L'ENORME UCCELLO ROSSO
L’ENORME UCCELLO ROSSO
Una sera uscii dal mio lager di lavoro con l’illusione di andare ad una casa, a salutare una moglie, a baciare un figlio, a dormire in un letto, per poi ritrovarmi di lì a poche ore, a rientrare nel mio lager con annessi cancelli di ferro e filo spinato tutt’intorno. Una sera dunque, una delle migliaia sprecate per la mia vita di artista, uscii invece con la mia tuta da operaiaccio e vidi di fronte a me, lì sospeso nel cielo, un enorme uccello, grande e rosso con una testa enorme. Lo so, lo so a cosa state pensando, come se conoscendomi, da me da un momento o l’altro ve lo sareste aspettato. Ma vi dico subito che non era un cazzo gigante che svolazzava su per il cielo come un pallone aerostatico. Era bensì l’uccello simbolo dell’Auchan che a completamento di un altro grande mostro che avevano costruito proprio lì, di fronte alla nostra fabbrica‐lager, avevano issato con fili quasi invisibili e con gran fretta quella sera.
E l’uccello stava lì quasi pensieroso, e cadeva proprio di fronte all’uscio della nostra mensa come a dire “ anche quando mangiate non dimenticatevi dell’uccello … enorme ”. Allora metti che qualche donna o qualche frocio sia stato in quel giorno indisposto, perché fargli venire il vomito proprio mentre mangiavano? Ma il vomito vero era che ora c’era un altro centro mentale dove correre a spendere ( chi poteva ), un altro centro insano come un manicomio fallito, proprio di fronte ad una fabbrica che s’apprestava, per papocchie varie fra i grandi, a mandare centinaia di operai a cassa integrazione. Ora dico, per me le fabbriche non avrebbero mai dovuto esistere, come i lager nazisti di Auswitz ecc, ma questo era un vero e proprio insulto per noi, deportati dalla società ad entrare ogni mattina presto e a rotta di collo, ( infrangendoci non solo il sonno ma anche i nostri sogni, come ad esempio una mattina bestemmiai perché la maledetta sveglia aveva interrotto un orgasmo che stavo per avere con una collega che neanche mi cagava), nel nostro lager a cui eravamo dal destino stati assegnati e qualcuno era stato pure contento. Pure io fui contento fino a prendere la mia prima paga, prima cioè di sapere poi bene cosa fosse il denaro. E quindi con il tramonto che quell’enorme uccello si era preso tutto per se, sul suo petto gigante ( eravamo in estate quasi, altrimenti per i nostri orari col cazzo che vedevamo il colore, anche dell’ultimo raggio di sole ), sputai quasi in faccia ad un altro disgraziato che come me aveva finito il suo turno di lavoro e camminava come un moribondo che appena si reggeva in piedi, una caramella che non avevo finito di succhiare. Mi misi nel mio catorcio che bolliva come una pentola a pressione e col culo che mi scottava sul sedile mi avviai verso solo la fine di un altro giorno che moriva per la mia vita, e la mia vita era piena di cadaveri. Non un giorno che sussultava di vita! A volte penso che i nazisti non erano stati niente in quanto al furto di anime. E appena fuori del cancello vedo una sola ombra sul lungo marciapiede di periferia, un’ombra femminile, e penso “ ecco almeno una visione di femmina nel rosso di un tramonto profondamente dissanguato ”, ma spero che non sia lei, ed invece e’ proprio lei. La puttana che sta’ andando a battere, proprio lì, fra la fabbrica e l’ipermercato delle delizie e dei pazzi gioiosi. Passa vicino al piccolo cimitero e si fa il segno della croce a rispetto di un Dio che non ha rispetto per lei e dei morti che sono gli unici a non poterla guardare. I morti sono morti, e Dio dell’universo s’è lasciato andare con la mano ed ha creato un universo tanto grande in cui ci si è perso lui stesso ed è per questo che non l’abbiamo mai visto. E ribestemmio di nuovo per quella giornata, perché la sola bella cosa della vita, la visione di una donna, anche se una puttana, mi era stata cancellata con il gesto del segno della croce che s’era fatta, ed eravamo al secondo sogno infranto per quella giornata.
E mi venne da pensare a cos’era il mondo, possibile che c’era gente, una marea di gente che così l’aveva voluto il mondo? Possibile? Non mi ci si potevo proprio abituare io a questo mondo.
Ero nato in cattività e questo sembravo saperlo solo io.
Misi le dita nel taschino e ripresi a succhiare un’altra caramella.
Cercai di trarre del dolce da quella pietra di zucchero attaccata al palato, come un’ape che prosciuga di nettare il suo fiore, ma è molto più fortunata l’ape.
Sulla strada c’erano tre o quattro bar a testimonianza che ce n’era di gente che non c’aveva nulla da fare e se la spassava seduta sopra gli sgabelli al banco, e mi accostai a caso ad uno di quelli. Lasciai il mio catorcio aperto, in balia di chiunque avrebbe voluto approfittarne per farsi un giro, e ordinai una serie di bicchieri. La barista era una bella bionda straniera. Sembrava che in quel periodo andassero di moda le bionde straniere al banco. Anch’io in quel periodo sentivo una certa attrazione per le donne straniere dai capelli chiari. Allora al quinto bicchiere gli chiesi di uscire facendomi capire a modo mio, che me ne fregava se per farmi capire facevo gesti con le mani sembrando una scimmia? Certe volte per fare l’amore non serve tanto parlare. La invitai sperando che non fosse anche lei una vittima della società malata, e che avesse in mente altri tipi di uccelli rossi.
Quando me ne andai, guidando il mio macinino, feci il resoconto di quel lunedì: avevo sprecato le prime dieci ore del giorno e negli ultimi cinque minuti avevo dato il meglio di me contribuendo alla felicità del mondo,oltre che del mio essere. Avevo iniziato il percorso verso una nuova conquista e avevo bevuto per dimenticare un’altra giornata andata a male come un formaggio pecorino avariato e puzzolente. Male che mi sarebbe andata, mi avrebbe fermato la polizia e avrei passato una notte in cella con altri evasi dalla società, e solo così forse potevamo dimenticare l’incombenza a tutti i costi dell’enorme uccello rosso.