L'epoca post lauream
Oh quale ebbrezza! Qual periodo fulgido e rigoglioso fu l’epoca post lauream!
Sono bastate poche parole per aggiudicarsi quel posto alla Fondazione di Ricerca. E forse quelle parole erano anche eccessive, ridondanti. Quel posto era mio prima ancora che esistesse. Non c’era bisogno di un colloquio.
Il mio spirito tonico e cristallino si irradiava nei corridoi, surfando sulle patinate superfici delle scrivanie, saltellando tra i tasti snelli dei notebook e le poderose cassettiere delle fotocopiatrici. Il lucido parquet accoglieva i miei mocassini neri varati il giorno della discussione della tesi, con uno strepitio di scricchiolii entusiasti; il mio abito blu elettrico sagomato, svolazzava e conquistava le mie colleghe e le loro boccucce arricciate e imburrate al cacao, per me s’improvvisavano sensuali balletti sincronici di languide ciglia.
Ed io? Rispondevo a quelle avances?
Ero immortale nell’epoca post lauream. Ero dotato di tutto, anche di una virilità sensibile e levigata e fanciullesca, una virilità fresca e al passo coi tempi: discreta e astratta durante il giorno, feroce e persecutoria la notte. Ero tutto questo, e tutto si poteva leggere nei mie occhi, non c’era bisogno di tante parole.
Non ci misi molto a conquistare anche i miei capi, e il loro seguito di sciatti e timorati tirocinanti, assieme a tutti i nostri clienti. Mica casalinghe, disoccupati, clandestini, zingari. No, pezzi da novanta, la crema pasticcera del sistema produttivo della penisola. Mica Cazzi!
“Buon giorno sono il Dottor X, ricercatore della Fondazione Y. Attualmente mi sto occupando di una ricerca di prim’ordine. Noi siamo l’avanguardia della ricerca in campo organizzativo e sistemistico, noi siamo capaci di ideare ami in titanio a prova di consumatori critici e ideologi, abbiamo un novero di esche succulente per i vostri banchieri, creatività impavida al servizio del capitale con l’appeal di una soubrette minorenne procace quanto una Dea Madre, ma non un reperto archeologico, Nossignori!, La nostra Dea è brutalmente moderna, erotomane e popolare, introspettivamente corrotta dal mercato ma esteriormente vergine e intatta grazie a delle incisive plastiche e applicazioni al silicone osteointegrante”.
Erano giornate pregne di avvenimenti. Battendo ogni record di vendite riuscimmo ad inanellare una serie incredibile di vincite di appalti, concorsi, consulenze.
Quanto a me, la sera tornavo a casa esausto ma soddisfatto.
Un giorno senza alcun preavviso arrivò l’inverno. La temperatura cadde di venti gradi in poco più di trequarti d’ora, con il tramonto. Tornai a casa con le mani gonfie, tremavo. Mi lanciai sui termosifoni, ricordandomi solo dopo che vivevo in una casa senza termosifoni. C’erano delle stufette elettriche. C’erano, una volta, ma il ragazzo che ci viveva prima se l’era portate via. Potevo andare in cucina, accendere i fornelli. Potevo, e così ho fatto. Ma quei fornelli mi hanno deluso. Dopo alcuni singhiozzi di scintille hanno esalato l’ultimo spiro di gas.
Ma potevo lasciarmi andare? Io, eroe della nuova rivoluzione, Io e il mio spirito strepitoso potevamo abdicare così di fronte a delle difficoltà? Non mi sarei lagnato, come quei giornalisti, o avvilito come i politici abbassando le brache alla crisi energetica in diretta nazionale. Era un bene che in quella casa non ci fosse una televisione. È facile abdicare, seduti in prima fila di fronte alla propria birra. Ma noi siamo nella fulgidezza, noi siamo le saette scoccate da Zeus, e possiamo sopravvivere a gelate polari, tsunami, esperimenti elettromagnetici, gassificatori postnazisti e squadracce postfasciste. La crisi? La crisi mi fa un baffo, la crisi è il bidet della mia paura, la lavatrice…
In cucina c’era acqua alta. Non me n’ero accorto. Forse si era rotto qualcosa, anzi forse era il caso di togliere quel “forse”, perché si era rotto il tubo dello scarico. La cucina era un lago. Cristo!
Dovevo chiamare assolutamente il padrone di casa. Uscii da quella piscina con piano cottura e tornai in camera, alla ricerca del telefono. Lo trovai, composi il numero, e aspettai invano che squillasse.
Nell’attesa intervenne la signorina con la voce metallica a ricordarmi (ed era il mio caso) che il credito non era sufficiente, ma che dire sufficiente, era un credito ridicolo. Quasi si fece una risata. Io, mi trovavo addosso delle sensazioni contradditorie. Poi il telefono squillò, era lui: il padrone mi mandava un messaggio. Mi chiedeva se avevo intenzione di pagare l’affitto. Di già? Era già passato un mese? Quelle che mi trovavo addosso non erano più sensazioni contradditorie ma presagi.
Potevo lasciarmi andare? Io, spirito ebbro e devastante, Io: formula alchemica per il dominio del Tempo. Io, solo. Solo. La mia faccia sullo specchio all’ingresso mi ha spaventato. Non mi ero accorto che avevo le labbra livide e le pupille a bagno in una sclera radioattiva. Non erano semplici occhi arrossati, erano occhi malati. E la malattia come la crisi mi avrebbe fatto un baffo, sarebbe stata anche lei il bidet della mia paura, il bancomat…
Andai al bancomat per ricaricare il telefono, e dare un’occhiata al conto. Una volta inserito il mio codice segreto iniziò l’attesa. L’angoscia si insinuava e neanche me ne rendevo conto. Faceva un freddo cane. E poi quell’angoscia si schiarì la voce meccanica e declamò, concisa ed efficace:
“Caro Dottor X, nel mentre Lei assecondava il suo solipsismo interiore quale evoluzione matura di una fantastica masturbazione adolescenziale, la Sua banca ha colto l’occasione di investire i suoi 550 euro netti in busta paga mensili in tecnologie militari e viaggi esotici per i topmanager. Il tutto è stato fatto in buonafede, consapevoli del suo spirito tonico e cristallino, e della grande tenacia e grinta che la contraddistingue. Siamo fiduciosi che saprà trasformare questa mancanza in ricchezza, e qualora ciò non accadesse le auguriamo che il decorso della sua malattia ed il lento scivolare verso la povertà assoluta e l’indegenza più vergognosa, si concluda senza atroci dolori, magari con un colpo apoplettico la sera dell’orgia più godereccia a cui abbia mai preso parte”.