L' Agnello nero
L’alba era appena spuntata e una nuova giornata di lavoro stava per cominciare. I giorni erano sempre molto lunghi per quella piccola comunità nigeriana insediatasi nella periferia di Roma e per di più molte volte sembrava che il tempo addirittura si fermasse. Era il duro lavoro nei campi a regnare sovrano e molto spesso anche la severità di un padrone quasi sempre insoddisfatto di ciò che veniva prodotto. I tentativi di ribellione a quello stile di vita così duro erano svariati, ma a questi ultimi corrispondeva sempre una durissima repressione da parte del padrone.
C’era una persona che spiccava in quella ristretta comunità; egli sapeva infatti distinguersi dagli altri per la sua spontaneità e la sua simpatia. Si chiamava Mohammed; era un giovane nigeriano emigrato in Italia come tanti suoi connazionali alla ricerca di una stabilità lavorativa poiché il suo principale obiettivo era quello di garantire un futuro migliore ai suoi due figli.
Sebbene avesse soltanto venticinque anni, Mohammed si sentiva già molto vecchio dentro; la vita fino ad allora non gli aveva sorriso per nulla; infatti, dopo la morte dei genitori, avvenuta quando lui aveva solo quindici anni, aveva dovuto fare da madre e da padre ai suoi quattro fratelli più piccoli lavorando duramente per loro.
Nonostante tutto, il giovane nascondeva bene il suo passato e spesso si divertiva a rallegrare i suoi compagni di lavoro con barzellette e storielle divertenti e, durante qualche rara pausa della sua intensa attività, era solito improvvisare dei veri e propri spettacoli comici per la felicità di tutti i suoi colleghi.
Anche dal suo aspetto fisico si poteva notare quanto egli fosse abile a nascondere qualsiasi tipo di sofferenza sia passata che presente.
Era forte, muscoloso e forse proprio per questa ragione il severo datore di lavoro gli affidava spesso i compiti più duri da svolgere, cui Mohammed non si tirava mai indietro. Così facendo si guadagnava sempre di più la stima e l’amicizia dei suoi colleghi i quali ogni giorno lo ringraziavano per la sua enorme generosità e proprio questi ultimi lo avevano soprannominato l’”agnello nero” dato il suo grande cuore.
In uno dei tanti giorni di duro lavoro, il giovane Mohammed era impegnato nella raccolta del grano appena maturato con la solita dedizione quando all’improvviso sentì una voce che lo chiamava da lontano. Altri non poteva essere che il suo perfido datore di lavoro come sempre non convinto dell’operato di Mohammed e dei suoi colleghi.
Sembrava quasi come se il giovane fosse stato preso letteralmente di mira dal suo padrone; i rimproveri si facevano ogni giorno più frequenti e, sebbene il ragazzo cercasse in tutti i modi di mostrare i risultati del suo duro lavoro, quell’uomo dal carattere burbero tirava fuori la sua ira in maniera sempre più consistente.
Questa volta l’elemento del contendere era un quantitativo di grano che, secondo il padrone, non era abbastanza maturo per essere raccolto e Mohammed veniva così inevitabilmente accusato di superficialità.
‐ “Come ti sei permesso sporco negro?” chiese irritato il padrone, “Non vedi che questo grano è ancora acerbo? Ti meriteresti proprio un bel po’ di frustate!”.
‐ “ Lo guardi bene padrone” ribatté Mohammed con tono altrettanto adirato, “Questo grano è già abbastanza maturo e servirà senz’altro a sfamare le nostre bocche e quelle di tutti coloro che ne hanno bisogno. Non possiamo soltanto lavorare, abbiamo anche il diritto di prenderci ciò che ci spetta!”.
Queste parole, che per il padrone avevano il sapore di ribellione, costarono al giovane agricoltore l’ennesima dose di frustate che il padrone riservava a tutti i suoi operai che osavano ribellarsi alla sua volontà. Data la sua severità, considerata da tutti eccessiva, era stato soprannominato “Attila”. In realtà egli aveva un nome che non rispecchiava per nulla il suo modo di agire: Angelo. Era un ricco imprenditore romano di circa sessanta anni; possedeva aziende agricole in tutto il Lazio e oltre ma, gran parte della sua ricchezza, l’aveva ottenuta mediante degli affari non propri così leciti. Egli si occupava, infatti, anche di traffico di armi, prostituzione, racket e tutto ciò che aveva a che fare con il mondo della criminalità.
Per un breve periodo aveva anche conosciuto il carcere ma, grazie alla scaltrezza dei suoi avvocati era riuscito a sfuggire alla macchina della giustizia e a continuare i suoi loschi affari in totale libertà.
