da Censo… da allora ogni fabbro in zona è chiamato Censino… La storia faceva letteralmente ribrezzo, ma dovette raccontarla interessato, dall’inizio alla fine. Il momento, forse, più importante era arrivato: la lavorazione vera e propria… poco prima aveva disposto un pezzo di ferro affusolato dentro il forno, per riscaldarlo e poterlo lavorare… “Inizia il cosiddetto processo di forgiatura” disse in modo abbastanza sommario la presentatrice, distogliendo annoiata lo sguardo dall’artigiano: lui, al contrario, si divertiva, mentre prendeva con le pinze il pezzo rovente di ferro, mentre lo poggiava sull’incudine e iniziava a prendere gli altri arnesi. Ora aveva iniziato a battere il ferro divertito, come aveva sempre fatto con passione e con gusto, con la stessa voglia di un chitarrista che si destreggia con la propria Fender e con la stessa forza di un macellaio che squarta il vitellino appena arrivato docile tra le sue braccia, senza importarsi di nulla, senza alzare lo sguardo attento dai ferri del mestiere. Quando si fermò,notò che tutti se ne erano andati già da un pezzo: lo avevano lasciato solo, in pace, nella più profonda calma, con un solo segnale d’avvertimento minaccioso, un pugnale buttato a terra: a domani per la seconda parte della trasmissione. Rabbrividì al solo pensiero di altri momenti da passare in compagnia di quegli invasori che gli avevano distrutto la gioia di un’altra giornata da solo al lavoro. A questi soli pensieri la cena pareva aspra, l’acqua insipida, quella tv che lo aveva assillato per tutto il tempo troppo frastornante e impertinente, i figli e la moglie seduti a tavola con lui tanto fastidiosi quanto inutili, tutto guastato dal gusto amaro e insensato che aveva provato fin da quando erano arrivati gli invasori. Dopo venti minuti giaceva inquieto nel letto, con il volto confuso verso il soffitto sbiancato, senza essere né in vena di coccole né di effusioni, con l’unica voglia di urlare sottovoce la sua rabbia a sua moglie pur di sfogarsi. “Alla fine doveva essere qualcosa di bello, perché vero, utile, reale. La trasmissione lo sta trasformando in una farsa, fatta solo per allietare il sonno di qualche pensionato senza nulla da fare o recuperare un po’ di audience mostrando solo cazzate.”
Lei si girò: ma non aveva il solito viso, non troppo attraente ma pur sempre familiare e rassicurante della moglie. Era l’altra. La tappa con l’espressione da dura. Lei che lo aveva tormentato tutta la giornata. “Hai firmato il contratto, non ricordi?” Il sorriso le si aprì mostrando i denti smaglianti ma pur sempre aggressivi e inquieti, il dito indicò l’armadio dal quale uscirono i cameraman, i vari capo redazione, i camionisti, i telecronisti e tante altre persone che erano state a fare le riprese, armate tutte di mazze da baseball. Loro lo accerchiarono, lui iniziò a sudare, voleva gridare ma non ci riusciva, voleva scappare ma era inchiodato nel letto. Le ultime parole che sentì. “Ma lo dobbiamo firmare il contratto?” “Ma lo dobbiamo firmare il contratto?” Le stesse parole sentite, però dette da sua moglie. Si stropicciò gli occhi, guardandola confuso. “Allora che facciamo, amò?” Solo un incubo.  “Lo so io. Cosa fare!” Sapeva di non dover permettere la realizzazione di un incubo che non avrebbe dovuto avere seguito nella realtà. La mattina dopo, al risveglio, tutta la famigliola trovò il proprio padre rannicchiato sul tappeto: un martello Ikea a terra, la Tv ridotta a un mucchio informe di frantumi, fili e pezzi di vetro, mentre un ammasso di cenere ricopriva il luogo dove prima si trovava un foglio su cui era scritto ‘contratto’. Giustizia era fatta.