Kappler
Una mattina di aprile del 1967, il mare è un pozzo blu in fondo alle grate delle finestre. Millequattrocento passi separano due uomini sconfitti dalla storia, nel braccio più isolato del vecchio castello angioino di Gaeta.
Herbert Kappler, ufficiale delle Ss, comandante della Gestapo nella Roma occupata dai nazisti. Walter Reder, ufficiale delle Waffen‐Ss, comandante del 16º reparto corazzato ricognitori nel centro Italia. Due pensionati, “fine pena mai” sta scritto su vecchi faldoni, sentenze di tribunali che presto o tardi sarebbero diventate carta straccia. “Fine pena mai” sta scritto, con un inchiostro indelebile che non contempla amnistie e fughe e colpi di spugna, nelle menti di chi gli è sopravvissuto, di chi è rimasto tra gli ebrei rastrellati una mattina dell’ottobre 1943 nel ghetto di Roma, tra i ragazzini e i soldati fucilati in una cava di marmo sulla via Ardeatina nel marzo 1944, tra i padri di famiglia presi sulle porte delle loro case nei quartieri popolari di Roma, al Quadraro e a Torpignattara in una notte di aprile 1944, tra un’ex famiglia reale che dopo aver lasciato la capitale in guerra per paura perse una sua principessa secondogenita in un campo di concentramento tedesco, tra le donne e i bambini mitragliati senza pietà dentro una chiesa dove si erano rifugiati, in paesini toscani chiamati Marzabotto e Monte Sole, nell’autunno 1944, o nell’animo di un monsignore irlandese che rischiò la morte dopo aver messo in salvo nelle mura vaticane oltre quattromila persone, tra ebrei e prigionieri alleati e antifascisti, e che ora una volta al mese andava a visitare in carcere il suo mancato assassino, fino a farlo convertire.
In un appartamento nel castello diventato prigione un sottufficiale siciliano finito lì a scontare la sua pena per insubordinazione militare fa compagnia ai due vecchi nazisti. La sera accendono un televisore in bianco e nero: vedono i telegiornali e qualche varietà, Mina e Alberto Lupo, e forse quelle due gemelle tedesche, così carine, così brave a ballare e cantare. Da lassù l’isolamento è totale, si sentono i gabbiani e il mare che sbatte violento sugli scogli, ma forse l’estate il vento porta i rumori di qualche centinaio di metri più in là, i bagnanti sulla spiaggia dall’altro lato di Monte Orlando, i suoni e le risate dei night dove si divertono i soldati della base americana, i rumori delle gru che costruiscono le nuove case in condominio per gli ex contadini e gli ex pescatori del Borgo, che la guerra chissà se l’hanno già dimenticata. Ogni tanto una donna più giovane, un’infermiera di nome Anneliese, moglie divorziata di un capitano della Wehrmacht, sale le scale ripide del vecchio borgo medievale, la sera si ferma a dormire da “Civitina”, una pensione dagli arredi rococò gestita da due sorelle, un luogo di piacere prima che la legge li abolì sussurra qualcuno, la mattina si arrampica fino al castello, chiede di conferire con l’ufficiale Kappler, cui già in passato aveva scritto molte lettere, qualche volta la portano fino al suo appartamento.
Un giorno arriva una troupe della Rai, chiede di intervistare i due prigionieri di Gaeta. Sono del programma d’inchiesta Tv7. Solo Kappler decide di presentarsi davanti alla telecamere. Parla piano, come se pesasse ogni parola, come se ogni parola fosse una lama. Ha mai pensato di scrivere le sue memorie, gli chiede il giornalista. “No – risponde in italiano, con l’accento teutonico che non se n’è mai andato via – non mi piacerebbe, mi sembrerebbe un tentativo di autogiustificazione”. Preferisco passare il tempo leggendo libri, dice. “Non leggo storia contemporanea ma leggo soltanto ciò che mi piace, sopratutto argomenti di interesse scientifico. In fondo i miei interessi sono di carattere infantile: l’amore per la natura, l’amore per tutto ciò che è vita”. Si guarda attorno, fissa l’intervistatore negli occhi. “Mi sono occupato da piccolo di allevare farfalle, ma non per imprigionare o ucciderle, per farle volare”. In fondo alla stanza c’è una vasca piena d’acqua e di pesciolini tropicali, Kappler li alleva, ogni giorno gli cambia l’acqua, gli da del cibo. Kappler è in piedi, davanti alla vasca dell’acquario, indossa una tuta. Si sente rassegnato, gli chiede l’intervistatore. “Non ho mai visto questo mio stato come un castigo, anzi sono stato grato per avermi fatto uscire dai miei legami, da tutto ciò in cui sono stato imprigionato, così da farmi ritrovare me stesso, in senso religioso e cosmico”.