La sua vita era fatta solo di lusso, i suoi affari gli avevano permesso l’acquisto di ville megagalattiche e di mettere su attività commerciali come alberghi e ristoranti.
Dopo la lunga serie di frustate, che per il povero Mohammed sembrava non terminare mai, il giovane agricoltore ritornò al suo lavoro come se nulla fosse accaduto anche perché non aveva il diritto di lamentarsi perché, se lo avesse fatto, una nuova e ancora più severa punizione sarebbe stata inevitabile.
Anche in quell’occasione “l’agnello nero” ricevette la solidarietà di tutti i suoi colleghi di lavoro che in maniera sempre più frequente lo incoraggiavano a non arrendersi mai e a liberarsi definitivamente dall’orrore cui veniva quotidianamente sottoposto.
Erano ormai trascorsi dei mesi dal giorno in cui Mohammed aveva cominciato a lavorare per conto di quel padrone dall’assurda malvagità e sembrava che il giovane si fosse addirittura abituato ai continui soprusi di quell’uomo; ogni giorno Mohammed era costretto a lavorare sempre il doppio rispetto al giorno precedente. Il suo compito consisteva nel caricare su di un camion degli enormi quantitativi di grano che doveva essere successivamente trasportato e venduto.
Alcuni giorni era costretto persino a svegliarsi prima di tutti i suoi colleghi perché spesso era la gran fatica ad avere la meglio su di lui e il lavoro inevitabilmente doveva essere rimandato al giorno seguente; era stanco Mohammed ma si mostrava sempre allegro e con il sorriso sulle labbra.
Venne però un giorno in cui la stanchezza e la fatica ebbero la meglio sulla gran voglia di lavorare del giovane agricoltore nigeriano il quale decise di attuare stavolta un vero tentativo di ribellione; pensò quindi, insieme a tutti i membri della sua comunità, di denunciare alle autorità competenti il perfido padrone e porre fine per sempre a quella tortura sia fisica che psicologica che era costretto a subire quotidianamente. Dopo una lunghissima conversazione con la sua giovanissima moglie, sempre prodiga di buoni consigli per Mohammed, il giovane immigrato decise che la denuncia andava fatta sia per il suo bene che per quello di tutti i suoi connazionali che condividevano la sua sventura.
Fu così che l’indomani convocò tutti i suoi amici a casa sua per comunicare loro la sua decisione e, improvvisando un vero e proprio comizio sindacale disse:
‐ “Miei cari amici, anche se siamo solo degli immigrati e il nostro padrone ci considera solo degli sporchi negri, anche noi abbiamo la nostra dignità come tutti gli uomini della Terra e non possiamo assolutamente essere costretti a lavorare in maniera così dura e precaria!”. Dopo queste decise parole di Mohammed partì un grosso urlo di approvazione da parte dei suoi colleghi i quali, ancora una volta appoggiarono Mohammed in questa sua ennesima iniziativa. Alcuni giorni dopo la denuncia presentata dai giovani agricoltori nigeriani diede finalmente i frutti sperati; fecero, infatti, irruzione gli agenti del locale commissariato di polizia i quali disposero il sequestro dell’intera tenuta del signor Angelo detto “Attila” per la parziale contentezza di Mohammed. Il giovane, infatti, era felice a metà perché era consapevole che se la tenuta fosse rimasta a lungo sotto sequestro lui e tutti i suoi colleghi sarebbero rimasti altrettanto a lungo senza lavoro.
Fu così che Mohammed decise di presentarsi al suo padrone proponendogli la vendita dell’intera tenuta anche se ad una cifra abbastanza modesta. Il giovane promise inoltre al suo ormai ex datore di lavoro che se i guadagni fossero stati consistenti una buona parte di essi sarebbe andata proprio a lui. Dopo qualche iniziale esitazione il burbero “Attila si convinse e cedette davvero quell’immenso possedimento a Mohammed.
Il giovane era così passato da umile lavoratore ad imprenditore; decise quindi di dare una vera e propria svolta alla sua vita e a quella dei suoi connazionali. Dopo aver espletato alcune pratiche burocratiche per il dissequestro, assunse tutti i suoi compagni di lavoro con un regolare contratto garantendo loro uno stipendio più che dignitoso. L’ “agnello nero” poteva così festeggiare la sua vittoria; era riuscito ad accaparrarsi in modo onesto quell’immensa tenuta, la stessa che fino a quel momento gli aveva causato soltanto tanta sofferenza.