L'amica
“Non l’avevi ancora capito? Strano! Eppure ho fatto di tutto per fartelo capire.” I suoi occhi vispi e grandi erano puntati nei miei (quanto li amavo quegli occhi!). Il sorriso appena accennato tra l’amarezza e una sorta di ironia pungente mi lasciava senza fiato. Feci finta ancora di non comprendere: “Ma che c’entra la tua amica con la nostra storia?”
“Non prendermi per il culo, non te lo permetto. Tu sai, solo che sei un vigliacco e non vuoi ammetterlo. Hai paura.”
“Di cosa? Io voglio capire. Per una volta parla chiaro, ti prego”. Le mani iniziavano a tremarmi ma le nascosi nelle tasche, comunque gelate, del giubbotto invernale. I miei sospetti, quegli sguardi ambigui, i comportamenti oltremodo strani e apparentemente insignificanti. Tutto si stava rivelando nella sua brutale realtà.
“Ma dai!” Si girò stizzita dall’altra parte della panchina di legno. Lo sguardo perso in un punto imprecisato del parco silenzioso e vuoto. Non c’era anima viva e una sorta di atmosfera desolata e plumbea attorniava le siepi incolte e gli alberi scheletrici.
Mi avvicinai a lei dolcemente stringendole una mano: “So che passi molto tempo con lei ma non è stato mai un problema. Te lo giuro! Volevi i tuoi spazi e te li ho dati. Anche quando uscivate il sabato sera io non fiatavo e me ne stavo a casa a guardare la partita. L’ho fatto per te. Perché ti amo!”
Lei rispose con una smorfia di disprezzo girandosi di nuovo verso di me. Il cuore nel petto sembrava voler sfondare la gabbia toracica e con uno slancio violento volare via nel cielo, pesante di nuvole grigie. “Io e la mia amica stiamo insieme. Non fare lo “gnorri”. Non recitare. Non ci casco. Ti odio quando fai così. Tu lo sapevi ma hai fatto finta di niente. Te ne sei fregato. Mi fai schifo.”
Forse lo sapevo, forse no. In quel momento il tempo si era comunque fermato. Il parco era diventato una distesa di ghiaccio. Il mio aspetto pallido e smorto come quello di una statua inanimata, piegata nel dolore.
“Avevo dei sospetti. Quelli sì. Però mi sono fidato di te. Sapevo che non eri una persona cattiva e che mi volevi bene. Tu non mi faresti del male. Questo lo so.”
Di rimando assunse un’espressione dura, spietata: “Mi fai vomitare. Il signorino per bene. Ipocrita! Ieri sera abbiamo scopato tutta la notte a casa sua. Tu dov’eri? A guardare un film in tv?
Come ti senti? Lo so io. Sei uno senza palle.”
Il cuore nel petto si era fermato. Ora non voleva più uscire. Semplicemente aveva smesso di battere come stava finendo anche la mia storia. Cercai di dirle qualcosa di convincente. Non volevo perderla. Non in quel modo. Ne sarei morto di sicuro. Dovevo rimediare e farla di nuovo mia: “Lisa, amore mio, forse è un momento difficile e confuso per te ma insieme lo supereremo. Io ti starò vicino, sempre. Non ti lascerò mai sola. Vieni a stare da me. Vedrai saremo felici.”
“Felici… ah!”. Iniziò a ridere come una matta rivolgendo la bocca spalancata al cielo. I capelli rossi dietro la nuca sembravano avere vita propria mentre si muovevano al ritmo delle risa sempre più rumorose e ossessive. I miei occhi invece iniziavano a inumidirsi. Oppure era la pioggia che cadendo leggera dal cielo, mi rigava il viso? Non avevo più la forza di capire niente. Tutto era ovattato e triste.
“Non sono mai stata felice con te. Con la tua vita ordinaria e insulsa. Oh Dio! Ancora adesso mi chiedo come ho fatto a mettermi con uno come te. Con un agnellino bagnato e sofferente. Se potessi guardarti allo specchio. Avresti di sicuro pena di te. Dovresti darmi uno schiaffo, chiamarmi troia, lesbica e piantarmi qui e invece mi proponi di andare a vivere insieme. Il “perbenino”, l’ultimo romantico sulla terra, l’angelo dai buoni sentimenti. Mi fai vomitare, credimi”.
Piangevo. Non era pioggia. Erano le mie lacrime. Il corpo indolenzito e sofferente. Mi avvicinai tentando di abbracciarla in un gesto disperato. Una sola frase riuscii a proferire con voce rotta dal pianto: “Non mi lasciare, te ne prego!”
Si divincolò e alzandosi di scatto annunciò cinica: “ Me ne vado. Non ce la faccio a stare qui. Mi fai solo rabbia. Non chiamarmi. E’ finita!”
Con falcate veloci si allontanò, lasciandomi da solo con il mio dolore. Lì su una panchina di legno in mezzo al nulla. Panchina che nei giorni successivi occuperò ancora tante e tante volte tentando di esorcizzare un incubo che ancora adesso mi lascia attonito di giorno e mi tormenta di notte: La stronza mi aveva lasciato per l’amica.