L'Arca di Nenè
Dalla poca luce che penetra il tessuto riesco a vedere ben poco. Notte insonne di troppi rumori e lampi dietro la capanna malcelata dalla duna. Spiaggia al largo di Cartagine; c’imbarcheremo illuminati dalla luna e a me, che non ho ancora gambe forti per camminare e braccia possenti per remare,non restano che due occhi piccoli e profondi, la mano, pugnetto di riso appoggiato alla bocca, muco secco sotto le narici ed un panno tutto intorno al corpo.
Nenè, mi chiama mia madre e la sua voce è l’unica cosa che so capire; non le urla di chi è forse mio padre, non i rombi frenetici delle jeep e neanche gli strani scoppi lontani e poi sempre più vicini vincono il mio pianto come quel suono roco e gentile – Nenèèè…Nenèèè. Torna a cullarmi questo suono mentre respiri affannosi si confondono al tamburellare di mille piedi sulla sabbia. Se non fosse per l’armonia delle onde sempre uguale ci sarebbe ben poco da stare allegri sotto questa luna di promesse e paure. Balla tutto qui, mia madre a fatica mi tiene stretto al petto, io cerco solo di non perdere di vista la luna, all’improvviso coperta da un viso pauroso ed impaurito – Giù nella stiva! Giù nella stiva! La donna e il bambino giù nella stiva! Se avessi la mente affollata di ricordi come questa barca di persone, saprei come vincere il terrore che provo, ma sono al mondo da così poco tempo e per quel poco che ne so non potrei che raccontare della guerra. Quando siamo partiti guardavo quei teloni impolverati della carrozza a motore, meno stabile di una zattera nella tempesta. Giù nel Chad, i giorni più che segnare l’esistenza giocano a nascondino con la morte, tra agguati nelle strade e rappresaglie all’ultimo sangue. Tanto vale scappare Nenè! – sussurrava mia madre quando nel cuore del Sahara, il cammino si faceva più lento e le lacrime mi graffiavano il viso. Da un conflitto all’altro, stremati ed assordati dal frastuono delle bombe che mamma parava premendomi la mano sulle orecchie, anche nella Libia crudele dove molte delle persone che mi viaggiavano accanto venivano inghiottite dal sole accecante. Nemmeno la carrozza a motore c’è più, si è persa tra le strade di una grande città, lo sguardo scavato di mia madre non mi consola, ma resto aggrappato a lei come unico appiglio in questo inferno senza fine. Tozeur! Tozeur! Sento gridare da lontano, mia madre ride e piange mentre ora, dall’ocra del deserto, spunta il giallo più vivo di un torpedone sgangherato. Anche qui si balla, ho fame e sete, ma piuttosto che piangere faccio finta di dormire malgrado il rumore. Alcuni uomini pallidi e gentili, ci lasciano riposare e ristorare un po’ ma io continuo a piangere dentro. Esisterà su questo mondo che conosco appena, un qualcosa che non sia la guerra? En Italie mon bebè!
Il Torpedone ci lascia al Porto di Tunisi, corrono tutti verso una direzione ben precisa. Si spara ancora, ma ormai, imbacuccato come sono, ci sono abituato. Nessuno ci colpirà! Per questa gente, così come per i libici, siamo fantasmi che passano tra conflitti e carestie a loro rischio e pericolo, come se attraversassero un muro di pietra – cosi parlava uno con mia madre durante il viaggio, quell’uomo non l’ho sentito più, molto più nitidi i suoi lamenti, quelli di tutta questa gente agitata e compressa come acini di un grappolo, come i lamenti di mia madre, indomabile riparo alla mia vita. Intanto arrivano spruzzi di acqua gelida anche qui sotto. E’ finalmente l’Italia quella che ci aspetta, l’Italia della pace e della democrazia, l’Italia che non conosco ma che mia madre, giura, imparerò a fare, ha speso tutto quello che aveva per assicurarmelo. Lì non c’è la guerra, anzi, la ripudiano, così si dice! Ma intanto qui, invece di procedere, si fa su e giù, i miei occhi neri non sono mai stati così sbarrati, nemmeno sotto il sole del Sahara e non riesco ancora a capire cosa stia accadendo. Mi sento più stretto al ventre di mia madre, su di noi altre persone, quasi non respiro più. E’ per questo che abbiamo viaggiato così a lungo? Voci lontane ed incomprensibili danno la netta sensazione che oltre sarà impossibile andare – L’Italia ripudia la guerra e tutti coloro che da essa scappano – urla qualcuno piangendo, io poggio il mio pugnetto di riso e le sue cinque piccole dita sul seno di mia madre, questa volta i miei occhi si chiudono ed io mi lascio rapire da un sogno bellissimo: sono tra le braccia di una donna, occhi chiari, boccoli biondi, mi sorride, non è mia madre, ma ciò che mi ha promesso. Il sole qui non brucia come in Africa, il vento accarezza e non fa male, e la guerra è lontana per me che sono ancora da così poco al mondo per potermi raccontare un’altra vita.