Si sente una vittima? Un lampo attraversa gli occhi di Kappler. “Mai sentito una vittima!”. La sua voce si fa dura, come se una specie di offesa lo attraversasse. “A volte vittima di maldicenze, ecco”. Il giornalista insiste, vuole chiedergli qualcosa sull’eccidio delle Fosse Ardeatine, sulle stragi per cui Kappler è stato condannato, sulle accuse da cui nel processo si difese ostinatamente sostenendo di non aver fatto null’altro che eseguire ordini superiori. Lui non vuole, respinge le domande gentilmente ma con fermezza. L’inflessione di chi era abituato a dare ordini. “Ci si dovrebbe accontentare di ciò che mi è stato affibbiato, ma non mi si dovrebbe ritenere l’unico responsabile. Sì, c’ero anche io, ma non ho creato io quelle circostanze, ho solo eseguito degli ordini. Ma le sarei grato di non approfondire questo argomento”. E’ vero che ha chiesto di andare a rendere omaggio al sacrario delle Fosse Ardeatine? “Sì, è vero, rispetto chi è morto per un ideale”. Davanti a lui tremava tutta Roma, ripete la voce dello speaker. Il criminale di guerra Kappler, vestito con la tuta, le grate alle finestre del castello, davanti alla vasca dei pesci tropicali sembra un nonno in pensione, sembra un professore di scuola di quelli che ti terrorizzano solo a guardarli, sembra a chi ha letto Hannah Arendt “la banalità del male”.
Nel 1972 Herbert Kappler sposò Annaliese nel carcere di Gaeta, testimone di nozze fu l’altro detenuto Reder. Le richieste di recarsi in pellegrinaggio alle Fosse Ardeatine, così come le domande di grazia, gli furono sempre negate. Nel 1976, malato di tumore, fu trasferito all’ospedale militare del Celio, sotto sorveglianza dei Carabinieri. La mattina di Ferragosto 1977 scappò aiutato dalla moglie che lo portò via rinchiuso in una valigia, in circostanze che in realtà non furono mai chiarite. Morì a Luneburgo in Germania nel febbraio 1978, circondato dai suoi cari e dopo aver rilasciato diverse interviste. Ai suo funerali una piccola folla di amici e nostalgici gli rese omaggio con le braccia tese del saluto nazista. Walter Reder fu messo in libertà condizionale nel 1980, con un’ordinanza del Tribunale di Bari che definiva la sua criminalità “occasionale e contingente in quanto collegata allo stato d’animo della guerra” e lo qualificava anche come “valoroso combattente in guerra”. Nel 1985 il governo Craxi, nonostante le proteste di familiari delle vittime ed ex partigiani, ne decise la liberazione e il rimpatrio in Austria, su un aereo messo a disposizione dallo Stato italiano. Nel 1986, ad un settimanale austriaco, Reder dichiarava “Non ho bisogno di giustificarmi di niente” e ritrattava ogni sua passata richiesta di perdono. Morì a Vienna nel 1991. Cosa desidera, è l’ultima domanda che l’intervistatore di Tv7 fa al prigioniero Kappler nel carcere di Gaeta, nell’intervista che ho rivisto negli archivi della Rai. “Vorrei ritirarmi nel più remoto angolo del mondo” è la sua risposta.