Jennifer. Bangkok
Ti chiamavi Jennifer, ma avevi occhi a mandorla e pelle ambrata, lisci capelli scuri e l'aria smarrita di chi, nonostante la vita non glielo permetta più, è ancora innocente dentro. Jennifer e' il nome che tua madre ti diede sperando ti portasse fortuna, un nome occidentale, nell'estremo oriente thailandese, quasi in pegno per una vita di riscatto. Ma non c'era stato riscatto, tuo padre se ne andò, lasciando tua madre e i tuoi quattro fratelli e portandosi via ogni speranza. Ci ha provato, tua madre, a lottare, a lavorare, a cercare in ogni modo di lasciarvi crescere dignitosamente, ma eravate troppi, troppo poveri, troppo soli. Quel giorno eri andata in città, dovevi comprare qualcosa da mangiare, avevi un abitino liscio,chiaro, che lascia intravedere le tue gambe magre e nessuna forma di donna. Tredici anni e ne dimostravi dieci. Ma questo, tu ancora non lo sapevi, era un punto a tuo favore per i predatori che si aggiravano aspettando le loro vittime tra le vie di Bangkok, predatori di carne, sanguisughe di vita, invasori da ogni parte del mondo che volevano comprare, e occupare, coi loro membri adulti, e le loro anime marce, corpi di bambine. Tu ancora non lo sapevi cosa voleva quel signore alto e biondo, che ti avvicinò con fare gentile, parlava in inglese e un poco lo capivi,tua madre in qualche modo era riuscita a farti vedere qualche DVD americano, cartoni animati,film, trovati chissà dove, perché la sua Jennifer imparasse l'inglese...e tu lo avevi imparato, dotata e veloce. Ti stava chiedendo se volevi mangiare, forse non avresti dovuto, ti dicevi, ma avevi fame, tanta fame. Mangiavi, mentre lui riempiva di complimenti e passava la sua mano ruvida sul tuo braccio nudo. Tirò fuori un sacchetto e te lo mise in mano: "Guarda!" A malapena capisti che erano rossetti, ne prendesti alcuni e li apristi, colori vivaci, vistosi, come quelli che vedevi sulle bocche di tante ragazze di Bangkok. Lo guardasti, interrogativa. ‐"Te li regalo tutti se nei prossimi giorni vieni in città e passi un po' di tempo con me, ogni giorno ne metti uno diverso, ti comporti in modo carino con me e io ti do dei soldi per la tua famiglia". ‐"Va bene?" Confusa rispondesti di sì e accettasti di tornare l'indomani,in quello stesso locale dove ti aveva portata a mangiare. Volasti a casa, quasi felice, col tuo sacchetto pieno di rossetti coloratissimi dentro un involucro argento e appena arrivata li mostrasti a tua madre. Lei capì. Capì e avrebbe voluto urlare: ‐" Noooo! Jennifer, noooooo!!!". Avrebbe voluto spiegarti tutto, ma non lo fece,tacque, disperata e sconfitta, consapevole che, forse, immolando la sua bambina avrebbe salvato i suoi figli più piccoli. Uscisti il giorno dopo, un rossetto color fuoco sulle labbra, la gonnellina corta, la maglietta aderente a mostrare il tuo torso di bambina, coi soli capezzoli accennati, e quelle scarpe col tacco troppo alto che tua madre t'aveva dato e ti facevano male ai piedi. Era buio quando tornasti a casa e tutto era diventato chiaro e terribile. Il tuo esile corpo impregnato di umori e secrezioni di un uomo che ti aveva adoperata come aveva voluto. Un dolore acuto ti trafiggeva, stuprata, da chi ti ha voluto credere bambola consenziente per il suo lordo piacere. In mano avevi alcuni dollari e sulla bocca, sul collo, tracce sbavate del tuo rossetto. Lacrime scendevano silenziose, rassegnate. Avevi capito. Tua madre ti abbraccio' e pianse con te. Col dorso della mano asciugasti le lacrime: "Domani...domani metterò un altro colore".